mercoledì 5 agosto 2015

                                                               Emozione e corporeità

                                                          Il corpo nelle pratiche educative

Negli ultimi anni stanno sorgendo sempre più numerose, ricerche che hanno per oggetto il corpo e la sua relazione con la mente; dalla psicologia alla pedagogia, dalla medicina psicosomatica all’antropologia, il corpo è sempre più sotto analisi, alla ricerca di un nuovo modo di comprendere in una diversa accezione questo delicato rapporto fra corporeo ed incorporeo. Il dualismo cartesiano è entrato quindi nettamente in crisi; parlare di mente senza considerare la dimensione corporea, risulta oggi del tutto fuori luogo. L’ottica secondo la quale la dimensione corporea che la nostra tradizione intellettualistica vorrebbe completamente piegata alla volontà della psiche, è stata ridimensionata e modificata, dimostrando come i due piani non siano realtà separate da disporre in due classi gerarchiche distinte ma entità inscindibili che operano in sinergia costante.
Il corpo non rappresenta più quindi, la “marionetta” da sottomettere ai comandi della volontà ma diviene a tutti gli effetti il luogo del sentire e dell’espressione delle emozioni, rappresentando il confine tra noi ed il mondo in cui avviene l’incontro tra le gli avvenimenti e la nostra interiorità.
Già da diversi anni gli analisti di stampo bioenergetico (si pensi alla scuola di Lowen) hanno dimostrato come sia possibile intervenire sulla psiche e sulle emozioni più profonde dell’uomo, partendo proprio dai blocchi energetici che si manifestano a livello fisico, come contratture, rigidità, dolori, ecc. Il corpo diviene specchio della dimensione più intima dell’uomo e lavorando con il contatto fisico e gli esercizi di bioenergetica, il terapeuta riesce ad entrare in sintonia con il paziente, aiutandolo a modificare gli aspetti patologici del suo comportamento.
Corpo e mente forniscono insomma, differenti livelli di conoscenza: una sensibile, legata alle informazioni che provengono dagli organi di senso; l’altra in cui la mente organizza e struttura le informazioni di cui è in possesso secondo schemi oggettivi, razionali, generali ed astratti.
Ecco allora che anche in ambito pedagogico l’ottica subisce una nuova curvatura perché adesso, educare significa organizzare percorsi didattici che partano dalle esperienze del corpo vissuto/vivente nella direzione di apertura ed incontro con il mondo esterno, di ciò che si trova oltre la fisicità soggettiva: dall’esplorazione dello spazio corporeo, all’orientamento nello spazio e nel tempo, all’esplorazione dei propri vissuti emotivi, delle proprie memorie, delle tracce che ognuno descrive nel mondo così come in se stesso, fino alle tracce segnate da altri nei loro propri corpi, frutto di diverse esistenze trascorse.
I corpi rappresentano l’impronta della differenza soggettiva, a partire da quella di genere, attratti l’uno dall’altro dal desiderio di scoperta, fusione, di cura e conoscenza, che rientrano a pieno nella sfera del percorso educativo; un desiderio di conoscere che genera sensi, dona significati, implica responsabilità nei confronti di se stessi e degli altri. Educare significa allora sensibilizzare il soggetto al sentire, a riconoscere i propri sentimenti, a comunicare non soltanto con le parole ma con diverse forme espressive, come il gesto, lo sguardo, l’azione spontanea, ecc. Ecco che allora l’emozione si fa azione all’interno delle diverse forme di socializzazione adeguate alle varie capacità, possibilità e strategie espressive di ciascuno: è all’interno della scuola che l’insegnante riesce a proporre modelli validi e trasmettere strategie e tecniche che consentono all’allievo di raggiungere autostima ed autonomia. Azioni e forme diverse di socializzazione possono quindi essere sperimentate andando alla ricerca di nuovi significati ed orizzonti di senso, grazie soprattutto alle tecniche ed alle strategie tipiche della meditazione, contemplazione, training autogeno, yoga, ecc.
Insomma, grazie alla dimensione intersoggettiva, alla sperimentazione dei diversi linguaggi gestuali, è possibile scoprire il binomio corpo-sentire in una nuova ottica che fornisce nuove declinazioni, collegate non soltanto alla dimensione dell’irrazionalità e della passionalità, ma anche a quella del pensato e riflettuto, frutto di una personale rielaborazione dei diversi vissuti.
Sperimentare la propria gestualità ed il movimento del corpo nello spazio diventa un modo di percepire ed elaborare il proprio essere nel mondo con gli altri, sia nella direzione dell’azione, cercando di sapere e di saper fare, sia in quella della meditazione, in cui si lascia spazio alla dimensione del non sapere del corpo, del possibile, all’interno di un tempo dilatato e di uno spazio silenzioso, all’interno dei quali è possibile mettersi tra parentesi e sospendere il giudizio sul mondo, prendendone momentaneamente le distanze.
E’quindi possibile avvicinarsi alla danza, anche in un contesto scolastico, ma lontani dalla sua valenza tradizionale che vuole il movimento codificato e lineare; può essere una gestualità scombinata, fuori dagli schemi, poco aggraziato e spigoloso, unita alla moderazione ed al rilassamento dello yoga o di altre tecniche di meditazione orientale, fino a giungere alla negazione del movimento nella totale immobilità della postura, richiesta dalle pratiche contemplative.
Nell’educazione alla danza o in altre pratiche motorie, l’oggetto in questione non è tanto l’apprendimento di gesti aggraziati che potenzino l’apparato muscolare o che migliorino le prestazioni del corpo, quanto piuttosto una formazione attraverso il movimento che mira alla conoscenza ed al riconoscimento del proprio schema corporeo ed alla consapevolezza delle valenze comunicative e simboliche del corpo, immergendo la pratica motoria nel contesto dell’educazione alle arti, in modo da avvicinare il sistema valore-simbolo a quello degli altri linguaggi artistici.
Questo modello, possiede una curvatura del tutto particolare perché si appropria degli insegnamenti che provengono da culture e filosofie differenti ed in particolare da quelle orientali che fondano la loro riflessione proprio sulla sintesi degli opposti e sul loro dinamico intreccio verso un temporaneo ma necessario equilibrio, inteso come fonte di energia vitale dell’individuo e dell’intero universo.
Le vie ascetiche orientali, o comunque le pratiche psicofisiche maturate in India e in Cina, possono insegnarci tanto mostrandoci l’importanza dell’esperienza nei percorsi di conoscenza, laddove il termine esperienza si accosta in modo nuovo a quello del pensiero, al vivere i propri stati di coscienza allo scopo di migliorare la qualità della vita ed il proprio essere nel mondo con gli altri.
Da un punto di vista pedagogico è importante constatare che il concetto di azione e non azione rappresentano gli aspetti fondanti della costruzione della conoscenza in quanto incontro fra soggetto e mondo. Leggendo il Tao te Ching ci accorgiamo che il concetto di non azione taoista non significa assolutamente inerzia o passività di fronte al mondo della vita, anzi, rappresenta invece l’espressione di una sintonia, di una concordanza e condizione che, secondo questa visione della realtà, rappresenta il più alto potenziale di un corretto esercizio interiore, volto a riscoprire l’importanza della realizzazione di una mente semplice, chiara, pulita ed essenziale. La Via, tanto ricercata dai saggi e dai filosofi orientali, rappresenta la metafora con la quale si vuole aiutare l’uomo ad accostarsi serenamente a quel processo di cambiamento e di crescita in se stessi, progressivamente, passo dopo passo, attraverso un graduale processo di autoeducazione.
L’attività meditativa tipica delle tradizioni orientali propone modalità di conoscenza e di educazione attraverso il corpo nelle quali azione e non azione sono compresenti completandosi a vicenda: la meditazione non è più in tal senso, un modo di conoscere opposto a quello dell’azione bensì l’altra faccia della medaglia che si traduce, nel corpo, in tensione e rilassamento, in movimento e stasi, silenzio e suono. La funzione fondamentale di questa pratica è quella di mettere l’unità somatopsichica nella condizione che permetta un cambiamento a ritroso nell’intenzionalità del soggetto, aprendo il cuore alla possibilità del cambiamento. In tal senso il cuore è da considerare, in maniera simbolica, come quel nodo che concentra la globalità dell’esistere, in cui misteriosamente si trova la radice della coappartenenza tra mentale, cognitivo, intenzionale e corporeo. Il cuore, in quanto patria dell’emozione, di un’intelligenza emotiva ed affettiva, rappresenta il crocevia tra l’attribuzione di senso e la percezione del mondo. Come dire: ogni cambiamento della propria esistenza non è soltanto di natura cognitiva ma è pure determinata dalle tonalità emotive, che investono la totalità dell’essere, fatta di corpo, affettività ed intenzionalità.
  Non può esservi, in sintesi, cambiamento e tanto meno educazione, se non si percorrono vie che tengano in grande considerazione non solo la conoscenza di tipo razionale ma anche quella estetica, ponendo l’accento sull’importanza dei sentimenti e delle emozioni nei processi di significazione del mondo. Dal punto di vista delle filosofie orientali, l’azione non rappresenta soltanto il movimento ma si determina anche come stasi; l’immobilità rappresenta dunque una via, una strategia che non può essere considerata neutra in campo educativo.
Ma il corpo può anche divenire il veicolo della sofferenza e del dolore; il corpo che invecchia, il corpo che si ammala, diventa allora testimonianza e metafora di un corpo vissuto/vivente che lotta e si ribella al suo destino di malattia e di morte, aprendosi alla dimensione dell’amore e dell’esperienza limite, che lo vedrà negato e sconfitto. La consapevolezza della prossimità della morte, apre spiragli intrisi di connotazioni formative, obbligando l’individuo a riformulare il proprio progetto esistenziale, una rivisitazione del proprio essere che dal piano della salute deve necessariamente proiettarsi su quello della malattia. Fra difficoltà e dolori il soggetto è costretto a sperimentare cambiamenti, riprogettando la propria esistenza anche a costo di cadute, smarrimenti e di abbandoni.  
La malattia e di conseguenza la morte, rappresentano quell’esperienza limite, in cui la sostanza, la fisicità del corpo scivola progressivamente nell’etereo, nell’invisibile, verso tutto ciò che si contrappone alla dimensione concreta dell’esistere ed alla sua progettualità di vita futura .

1.2 Le emozioni e la loro funzione

La nostra cultura, come abbiamo accennato nel precedente capitolo, ha sempre considerato la dimensione intellettuale prioritaria e superiore rispetto a quella fisica. Il lavoro intellettuale ha sempre goduto un maggiore prestigio rispetto al lavoro manuale, come ad esempio quello artigiano; negli ultimi anni comunque, complice la cultura americana, il corpo ha subito un nuovo passaggio di grado, infatti, grazie allo sport competitivo, oggi l’individuo abile nel basket o nel football, non ha niente da invidiare al medico o all’ingegnere, anzi. Tuttavia, anche in questo caso puntare il riflettore solamente sulla dimensione fisica, strutturata solamente in termini di efficienza, funzionalità ed estetica, porta con sé tutta una serie di altre problematiche, tipiche della nostra epoca, che vanno dalla non accettazione di sé, all’anoressia, alla bulimia. Il punto cruciale è proprio questo: focalizzare l’attenzione su quella linea di confine che unisce e separa allo stesso tempo il corpo, con la mente ed il mondo esterno: l’emozione. Le emozioni rappresentano le reazioni fisiologiche a determinate situazioni o stimoli esterni e  l’uomo spesso, troppo preso dalle distrazioni quotidiane, difficilmente riesce a distinguerle, riconoscerle e gestirle in maniera costruttiva. Le emozioni per l’uomo moderno sono un qualcosa del tutto sconosciuto e di difficile identificazione; sono un universo sommerso che condizionano i nostri rapporti interpersonali, con i colleghi, gli amici, il partner e sono tra l’altro, alla base della nostra disponibilità ad apprendere in maniera significativa. Le nostre esperienze di vita sono supportate dalle emozioni che fungono da motore motivazionale. E’ l’emozione che rende più o meno pregnante e significativa un esperienza ed è quella che permette di lasciare tracce nella nostra esistenza in maniera determinante o superficiale. L’emozione dà il tono all’esperienza e la forza con cui  rimarrà impressa nella mente, l’apprendimento di determinate nozioni. Come chiarisce Goleman , ogni individuo è dotato di abilità intellettuali ed emozionali, che non operano su piani distinti ma interconnessi che lavorano in sinergia nelle diverse esperienze di vita umana: dal piacere al desiderio, dalla cognizione al processo di formazione e di apprendimento.
Ecco che allora questa visione condiziona anche l’attività dell’insegnamento, che non può essere semplicemente fornito ma deve essere necessariamente costruito attraverso la mediazione di una relazione che sia significativa non soltanto sotto il profilo dei contenuti da trasmettere ma anche da un punto di vista affettivo perché senza la forza delle emozioni condivise fra docente ed allievo, non si determina nessun apprendimento duraturo e realmente significativo.  
Un insegnamento sterile che si focalizza unicamente sulla trasmissione di contenuti dall’emittente al ricevente, può solo dar luogo ad apprendimenti mnemonici, che sicuramente svaniscono subito dopo la fase della verifica.
E’ logico quindi cominciare a ripensare i processi formativi, ribaltando quella che da sempre è stata la consuetudine dell’educatore: reprimere gli impulsi emotivi, la vitalità, in modo da favorire l’apprendimento. Tutto sembra concordare con questa filosofia, ne è una prova tangibile la richiesta di immobilità dietro al banco di scuola, nella convinzione che solo attraverso la repressione delle cariche vitali fosse possibile attivare qualsiasi forma di apprendimento. Nuovi settori di ricerca indicano invece la possibilità/necessità di uscire da questa ottica, per adottare un diverso modo di lavorare, dove l’emozione non è più da reprimere ma da formare, considerato motore essenziale della pratica educativa. La crescita e la maturazione degli individui sono sempre state considerate in relazione al dominio delle passioni ed alloro progressivo di scostamento, a favore dell’attività cognitiva, che deve portare gradualmente ad una piena e totale razionalizzazione delle cose e dei fatti. Le attività di drammatizzazione e di gioco, le ore dedicate alla creatività e manipolazione, vengono del tutto abbandonate quando il bambino dalla materna, fa il suo ingresso nella scuola primaria. Tutto si gioca dietro il banco, il corpo è ormai dimenticato, si deve solo ascoltare, memorizzare e ripetere. Le moderne neuroscienze hanno ormai ben evidenziato come l’acquisizione dei saperi avvenga attraverso dal rapporto che si stabilisce tra il sistema cerebrale umano e l’organizzazione delle informazioni, sotto forma di stimoli, che derivano dall’esperienza che il soggetto fa del mondo in cui vive. Il messaggio ha una duplice valenza: da una parte tiene in considerazione la struttura di base genetica, che è unica per ogni individuo, dall’altra il particolare legame che essa stringe con i diversi vissuti.
Partire dal corpo significa recuperare la sensorialità, l’emozione che è alla base del percorso di apprendimento, dando nuovo significato al sentire e al percepire. L’ottica Spinoziana per cui mente e corpo sono un unico e medesimo individuo, coincide con le dottrine orientali che vedono l’uomo come una sintesi mente-corpo e che solo una pedagogia negativa può scindere queste due parti, rendendo l’uomo incompiuto ed infelice. Tornare ad essere con il proprio corpo vuol dire allora cercare, attraverso il gioco, il teatro, di sperimentare, riconoscere e gestire al meglio le proprie emozioni, puntando i riflettori non più sulla sola produzione cognitiva, ma anche sulla dimensione gestuale e recitativa, dove sia possibile sperimentare come i due piani azione/pensiero siano intimamente connessi, grazie alla mediazione del “sentire”.
Ma cosa è allora, un’emozione? La Collacchioni , attraverso un excursus storico, dimostra come l’emozione da sempre  sia stata considerata dai maggiori pensatori una colonna portante della rappresentazione della vita morale delle persone. Tradizionalmente le emozioni sono viste come un qualcosa che ha a che fare con alcune manifestazioni del comportamento, reazioni deleterie e disfattiste che si contrappongono alla luce della ragione. Oggi questa teoria non convince più e ad una analisi più attenta ci accorgiamo come i comportamenti dettati dalle emozioni, come paura, rabbia, aggressività, ecc., siano parti costitutive del nostro patrimonio genetico e siano sopravvissuti in tutti questi millenni perché hanno aiutato l’uomo a sopravvivere ai pericoli e ad adattarsi a circostanze diverse. L’emozione ha la funzione di collegare il nostro corpo al mondo, informando immediatamente della situazione nella quale siamo coinvolti. Se il modello ipotetico/deduttivo al quale la nostra mente si ispira risulta essere lento e sempre mediato, l’immediatezza dell’emozione avverte il corpo affinché reagisca nel minor tempo possibile. La razionalità ha sempre avuto comunque il monopolio sulla vita emotiva, confermando la supremazia dettata dalla filosofia della necessità di dominio della vita interiore; tuttavia la dottrina dell’equilibrio e del giusto mezzo, tipica del pensiero aristotelico, ha messo in evidenza come non debba esserci antagonismo tra i due aspetti dell’essere umano (cuore/mente), ma sinergica cooperazione.
Il concetto di intelligenza che da sempre ormai domina nella nostra cultura, si basa sul presupposto che questa facoltà sia una struttura monolitica e traducibile in un punteggio, risultante dal rapporto età mentale/età cronologica.  Al di là dell’utilizzo e della sua efficacia come strumento in ambito neuropsicologico per la diagnosi ed il recupero di specifiche patologie mentali, questa visione dell’intelligenza risulta essere superata perché considerata di limitata portata e frutto di una visione troppo riduttiva della mente umana. Gardner  parla di forme mentali, annunciando come in ogni essere umano vi siano diverse forme di intelligenza suddivisibili in fattori; ogni fattore è il risultato della interazione fra substrato biologico e strutture psicologiche. Si può essere quindi intelligenti in molti modi, per cui, le misure classiche dell’intelligenza umana, non danno un valore oggettivo ma semplicemente indicano il livello di conformismo sociale raggiunto dall’individuo.
Successivamente Goleman  arriverà a parlare di intelligenza emotiva, necessaria per raggiungere il successo e la felicità; basata essenzialmente sulla capacità di ascolto, la comprensione e l’abilità nel dare e nel ricevere, essa aiuta a riscoprire il senso della meraviglia e della sorpresa, garantendo la piena autonomia decisionale dell’individuo.
Il senso di autonomia, di fiducia nelle proprie capacità, sorge e si matura progressivamente negli anni, a partire dalla relazione che il bambino instaura inizialmente con la madre, poi con i familiari e con i compagni; un bambino amato e voluto, è un bambino che da grande saprà amare e ben volere al prossimo, ecco perché è importante che le figure adulte di riferimento, come insegnanti, genitori e parenti, sappiano alimentare e potenziare la fiducia personale. L’amore che un bambino riceve, è lo strumento necessario per vincere le paure nei momenti di maggior fragilità ed è la chiave per mantenere l’equilibrio e la stabilità nelle situazioni difficili.
Un bambino sicuro è un bambino che sa esplorare autonomamente l’ambiente circostante, regolando il suo comportamento attraverso l’organizzazione delle proprie emozioni, certo del legame affettivo che lo lega alla madre. E’ la madre che deve fungere da base sicura, in grado di trasmettere al figlio il senso di conforto, protezione e solidarietà, senza la quale si corre il rischio di compromettere lo sviluppo dell’emotività, della motricità e del linguaggio.
Una buona intelligenza emotiva consiste allora nel saper sintonizzare le proprie cariche emotive ed affettive in maniera tale da riuscire a rimanere sempre se stessi anche nelle diverse situazioni della vita, anche le più dolorose. Saper affrontare le avversità, il lutto, le difficoltà esistenziali più laceranti, è un'abilità che deriva dal riuscire a gestire la propria emotività in maniera funzionale, ossia, nel saper stabilire relazioni armoniose con gli altri, passando attraverso un'importante competenza: l'alfabetizzazione emotiva.

1.3 Il quoziente emotivo

Il concetto di alfabetizzazione emotiva è alla base dell'intelligenza emotiva, ossia, di quell'abilità che tende ad emergere accanto all'intelligenza cognitiva, rivendicando un proprio statuto ed una propria collocazione all'interno della realtà umana e del suo rapporto con il mondo sociale.
L'intelligenza non essendo più riconducibile ad una dimensione monolitica, assume oggi connotati diversi, ossia, una pluralità di tratti e di sfaccettature che mettono in crisi il concetto tradizionale di intelligenza, intesa come valore, come numero estrapolato dall'utilizzo di una scala di valutazione.
Howard Gardner, in Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell' intelligenza  spiega come ognuno di noi sia intelligente in molti modi e in modi diversi, mostrando come il nostro modo di essere, di pensare e di vivere cambi in relazione al tempo, alle esperienze, ai vissuti e al modo di interpretare la realtà circostante. La personalità umana, quindi, è soggetta ad una molteplicità di intelligenze che Gardner classifica, riconoscendone ben sette: intelligenza linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale, corpo-cinestetica, interpersonale ed intrapersonale. Successivamente, ad esse vengono aggiunte anche l'intelligenza naturalistica ed esistenziale o sociale, ossia, quell'abilità che permette di capire le persone, distinguere i propri sentimenti, aspirazioni o desideri da quelli altrui, comprendere situazioni diverse e sapersi destreggiare in ambienti non abituali. In pratica è una forma di intelligenza che consente di saper cogliere le regole della vita, i pregi e i limiti della vita di gruppo, imparando a distinguere le diverse sfumature, oltre naturalmente alla capacità di accettare gli altri nel nostro universo e allo tesso tempo il nostro nel loro. Le diverse intelligenze tendono quindi a sovrapporsi e ad influenzarsi vicendevolmente, rendendoci tutti normalmente diversi e diversamente intelligenti, dotando ogni soggetto della capacità di di svilupparsi e costruire la propria individualità in base alle proprie specifiche potenzialità. Prendendo le distanze da dal concetto di intelligenza intesa come una capacità innata ed immodificabile, diversi studiosi concordano nel considerare l'intelligenza come una facoltà che permette l'adattamento a situazioni simili e nuove, o più complesse rispetto a situazioni note ed esperienze vissute; un processo talmente vasto che consente di abbracciare una molteplicità di fenomeni che hanno in comune la dinamica e la meccanica dell'adattamento. L'intelligenza non è più allora una struttura statica ma un sistema aperto e dinamico che continua a svilupparsi durante tutto l'arco della vita.
Negli anni '90 Goleman definisce il concetto intelligenza emotiva  che rappresenta la capacità di sapersi porre adeguatamente nelle diverse situazioni della vita. Andando smarrendosi la dimensione dialogica, relazionale ed affettiva, per l'uomo moderno  facile ritrovarsi in una dimensione isolata in cui, l'uso di alcol, droga spingono molte persone a trovare rimedio nel suicidio e l'omicidio. Aggressività e sofferenza sono ormai le parole chiave della nostra epoca e nella fretta quotidiana, costellate dalla mancanza di gioia di vivere e dalla scarsa consapevolezza di se stessi.
Emozione e conoscenza non sono quindi in contrapposizione ma sono estremamente interconnesse; senza la spinta motivazionale data dall'emozione, senza la passione che spinge ad agire con entusiasmo, non è possibile raggiungere livelli adeguati di felicità, benessere e consapevolezza. L'armonia tra mente e corpo si raggiunge attraverso l'empatia, ossia l'abilità nell'assumere la prospettiva altrui, accettando le differenze mediante l'abbattimento delle barriere e dei pregiudizi. Oggi viviamo in un'era sempre più pluralista basata sul rispetto reciproco e sulla costruzione di una realtà che richiede la partecipazione di tutti i cittadini; saper ascoltare, prestare orecchio alle richieste e alle parole altrui, significa gettare le basi per una convivenza civile, pacifica ed una vita democratica.
Il quoziente emotivo si differenzia da quello intellettivo perché il test di misurazione non termina con un punteggio che indica quanta intelligenza emotiva abbiamo ma più semplicemente invita il soggetto a riflettere sulle proprie emozioni. Il mondo dell'istruzione è ancora sotto il pieno dominio dell'intelligenza razionale; la scuola dovrebbe aprirsi alla concezione che senza un adeguato supporto dell'intelligenza emotiva, si corre il rischio di considerare l'insuccesso scolastico soltanto come una carenza o una inadeguato utilizzo dell'intelletto nei riguardi delle discipline. L'autostima e la fiducia in sé sono invece indispensabili per vivere consapevolmente e sapersi relazionare con gli altri in modo appropriato; ecco perché la didattica, se vuol essere realmente efficace, deve aprire i propri orizzonti alla vita emotiva degli studenti ed adottare tutte le strategie necessarie per rinforzare la fiducia nelle loro capacità .

1.4 L'emozione come strumento per conoscere

Abbiamo già avuto modo di parlare dell'emozione, definendola come motore della vita infatti, è grazie a questa forza che l'uomo è spinto ad agire, relazionarsi, muoversi ed effettuare scelte. L'emozione è ciò che permette di rendere un dialogo più o meno costruttivo, è il collante che permette di trasformare le relazioni in maniera più o meno significativa.
Dice bene Galimberti  quando afferma che il male nichilista dei giovani d'oggi è dettato prevalentemente da una sorta di anestesia collettiva, ossia dall'incapacità moderna di vivere in maniera reale, intensa e costruttiva le proprie emozioni. E' come se esistesse un distacco da questa sfera che non permette di accedere alla dimensione più profonda dell'uomo e che lo categorizza come tale. Parlare di alfabetizzazione emotiva significa allora cominciare a riconoscere le emozioni, individuarle come tali ed utilizzarle in maniera costruttiva, ossia, come strumento di conoscenza. La tendenza dei giovani d'oggi, invece, forse per cause culturali, per mutamenti epocali, per la crisi dei valori, ecc., è invece quella di prendere le distanze dalla vita emotiva divenendo quindi degli automi soggetti agli stimoli esterni in maniera passiva ed acritica. Per i giovani è difficile allora che la scuola rappresenti un'occasione importante per crescere e maturare, quando a priori è stato decretato un inaridimento della sfera emotiva. Una cultura che tiene conto soltanto della sfera intellettiva senza preoccuparsi che un bambino, un adolescente, un uomo devono maturarsi anche emozionalmente, decreta già in partenza il fallimento del proprio progetto formativo. Non c'è da meravigliarsi se gli studenti sono sempre più demotivati, più imbarazzati davanti ai testi scolastici e costantemente distratti. Dire ad un genitore: suo figlio è continuamente distratto, non ha voglia, dovrebbe metterci più volontà, è un'assurdità ed andrebbe ribaltata, chiedendo: cosa ho fatto io insegnante per motivare questi ragazzi affinché siano in grado di interessarsi, motivarsi e studiare?10
E la motivazione ad apprendere non è qualcosa di automatico, che si innesca con un atto di sacrificio e di volontà ma nasce grazie ad un interesse che si forma se dietro vi è un'adeguata spinta emozionale . Ecco allora che l'insegnante non è più chiamato a svolgere una mera azione didattica con l'obiettivo di trasmettere conoscenze ma deve adesso guardare alla propria professione con un'ottica diversa, dove la relazione, il prendersi cura degli alunni, l'incoraggiamento, l'ascolto partecipato, l'empatia, l'interesse attivo, divengono le parole chiave di questo lavoro così complesso e difficile.  
Un professionista dell'incoraggiamento, che sa ascoltare e guidare l'allievo nel proprio cammino di crescita culturale ed umana, non può che favorire lo sviluppo della sfera emotiva dei soggetti, aiutandoli a gestire le proprie emozioni, a controllarle e trasformarle. Se questo non avviene, se la scuola continua a proporsi come agenzia formativa addetta unicamente alla erogazione di nozioni, rischiamo veramente di non fornire una valida alternative alle opzioni autodistruttive che la società propone in maniera sempre più massiccia ed invitante. La droga, le estremizzazioni del sesso, gli omicidi e i suicidi sono soltanto alcuni degli esempi di azioni regolate unicamente dall'incapacità di provare e gestire le emozioni, dall'impossibilità di fermarsi di fronte a situazioni inaccettabili.
Quando il deserto emotivo avanza, quando la sfera delle emozioni sembra essersi spenta completamente, si va alla ricerca di azioni estreme per verificare se qualcosa dentro si muove, se esiste ancora una scintilla all'interno in grado di fare percepire il senso di esserci realmente; ecco allora i gesti insensati come il lancio dei sassi dal cavalcavia, le stragi, le torture agli animali, ecc.  
La scuola deve allora intervenire in maniera da favorire maggiormente la partecipazione dei bambini e dei ragazzi alla vita, preparandoli soprattutto attraverso il dialogo, la discussione di gruppo, l'ascolto individuale a prendere confidenza con la vita emotiva, alimentandola giorno dopo giorno attraverso continue attenzioni e stimoli positivi.
La sopravvivenza dell'uomo, fin dai tempi più remoti è sempre stata determinata dalla guida che le emozioni gli hanno fornito, avvertendolo dei pericoli imminenti e delle situazioni favorevoli per conservarsi e proliferare. La conoscenza sensomotoria è quella che riguarda gli organi di senso e consente la percezione degli stimoli, mentre quella cognitiva coinvolge la neocorteccia e riguarda il riconoscimento e la comprensione degli stimoli sensoriali ricevuti. Le informazioni sensoriali che l'uomo riceve percorrono due vie: quella più rapida arriva al sistema limbico ed innesca reazioni e risposte emotive; l'altra invece è più lenta e giunge alla neocorteccia che fornisce una risposta cognitiva. La velocità della risposta determina un comportamento immediato rispetto a quelle dettate dalla razionalità. I domini conoscitivi riguardano allora tre canali diversi ma allo stesso tempo comunicanti: sensoriale, emotivo e cognitivo che si incontrano e si uniscono per dar vita alla conoscenza. La razionalità prevarrà quando è necessario un comportamento ponderato e consapevole mentre in altri contesti sarà l'istinto a prevalere; le scelte che ogni individuo prende nella propria vita, sono connesse ai comportamenti che ogni volta decidiamo di utilizzare e questi sono legati al modo in cui intendiamo leggere la realtà e al tipo di filtro che utilizziamo in quel momento. Condizionamenti sociali, educazione, ideologie, tutto concorre a favorire o meno una lettura della realtà con il cuore o con la mente, determinando quindi una maggiore o minore coloritura affettiva delle informazioni acquisite e delle risposte fornite all'ambiente.  
Se i significati emotivi, all'interno della società sono maggiormente coltivati, allora le persone tenderanno a promuovere una cultura basata maggiormente sulla dimensione comunitaria, sul sostegno, sul mutuo-aiuto, favorendo l'unità e l'incontro. Diversamente, si avranno soltanto scissioni, conflitti ed isolamento, dettati dall'incomprensione e dall'incapacità di mettere in sintonia il proprio “apparato” emotivo con quello altrui.
Ecco perché la formazione gioca un ruolo importante all'interno di questo delicato meccanismo; se la scuola non getta le basi per un'educazione al “comprendere” e al “sentire”, rischiamo di generare una società sterile, dove regnano unicamente le logiche del profitto, della sopraffazione e dell'individualismo più acceso.
La trasmissione di contenuti, modelli e ideologie tipica di una educazione tradizionale, deve progressivamente lasciare il posto ad un'educazione improntata maggiormente sul modello della piantina che cresce e dell'insegnante che la pota, la cura e la nutre, ossia, dell'educatore che incoraggia, motiva, agevola e predispone all'apprendimento.
La conoscenza dei processi di sviluppo e delle leggi della maturazione psichica consente di effettuare interventi calibrati sul soggetto e sul sistema, al fine di ottenere le condizioni più agevoli e migliori per una sana crescita psicofisica dell'allievo. Essere coscienti del fatto che non esistono regole standard e ricette universali per educare, aiuta a far comprendere che ogni individuo è unico ed irripetibili e che spetta all'educatore scorgere i bisogni formativi soggettivi, al fine di motivare nel miglior modo possibile ed aiutare a raggiungere gli obiettivi prefissi in maniera autonoma e responsabile.
Sappiamo che l'apprendimento è facilitato dalla voglia di imparare e perché ciò avvenga occorre che in ogni momento l'allievo sperimenti il successo e la soddisfazione che segue l'aver appreso un concetto. Se invece la nozione impartita non suscita nessuna reazione emotiva in quanto sterile nella sua trasmissione, il dato registrato sarà solamente memorizzato e quindi destinato ad una vita breve e a non rientrare all'interno di una cornice di senso più ampia.
Il lavoro dell'insegnante deve cavalcare l'onda dell'empatia, vestendo continuamente i panni dell'allievo così da comprendere realmente quali siano le motivazioni, i bisogni più nascosti, i perché di determinati gesti ed arrivare a scorgere le reali aspirazioni e desideri futuri.
E' attraverso la relazione che si riesce a costruire le basi per un sano e corretto sviluppo psicofisico dell'allievo; la relazione è il ponte attraverso il quale passano non soltanto le informazioni ma anche le cariche emotive in grado di sorreggere e fare da collante al tutto, rendendo il percorso formativo più o meno significativo. La relazione permette di orientare gli sforzi in maniera tale da far emergere l'individualità di ognuno, al di là di ogni tentativo di omologazione e massificazione; una buona relazione aiuta il soggetto a far emergere quello che realmente è, fornendo gli strumenti affinché ognuno possa effettivamente ottenere il nutrimento di cui necessita per la propria maturazione.

1.5 La didattica mediata dall'emozione  

Abbiamo detto in precedenza che un insegnante che non tiene conto dei gesti dell'allievo, del suo umore, dei cambiamenti nei modi di porsi, di vestirsi, ecc. è un insegnante che al centro del processo formativo non mette il soggetto ma il programma da portare a termine e questo con tutte le conseguenze che ne derivano.
Un docente che non presta attenzione alla persona con cui quotidianamente interagisce, rischia veramente di non assolvere al compito che fondamentalmente è alla base della sua professione: aiutare gli allievi a crescere come persone, intellettualmente e culturalmente, ottenendo il loro spontaneo coinvolgimento nelle attività di apprendimento. Le discipline impartite, affinché possano divenire parti costitutive della personalità di ognuno, occorre che prendano le mosse dal coinvolgimento emotivo e questo compito spetta all'insegnante e al suo modo di porsi nei riguardi degli allievi.
Senza motivazioni positive non si creano le premesse per un apprendimento propriamente detto, tuttavia è importante ricordare che gestire l'emozioni all'interno di una classe, è un compito tutt'altro che semplice, infatti, pochi docenti hanno una preparazione specifica in materia, atta non soltanto a riconoscere i diversi stati emotivi dei ragazzi, ma di essere in grado di gestirle e di tradurle in comportamenti costruttivi.
Davanti al pianto la prima reazione è quella di bloccare le lacrime, così come di fronte alle grida di rabbia si pensa sia bene inibire questa reazione. Vivere liberamente le emozioni, invece, consente di  riacquistare quell'equilibrio psicologico che altrimenti porterebbe soltanto malessere, ansia e tensioni; ecco perché è sempre importante non inibire, non rimuovere e cercare la via migliore affinché non si inneschino inutili e dannosi meccanismi di difesa.
L'insegnante deve prestare attenzione al linguaggio degli allievi, anzi, ai linguaggi degli allievi perché l'uomo non si esprime soltanto verbalmente ma anche con il corpo attraverso il gesto, la postura, lo sguardo, ecc. Per capire realmente chi abbiamo davanti e cosa sta accadendo, non possiamo escludere la comunicazione non verbale; il corpo costantemente informa e parla, manifestando stati d'animo, tensioni e pensieri dell'interlocutore. Sta all'insegnante cogliere questi aspetti e prendere coscienza dei fatti, intervenendo in maniera costruttiva ogni volta che lo studente  emette un grido d'allarme. Il docente deve allora continuamente stimolare i ragazzi o i bambini a non accontentarsi mai per ciò che sanno e fanno, mostrando loro le risorse che realmente possiedono e quanto poco facciano per farle emergere. Giocare sulla volontà e sulle emozioni è fondamentale anche per questo, così si possono davvero estinguere atteggiamenti di apatia e indifferenza che sempre più spesso aleggiano nelle aule scolastiche di ogni ordine e grado. L'attività del docente che funge da mediatore fra l'allievo da educare ed il mondo da conoscere, permette al soggetto di sviluppare un pensiero divergente e creativo, ragionando sulla base dei dati a disposizione ed ipotizzando strategie per trovare soluzioni efficaci e funzionali. Attraverso l'ascolto reciproco e l'osservazione, gli alunni hanno modo di sviluppare abilità sociali e cooperative e non soltanto quelle di tipo competitivo; lavorando insieme e mettendo le energie a disposizione del gruppo si possono ottenere risultati migliori in tempi relativamente più brevi, mostrando come sia importante integrare e far interagire mente-corpo ed emozione.  

1.6 Le emozioni e le loro caratteristiche

Sappiamo grazie alle ricerche di neuroscienze e psicologia, che le emozioni fanno parte di un bagaglio biologico che l'uomo da sempre porta con sé e che gli hanno permesso di sopravvivere, fuggire dai pericoli e riprodursi. Ogni emozione ha lo scopo preciso di mettere l'organismo  in una condizione tale da poter reagire in maniera appropriata agli stimoli che provengono dall'esterno, così da riportare all'equilibrio una situazione di momentanea disarmonia. Si pensi alla sensazione che procura l'ansia, il senso di fastidio, di mancanza di qualcosa che induce il soggetto a doversi affrettare e concentrare le energie per finire un determinato compito in maniera opportuno. L'ansia entro certi limiti favorisce l'apprendimento perché mette l'allievo nella condizione mentale più idonea per la memorizzazione e la comprensione dei fatti. E' superata una determinata soglia che l'ansia inibisce invece l'apprendimento, quello propriamente detto, favorendo la sola memorizzazione a discapito della comprensione e mettendo in moto meccanismi psicologici e biologici negativi, come tachicardie, sonno difficoltoso, paure irrazionali, fino ad arrivare all'angoscia vera e propria.

1.7 La paura

Abbiamo precedentemente accennato al fatto che le emozioni hanno sempre accompagnato il percorso evolutivo dell'uomo; con il trascorrere dei secoli, alcune hanno perso di valore e si sono estinte mentre altre si sono rafforzate o modificate. Una delle emozioni che ha sempre permesso all'uomo di sopravvivere è la paura. La paura è una risposta fisiologica che innesca una reazione dell'organismo immediata, come la fuga, la difesa o l'attacco, permettendo quindi di mettersi in salvo o di lottare per la sopravvivenza. Certo è che, una eccessiva paura, soprattutto quando si innesca senza una motivazione precisa, rischia di determinare stati patologici in quanto va a limitare il comportamento abituale dell'individuo. Tutte le emozioni comunque, paura compresa, hanno il preciso scopo di informare il soggetto che qualcosa sta accadendo, guai ad inibirle, anche se è vero che occorre intervenire quando la loro forza diviene eccessiva con conseguente difficoltà di gestione delle stesse.
L'amigdala è l'organo che svolge una funzione particolare: quella dell'attività emozionale, infatti, quando questa viene per qualche motivo alterata, si hanno evidenti difficoltà nel valutare eventi, riconoscere le emozioni negli altri ed incapacità a gestire in maniera favorevole le relazioni interpersonali. Danneggiare l'amigdala significa provocare nelle persone una sorta di “cecità affettiva”, con conseguente incapacità di mettersi ne panni degli altri o di provare emozioni come la paura, davanti a situazioni di reale pericolo.
La fuga e l'attacco sono due comportamenti conseguenti alla paura che si innescano non soltanto fisicamente ma anche come attacco a parole o fuga dalla vita, attraverso abuso di alcol, sostanze stupefacenti e suicidio.  

1.8 La gioia
   
In conseguenza ad un evento inaspettato, la reazione può essere la paura ma anche la gioia che determina una sensazione di piacere diffuso in tutto il corpo e derivante dall'appagamento di un desiderio o dalla possibilità di realizzare un progetto di vita positivo. La visione positiva del futuro determina la gioia, contrariamente alla tristezza che emerge in seguito ad una visione pessimistica della realtà; solitamente la gioia veicola sentimenti piacevoli come amore ed affetto, rafforzando l'autostima e la fiducia in se stessi.
Depressione e mancanza di fiducia derivano infatti da una eccessiva tendenza all'autocritica in senso negativo, gettando le basi fin dall'infanzia per un futuro costellato da insuccessi e disturbi fobici. La salute mentale si mantiene anche attraverso un costante rafforzamento dell'autostima che  mette il soggetto sin da piccolo, nella condizione di affrontare i problemi con fiducia e serenità. Quando inizia un graduale ma costante allontanamento fra il sé percepito, ossia il concetto che un individuo ha di sé e il sé ideale cioè quello che vorrebbe essere, comincia a manifestarsi una maggiore attenzione e percezione dei propri difetti anziché dei pregi. Le conseguenze sono devastanti perché una persona che ha una buona autostima riesce a reagire e ad accettare le sconfitte della vita, mentre in caso contrario non possono che manifestarsi emozioni legate al disprezzo di sé e delle proprie capacità, con l'inevitabile insorgenza del complesso di inferiorità. Tutto questo non può che provocare l'autoisolamento, l'alterazione dei rapporti sociali e disistima verso il prossimo.
La sicurezza di sé è legata quindi alla gioiosità, derivante dalla soddisfazione di sé e del proprio agire, divenendo punto di riferimento per gli altri e ricercato come amico e compagno. L'attitudine  alla gioia si forma in ambito familiare fin dalla più tenera età, quando le esperienze maturate sono positive, con una madre in grado di rispecchiarlo, comprenderlo e capace di far fronte ai suoi bisogni più profondi. Il nutrimento affettivo è alla base per una sana crescita individuale e i genitori hanno la grande responsabilità di non rovinare la voglia di vivere del bambino, trasmettendo amorevolmente la passione di vivere, nonostante le difficoltà e gli ostacoli. Vivere le passioni apertamente senza soffocarle, piangere e dar sfogo alla collera significa preparare il terreno affinché la gioia possa nuovamente rinascere.
     
1.9 La tristezza

Il senso di perdita o di fallimento genera questo sentimento; a seguito di una sconfitta in campo lavorativo, sentimentale o sportivo, l'emozione che ne deriva è la tristezza. Nostalgia, malinconia, scoraggiamento e disperazione, derivano spesso dal non sentirsi amati, voluti e si differenzia dalla depressione perché comunque è sempre possibile ricomprendersi e riprogettare la propria esistenza,aprendosi con maggiore fiducia e serenità al mondo.
Questo sentimento deriva in maniera più o meno marcata dal clima socio-affettivo e culturale vissuto dal soggetto fin dalla più tenera età, infatti, attraverso numerosi condizionamenti ed esperienze memorizziamo ed imprimiamo nella mente quel senso di gioia o di tristezza che, soprattutto nei periodi critici, rimangono come marchi indelebili, anche se possono modificarsi con ulteriori esperienze al di fuori del contesto familiare.
Quando in famiglia viene a mancare la disponibilità all'ascolto, alla comprensione, il bambino impara a diffidare delle proprie emozioni e a non fidarsi più di nessuno, nemmeno di se stesso perché quando un pianto non viene consolato ma minimizzato, quando una delusione non viene seriamente considerata, il soggetto rimane disorientato e convinto di non essere accettato dai  genitori. Negare le emozioni del figlio per non dover affrontare il problema e reprimere il pianto nella convinzione che così divenga più forte, determina con il tempo una repressione emotiva che provoca danni alla salute fisica e mentale. Sentirsi amati e capiti rappresenta la formula migliore per imparare a gestire le emozioni ed affrontare in maniera più efficace e serenità l'esistenza. La fiducia in sé e negli altri si matura esclusivamente attraverso la consapevolezza dell'accettazione da parte delle persone che ci circondano  e lo si capisce dalle risposte che ci vengono fornite ogni qualvolta inviamo agli altri determinati stimoli.
I messaggi che i bambini devono ricevere da parte degli insegnanti e dei genitori devono essere quindi di accettazione, così da favorire la formazione di una solida fiducia nelle proprie capacità, derivante essenzialmente dalla consapevolezza di saper affrontare i problemi e risolverli, al di là di ogni chiusura in se stessi e dell' evitamento.

1.10 La solitudine    

Il senso di solitudine nasce quando l'individuo non è capace di stabilire relazioni affettive significative o comunque in numero esiguo con le altre persone; la solitudine può nascere da una forma di esclusione dal gruppo e, all'interno del contesto scolastico, questo significa aver fallito nella missione più importante: la socializzazione.
La solitudine comunque, quando è determinata come libera scelta soprattutto in particolari momenti di vita, rappresenta un fattore importante che favorisce la riflessione e l'autoindagine, ecco perché è importante educare i bambini anche a saper stare da soli, maturando la consapevolezza di poter sempre contare su qualcuno nel momento di reale bisogno.
Saper stare da soli trae origine dall'esperienza infantile di saper stare da soli in presenza della madre, ossia, dalla capacità di stabilire un legame affettivo sicuro con il padre e la madre, senza avere la continua necessità del loro intervento in tutto quello che il bambino fa. Una personalità sicura è in grado di sopportare la solitudine che sta alla base del piacere di essere indipendenti, tuttavia, all'interno di un contesto scolastico logicamente devono essere incoraggiate le pratiche di integrazione, prestando attenzione a tutte le forme di solitudine e di isolamento che spesso sfuggono all'occhio dell'insegnante in quanto non creano disturbo all'attività didattica.
Quando un alunno sceglie di stare da solo, il comportamento è generalmente sereno, quando invece è escluso dal gruppo dei compagni, si manifestano atteggiamenti caratteristici come distrazione continua, nervosismo, difficoltà di apprendimento e disagi relazionali.
Lavorare sulla relazione significa focalizzare le energie all'interno di un percorso progettuale finalizzato ad aiutare gli alunni a manifestare le difficoltà e ad attivare le risorse per superarle con successo, attraverso la conoscenza emozionale e lo sviluppo del benessere emotivo.



1.11 La gelosia

La gelosia è un sentimento che tutti abbiamo vissuto e continuiamo a vivere, a seconda delle circostanze di vita e delle situazioni tra familiari, amici, compagni o comunque in tutti quei contesti in cui vi siano dei legami affettivi tra persone. L'arrivo di una terza persona che in qualche modo distoglie l'attenzione o comunque attira l'interesse di uno dei due, scatena inevitabilmente un sentimento di gelosia. La gelosia è quindi legata alla paura di perdere l'affetto della persona amata a causa dell'arrivo di un altro individuo che percepiamo come rivale.
La gelosia non è proiettata comunque soltanto verso le persone ma può essere legata anche al possesso e all'utilizzo di oggetti. Ricerche recenti hanno dimostrato che il benessere economico e la disponibilità crescente di mezzi e strumenti, crea automaticamente all'interno delle famiglie accese rivalità per il possesso e l'utilizzo degli oggetti stessi.
Si pensi alla Play Station o al Nintendo Ds, a quanti conflitti si creano fra i fratelli per l'utilizzo dell'apparecchio, tanto per citare un esempio. Comunque, al di là di questo, la nascita di un  fratello o di una sorellina, è sempre motivo di gelosie più o meno accese e più i genitori manifestano la preoccupazione che ciò avvenga e più si creano le premesse affinché questo si verifichi realmente.
La gelosia è quindi legata all'incapacità di amare in modo autentico, finalizzando la relazione affettiva unicamente alla soddisfazione dei propri bisogni narcisistici, quindi, la paura di perdere l'amore dell'altro determina una diminuzione dell'autostima. Questa forma di afflizione o di dolore che nasce dalla convinzione di aver perduto l'oggetto d'amore con conseguente ostilità verso il più fortunato rivale, si supera generalmente di una piena autonomia da parte del soggetto, superando le diverse forme di dipendenza attraverso il confronto con i fratelli, i compagni di gioco e gli amici.
Le dinamiche dei rapporti affettivi che scatenano gelosie più o meno accese all'interno della famiglia, dipendono da diversi fattori, non solo di natura socio-economica ma anche dalla struttura della famiglia, ossia, dal numero dei figli, dall'essere primogenito o secondogenito maschio o femmina, ecc. La gelosia comunque non sempre si manifesta apertamente; l'arrivo di un fratellino o di una sorellina quando viene percepita come minacciosa, scatena comportamenti di accesa aggressività ma può anche dare origine a comportamenti depressivi e di irritabilità. I genitori sanno che l'arrivo di un altro bambino può dar luogo a forme di gelosie, intuiscono che, dovendo prestare maggiori attenzioni al nuovo nato, il primogenito non svolge più il ruolo di protagonista ma di semplice comparsa, tuttavia, quando si verificano episodi di aggressività, gli unici interventi che sembrano possibili sono solo quelli della colpevolizzazione e delle punizioni, aumentando così il comportamento disturbato del soggetto.
Il ruolo educativo dei genitori dovrebbe essere quello di comprendere e rassicurare, mostrando che  l'amore non si esaurisce se viene distribuito a più persone e come sia importante vivere rispettando gli altri. Serenità, sicurezza e vicinanza sono gli ingredienti fondamentali per una sana ed equilibrata maturazione psicologica del bambino, senza i quali, si favoriscono solo atteggiamenti di dipendenza, paura, rabbia e dolore.

1.12 La collera

La collera, comunemente chiamata rabbia, insieme alla paura è una delle emozioni fondamentali della specie umana che da sempre gli consentono di sopravvivere, grazie all'impulso a reagire fisicamente o verbalmente in seguito a determinati stimoli esterni. La necessità di difendere il territorio, la propria incolumità, la famiglia o il gruppo di appartenenza, spinge l'individuo a dover lottare per non farsi sopraffare e la collera è la molla emotiva che mette in moto il meccanismo di reazione aggressiva.
Per un bambino la reazione più immediata ad un'offesa è la collera, così come può accadere ad un adulto quando rimane frustrato dall'interruzione di un'attività e delle sue sequenze motivazionali, comunque sia, generalmente questo comportamento rimane inascoltato dai genitori perché quando essi stessi sono stati bambini, hanno ricevuto lo stesso atteggiamento.
Solitamente per un genitore la collera del bambino è semplicemente una mancanza di rispetto nei propri confronti e raramente viene vista come l'espressione di una frustrazione o la reazione a qualcosa che l'ha profondamente ferito.
Per un genitore è importante allora imparare a controllare la propria collera se realmente vuole mettersi nei panni del bambino ed ascoltare i suoi bisogni più profondi. L'espressione della collera, comunque, è necessaria per poter costruire un'identità stabile ed una profonda fiducia in se stessi e nelle proprie capacità.
Timidezza e vergogna di sé rappresentano spesso il motivo per cui il bambino tende ad avere reazioni aggressive nei confronti degli altri; uno scherzo o una battuta di troppo possono minare l'autostima in maniera incisiva e scatenare espressioni di collera. Occorre poi molto tempo per riacquistare fiducia in se stessi e nelle proprie capacità, facendo leva sulla necessità di acquisire rinforzi e conferme da parte di genitori, amici o parenti circa il nostro comportamento.
Senza autostima si manifestano soltanto comportamenti incerti, mancanza di autonomia di pensiero e di azione, e tendenza all'autoisolamento. La carenza di autostima deriva spesso dalla mancanza di affetto che determina la vergogna e si ha vergogna proprio verso quei genitori che dimostrano di non saper ascoltare, giocare con figli, ridere, piangere e condividere affetti.
Sentirsi parte di un gruppo, essere accettati, compresi e valorizzati sono aspetti fondamentali che devono essere presi in considerazione a scuola come in famiglia. Privare un bambino degli affetti, negando dialogo, ascolto e rispetto significa non fare niente per cercare di attenuare comportamenti violenti ed aggressivi; valorizzando invece le potenzialità relazionali di ognuno è possibile creare un terreno fertile per promuovere atteggiamenti positivi e superare definitivamente violenza ed isolamento.

1.13 La Pedagogia delle emozioni in sintesi

Al giorno d'oggi la pedagogia ha assunto un volto nuovo rispetto alla tradizione ottocentesca che vedeva nella figura dell'insegnante un “emittente” di saperi, mentre gli allievi spettava il compito di ricevere di informazioni e memorizzare più nozioni possibile. Logicamente un “patto” di questo tipo non lasciava spazio a coinvolgimenti emotivi, vedendo tutto finalizzato all'attività didattica e ai saperi disciplinare. Valorizzando unicamente gli aspetti cognitivi ed emarginando i contorni, le sfumature affettive, si sono prodotti soltanto sterili apprendimenti nella convinzione che l'unico parametro valutabile fosse la quantità degli apprendimenti anziché la loro intensità.
Ecco che oggi la pedagogia assume una nuova veste che vede nella pratica emozionale una strada da percorrere per rendere l'apprendimento un'attività veramente significativa.
Anche il ruolo dell'insegnante è cambiato, grazie agli studi condotti in ambito psicologico e delle neuroscienze, vedendo questa figura non più come dispensatore di saperi ma un mediatore che sappia far fronte alle difficoltà e ai disagi dei propri alunni, sappia identificare bisogni e rispondere adeguatamente alle diverse richieste con un atteggiamento empatico.
L'insegnamento è una pratica condivisa con gli allievi, è un processo che si conduce insieme agli alunni affinché si possa dar vita ad un progetto da realizzare in vista della piena realizzazione personale.
A scuola allora con la mente e con i corpo, dove si dà il giusto valore a tutte le diverse forme espressive e non più soltanto a quelle meramente di stampo cognitivo; la musica, la danza, il teatro, tutto concorre a suscitare quelle risonanze emozionali che rendono l'apprendimento più completo e realmente significativo .
   

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