sabato 8 agosto 2015


Il Pedagogista Clinico

Fondamenti professionali
Se il pedagogista è lo specialista dei processi educativi e formativi, possiamo definire il pedagogista clinico come il professionista che ha come oggetto di studio la de-formzione e la dis-educazione dell'uomo[1].
La pedagogia generale come abbiamo visto nel primo capitolo, studia non solo l'educazione ma anche la formazione dell'uomo, dove nel primo caso si approfondisce il rapporto fra chi educa e chi è educato, mentre nel secondo il processo della continua costruzione del sé dell'uomo, che si viene strutturando nel corso dell'esistenza soggettiva. La pedagogia generale è quindi la scienza deputata allo studio della genesi costitutiva dell'educazione e della formazione dell'uomo, lasciando però in ombra i problemi relativi alla sua dis-educazione e de-formazione, ossia il precipitare dell'uomo in uno stato di malessere che esige essere considerata in maniera specifica e mirata, richiedendo strumenti osservativi ed operativi che non rientrano pienamente nell'ambito della pedagogia generale. Le insicurezze e le inquietudini dell'uomo possono essere adeguatamente comprese solamente scendendo nelle fagli profonde della struttura latente del soggetto, di quel preciso soggetto, aiutandolo a riorientarsi nella sua vita e quindi nella sua esperienza formativa passata, affinché riesca a ricomprendersi e a prendersi cura di sé e del proprio divenire. La scienza che ha per oggetto l'educazione che si diseduca e la formazione che si deforma è appunto la pedagogia clinica il cui scopo è quello di aiutare l'individuo a ritrovare il senso profondo di se stesso ed il significato della propria formazione intesa come formazione umana, come essere che è divenuto quel che oggi è, ossia, il progetto esistenziale che si è venuto a realizzare. La pratica pedagogico-clinica penetra nella dimensione costitutiva del soggetto affinché questo si formi e si educhi a riequilibrare il proprio esistere, infatti, la pedagogia clinica rappresenta un sapere settoriale rivolto al processo di liberazione, attuabile solamente attraverso la formazione del pensiero dell'individuo che, grazie ad una continua costruzione e ricostruzione permette l'emancipazione dal proprio stato di sofferenza, un cammino privato che consente di ridonarsi forma.
Il pedagogista clinico dispone quindi di un sapere in grado di orientare il soggetto verso l'autenticazione di se stesso, ossia verso quel delicato processo che consente la donazione di senso alla propria realtà e al proprio mondo, oltre naturalmente alla realtà e al mondo altrui, intesi come comprensione profonda di sé e della propria vita.
Da questa breve introduzione si comprende quindi come la pedagogia clinica non sia frutto di una nuova moda ma semplicemente il volgersi della pedagogia generale in pedagogia clinica, qualora debba prendere in cura una formazione che si deforma o un'educazione che si diseduca, distinguendosi nettamente dalla clinica medica, in quanto il lavoro pedagogico non ha come obiettivo la cura della malattia ma le condizioni di disagio che interferiscono con la formazione e l'educazione dell'uomo. 
Il pedagogista clinico esprime la propria professionalità aiutando a ritrovare il significato di se stessi, attivando percorsi di esplorazione che consentano al soggetto smarrito di non perdere il valore costitutivo del proprio vivere e del proprio formarsi,convertendo le condizioni di malessere esistenziale in uno stato di benessere essenziale.
Il malessere esistenziale è, per il pedagogista clinico, una condizione di deformazione dell'armonia umana propria dell'uomo, per cui, il lavoro del professionista sarà quello di favorire il passaggio da uno stato di deformazione ad uno di formazione, una conversione che permetta insomma di avvertire interiormente la condizione di ben-essere di cui si necessita per poter vivere.
Il pedagogista clinico studia insomma le forme della deformazione che intervengono nella formazione dell'uomo e, di riflesso, le rotture formative che avvengono all'interno del percorso di maturazione soggettiva, muovendosi sempre in un ambito di incertezze e indeterminatezze, tipiche dell'esistenza umana. Questo professionista conosce per intervenire sulla formazione e l'educazione dell'uomo, partendo dalla sua identità soggettiva e dalla sua differenza personale, cercando di inquadrare l'uomo nella sua profonda identità formativa e educativa, considerando le forme del malessere deformante dell'individuo, al fine di prospettare soluzioni che permettano di acquisire o ri-acquisire un armonica ed equilibrata formazione di se stesso. Insomma, per il pedagogista clinico il concetto di mal-essere è concepito come l'estraneità che il soggetto avverte nei confronti del proprio essere, con la conseguente alienazione da se stesso, allontanandosi dalla propria originarietà  ai danni del ben-essere, ossia al senso di coappartenenza che il soggetto prova verso se stesso.
L'obiettivo principale è quello di indirizzare il soggetto verso la conquista formativa di se stesso che lo conduce a ritrovare l'autenticità e il fondamento di sé, che coincide con la sua specifica formazione, al di là di ogni forma di disorientamento profondo che, con il tempo, provoca l'abbandono dell'uomo da se stesso. Le patologie formative sono oggetto di studio del pedagogista clinico, ripristinando la salute formativa del soggetto mediante l'esercizio della diagnosi e della terapia formativa, ossia mediante l'analisi dello stato formativo del soggetto volto a riconoscere e definire le forme di una deformazione, intervenendo successivamente con la relazione educativa.   
Logicamente l'intervento del pedagogista clinico non si limita a prendere in cura il soggetto deformato ma deve necessariamente considerare la situazione contestuale in cui tale deformazione è avvenuta, per cui, la conoscenza si manifesta come l'esito di un rapporto dialettico tra uomo in crisi e società. La relazione educativa, clinicamente intesa, consente all'individuo di trovare dentro di sé la forza per condursi al passaggio dalla deformazione alla formazione, intesa come ritrovamento di un <<punto di equilibrio>> che permetta di superare il <<vuoto interiore>>, responsabile dell'assenza di vitalità, dell'apatia esistenziale e dell'incapacità di pensiero.
Il pedagogista non agisce sulla patologia o sul disturbo ma interviene sui processi e nei percorsi di deformazione dell'individuo, operando in modo da riequilibrare una formazione compromessa, attuabile soltanto attraverso il processo di <<donazione di senso>> alle patologie formative o alle rotture formative, cause del malessere esistenziale[2].
Il pedagogista per intervenire sui processi e nei percorsi deformativi dell'uomo, deve avvalersi di competenze pedagogiche, semiotiche ed ermeneutiche, in modo da rilevare i segni ed interpretarli riconoscendo ogni storia come testo, ossia un intreccio di linguaggi, che raccontano la biografia di un uomo. L'agire pedagogico clinico è quindi oscilla fra “comprensione” ed “interpretazione”, spingendosi alle radici del soggetto, ossia nel luogo profondo della sua formazione, dove si annidano le forme della deformazione, con lo scopo di decostruire e ricostruire la struttura formativa del soggetto ed i suoi saperi. Tale decostruzione è attuata dal pedagogista per re-interpretare e cogliere i plessi nascosti della singolarità, affondando l'approccio esplorativo sulle identità nascoste del soggetto che altro non è se non una ricerca volta a cogliere le esperienze concrete di vita.
Il soggetto del pedagogista clinico è l'uomo nella sua globalità mentre il suo oggetto è la deformazione; l'uomo è concepito come essere-in-sè, come essere-nel-mondo libero di agire, in-possibilità e quindi in-formazione, con i suoi bisogni da soddisfare, anche se spesso sono inespressi, latenti, impliciti o inconsci, ma pur sempre bisogni che, come tali, interagiscono con la formazione  individuale.
Detto in altri termini, il pedagogista clinico studia le forme della deformazione dell'uomo ponendole in rapporto con la formazione originaria dell'individuo e con i processi trasformativi che ne scandiscono la formazione.
La formazione originaria coincide con la struttura identitaria e costitutiva tipica di ogni individuo, che non cangia nonostante le esperienze e le trasformazioni che l'uomo vive durante il proprio cammino esistenziale; per trasformazione, invece, si intende più precisamente quell'impulso formativo in grado di produrre costantemente ulteriori forme della formazione del soggetto, nella consapevolezza che ogni trasformazione della formazione rappresenta il tratto che garantisce l'originarietà della forma di ogni individuo. Siccome tutto il percorso esistenziale autentico dell'individuo oscilla tra formazione e trasformazione, il pedagogista clinico è chiamato a porsi le domande relative alle identità originarie, autentiche e fondamentali, ricordando sempre che l'obiettivo non è solo quello di porre le domande all'interlocutore ma anche quello di aiutare il soggetto a porre le domande a se stesso, in modo da cominciare ad istradarlo verso la cura di sé.
Il disfacimento della soggettività formata, intesa come conseguenza della deformazione formativa attuata dal sorgere del disumano all'interno ed all'esterno del soggetto, rappresenta l'ostacolo che l'individuo incontra lungo il percorso della cura di sé e che può assumere diverse forme: falsità dei miti, impoverimento de pensiero, consumismo, omologazione, limitazione della libertà, ecc[3].    
Tutto ciò produce una disarmonia formativa che il pedagogista clinico studia, alla luce del conflitto che deforma, intesa come patologia della deformazione umana, leggendo l'individuo come complesso intreccio tra formazione, pensiero e uomo ed interpretandone il malessere esistenziale.
L'azione pedagogico-clinica è orientata verso l'irrobustimento del soggetto, intesa come sviluppo della resilienza formativa, potenziandone la resistenza agli urti che la vita, i conflitti e gli altri possono assestare alla sua formazione in termini di disequilibrio e disarmonia. E' attraverso la consulenza pedagogico-clinica che il professionista aiuta il soggetto a collocarsi dentro la propria formazione ed educazione, riorientandolo in modo che questi possa ripercorrere le tappe del proprio percorso esistenziale e reinterpretarne il significato o i significati. Il soggetto in pratica, è come se possedesse un proprio codice[4] formativo inteso come insieme di regole che ne definiscono la struttura educativa in grado di orientare il cammino personale di ciascuno, funzionando come dispositivo regolatore. Il pedagogista clinico ha il dovere professionale di rispettare l'originarietà di tali codici ma allo stesso tempo è obbligato a stimolare l'individuo affinché si impegni a decostruirli e ricostruirli, divenendo così l'artefice principale della propria trasformazione, attraverso l'assunzione di responsabilità nei confronti di se stesso e della propria formazione[5].
La conquista di nuove armonie formative e di equilibri esistenziali derivano dalla capacità del pedagogista clinico di orientare il soggetto verso la salvaguardia di ciò che esiste di originario dentro di sé, promuovendo allo stesso tempo ciò che ne favorisce la trasformazione, in modo che, comprendendo la propria deformazione, riesca a divenire consapevole della propria formazione originaria. Il pedagogista  se non sa restituire il soggetto al suo pensiero (affinché possa prendersi cura di sé dando nuovamente forma a se stesso), fallisce nel proprio lavoro perché essendo la deformazione un allontanamento dalla forma autentica della propria formazione, non  consente  una adeguata trasformazione dell'individuo, smarrendo in questo modo le tracce della propria originalità esistensiva. Insomma, la deformazione è una vera e propria degenerazione della formazione che determina la perdita dell'originarietà e il depotenziamento della trasformazione e diviene oggetto di  indagine del pedagogista clinico quando non rappresenta solamente una breve fase del processo formativo ma diviene una vera  e propria condizione di vita.
Detto in altri termini, il pedagogista clinico interviene effettuando un trattamento pedagogico-clinico delle deformazioni dell'assetto formativo, causa di una condizione di malessere e di disequilibrio.
Ritrovare la propria formazione originaria significa per l'individuo ritrovare sicurezza di sé, tornando a disporre del proprio pensiero, una volta eliminate le rappresentazioni errate della propria formazione. Il fulcro del lavoro pedagogico ruota intorno alla capacità del pensiero di far sì che possa resistere alle rotture formative e alle fratture diseducative che le diverse esperienze di vita possono causare, consentendo di ritrovare al proprio assetto originario dopo un'esperienza di de-formazione. Naturalmente, e lo abbiamo detto più volte, tutto questo è possibile solo se il pedagogista clinico evita di sostituirsi al soggetto ma si limita solamente a guidarlo ed orientarlo nel disporsi a curare se stesso, preoccupandosi quindi del suo essere-uomo; il soggetto d'altro canto, deve interrogarsi sulla propria biografia personale affinché riesca nuovamente a pro-gettarsi ritrovando così un equilibrio formativo.
Il lavoro clinico consiste in un'approfondita conoscenza dello stato deformativo in cui il soggetto si trova, costruendo successivamente la rete categoriale più adatta per individuare la natura deformazioni che lo affliggono; infine, occorre orientare l'individuo in un cammino del pensiero che lo conduca all'interno della sua essenza formativa, attraverso l'esercizio del continuo domandarsi circa la propria costituzione formativa. Il domandare del pedagogista clinico è finalizzato all'educare il soggetto a domandare a se stesso e ad interrogarsi sullo stato deformativo in cui versa e sulla propria formazione originaria.
Il lavoro del pedagogista clinico si basa sul soggetto che interpreta se stesso a partire dal proprio mal-essere formativo, educandolo allo scavo archeologico del proprio cammino formativo, intesa come indagine dentro di sé. E la scelta della rete categoriale che orienta il processo di consulenza del clinico, intorno al quale ruota, da una parte il soggetto che si decostruisce con il proprio interrogarsi, dall'altra sempre il soggetto che si ricostruisce ordinando con il pensiero la propria formazione; tale scelta non è dettata dalla malattia che affligge l'individuo ma dalla specificità deformativa da cui è afflitto, suggerendo al pedagogista di approntare reti categoriali specifiche, in grado di rispondere a disagi formativi ben precisi[6].

Categorie e procedure pedagogico-cliniche         
Le categorie qui rappresentate, sono una rappresentazione semantica possibile di una mappatura che il pedagogista può autonomamente strutturare in relazione ai problemi emersi nella consulenza clinica con gli individui interessati; il pensiero è una categoria che consente al soggetto di ricercare strade e sentieri che lo possano condurre alla propria formazione autentica e tornare così alla purezza originaria di se stesso; la categoria vita rappresenta l'esperienza che l'individuo ha maturato nell'arco del tempo e del senso che ha attribuito alla realtà vissuta, oltre ai mali provati; la categoria natura coincide con la struttura biochimica, neurologica ed originaria del soggetto che deve essere sempre rispettata e mai offesa con abusi di farmaci, alcool o droghe; la categoria mondo riguarda il rapporto che l'individuo stabilisce con la realtà esterna, ossia il collegamento fra la propria interiorità e il mondo manifesto (quello conosciuto) ma anche fra interiorità e ulteriorità, richiamando così il senso del mistero e dell'imponderabile; la categoria della libertà ha a che fare con la liberazione del proprio pensiero da modelli e stereotipi, agendo sempre nel rispetto delle libertà altrui; la categoria dell'originarietà coincide con la struttura costitutiva del soggetto, ossia del suo assetto identitario, che può essere messo in crisi da ostacoli d natura diversa e di portata tale da ostacolare il processo della formazione soggettiva; la categoria della trasformazione rimanda alle   tappe raggiunte nel corso della vita, che hanno contribuito alla costruzione delle diverse forme di sé al di là di ogni annichilimento e di ogni rinuncia a crescere ed evolvere; la categoria identità assume  in pedagogia clinica il significato di formazione dell'identità personale che si viene determinando nel tempo, attraverso esperienze libere, nel rapporto con l'altro da sé; la categoria differenza coglie invece la contrapposizione fra l'identità soggettiva e la differenza di tutti intesa in termini fisici, psichici e sensoriale; la categoria cultura sostanzia tutto ciò che il soggetto elabora, inventa, crea e costruisce, in maniera libera, accogliendola nelle forme dell'arte, della musica, della scienza, del linguaggio, ecc.; il viaggio è la categoria che assembla il cammino introspettivo con gli itinerari degli altri e dell'oltre, oscillando fra erranza e conoscenza, tra progetto e caso, aprendosi sempre alla scoperta e all'incontro con l'altro e con i luoghi, delineandosi come misura di se stessi e delle proprie capacità; il legame è la categoria che riguarda le esperienze continuative determinate da legami affettivi che formano ma possono anche deformare quando impediscono di crescere e di respirare, ostacolando la libertà di crescita e di espressione; la categoria sentimento appare in pedagogia clinica come attività atta a formare affetti in grado di indirizzare il soggetto verso l'equilibrata capacità di stare con gli altri, in armonia con se stesso e con il mondo, dove alla modulazione idonea delle emozioni corrisponde un benessere globale, sia fisico che psicologico; l'amicizia è una categoria che rimanda all'unione fra più esseri umani alimentando, quando sincera e spontanea, un'equilibrata formazione degli affetti, della solidarietà e concordia, che non fa mai prevalere il desiderio di possesso, di intolleranza e intransigenza; amore e serenità riflettono, in pedagogia clinica, la capacità di costruire rapporti umanamente maturi, liberi da pregiudizi, in grado di donare armonia tra soggetto e mondo, radicando l'esperienza quotidiana nella quiete interiore e nell'armonia delle relazioni interpersonali; la categoria del corpo definisce le pratiche della vita, il rispetto della corporeità di ogni uomo, oltre al rispetto per la vita e la morte, alimentando lo strutturarsi dell'intersoggettività; la fragilità ha a che fare con le condizioni di crisi, tipiche di ogni stagione della vita e caratteristiche di definite esperienze esistenziali alle quali, tuttavia, occorre rispondere con l'irrobustimento personale, in grado di contrapporsi alla debolezza e all'insicurezza; la sofferenza riguarda invece lo stato de-formativo del soggetto, risultato dall'accumularsi di esperienze nefaste, causa di strazi e tormenti tali, da mettere l'individuo nella condizione di interrogarsi e ripensarsi, così da metterne in luce i significati; il dolore rappresenta l'effetto scaturito dal malessere esistenziale che, aggredendo l'individuo nella propria interiorità, mette in discussione l'equilibrio e l'armonia della sua formazione, rischiando di deformarsi se on contenuta attraverso l'esercizio del pensiero e dell'indagine; la categoria paura riflette in pedagogia clinica il senso di sgomento che deriva dal vivere la realtà con angoscia e debolezza, avvertendo un'ansia pervasiva per il futuro, quindi, tutto ciò rimanda necessariamente al senso di indeterminatezza, categoria pedagogico-clinica anch'essa, che si identifica con il senso di diffusa precarietà esistenziale, un sentimento di instabilità ed incertezza tale, da impedire la concezione di un'esistenza serena e di una libera formazione; la categoria morte rimanda all'idea della fine del processo formativo, la consapevolezza della finitudine della vita che tuttavia lascia tracce indelebili nella memoria storica e che quindi non è mai segno di totale separazione e oblio; la categoria male evoca quell'insieme di condizioni di diversa intensità che condividono la provocazione di uno stato di malessere e dal quale occorre liberarsi attraverso le forme di una formazione libera e liberante; la categoria del bene
non richiama in pedagogia alle forme di perfezione dell'essere ma alla trasformazione del soggetto secondo criteri idonei e consoni alla natura autentica dell'individuo, nel rispetto della sua profonda originalità costitutiva e nella piena consapevolezza maturata come libera scelta; la categoria del mistero evoca in pedagogia il principio dell'apertura del soggetto all'archeologia più più profonda e nascosta del proprio essere, dove si annidano il senso del sacro e dell'eterno che motivano alla ricerca del divino dentro e fuori se stessi; la dignità rappresenta invece una qualificazione normativa oltre che esistenziale, in grado di determinare una condizione che prescinda da fattori contingenti come etnia, credo religioso o convinzioni politiche ma si decanti come fondamento proprio di ogni essere umano, inviolabile e sempre da rispettare.
Queste categorie, ben lungi dall'esaurire il repertorio orientativi del pedagogista, servono unicamente come esempi, come possibili “attrezzi di lavoro” che aiutano a districarsi meglio all'interno di contesti problematici complessi, indicando eventuali sentieri da percorrere attraverso l'interrogar-si e il domandar-si circa la propria formazione[7].
 Ecco che allora, relativamente ad ogni categoria, il soggetto è chiamato a domandarsi: come mi vivo? Come sento di vivere nel malessere? Conosco il mio mondo interiore? Come arrivano a toccarsi il mio mondo e quello dell'altro?
Ed ancora: Come sento la natura di me stesso? So pensare la mia natura? So vivere la mia natura? Sono libero di essere me stesso? Da cosa vorrei liberarmi? In cosa consiste la mia libertà? Ecc.
Come si può capire, ad ogni rete categoriale concepita possono corrispondere domande diverse, con il fine comune di risvegliare nel soggetto la consapevolezza di essere-in-possibilità, ovvero, di possedere le potenzialità necessarie per sperimentare molteplici condizioni esistenziali reinterpretando costruttivamente il proprio divenire formativo, alla luce delle categorie pedagogiche indicate dal clinico.
In pedagogia clinica non esiste una metodica standard operativa ma una procedura metodologica in grado di orientare la prassi della consulenza, costituita da sequenze metodologicamente ordinate e concretamente rivolte al raggiungimento del fine formativo. Il clinico inizierà con una anamnesi che viene a coincidere con la storia formativa del soggetto (ottenuta tramite il domandare del clinico e il domandar-si dell'individuo), proseguendo con l'interpretazione, finalizzata alla decostruzione e alla ricostruzione ciclica e continua del processo formativo sotto analisi, individuando malesseri, deformazioni e punti di forza, oltre a mettere in luce eventuali contraddizioni che emergono dal racconto della storia di vita personale.
L'interpretazione pedagogico-ermeneutico-semiotica richiama l'attenzione del pedagogista clinico verso la ricerca di un senso della storia e dei segni che si intrecciano con gli eventi vissuti, caratterizzando la condizione di uno stato di malessere formativo[8].
Il processo di significazione, definito come diagnosi, in pedagogia clinica rappresenta un'attribuzione di senso circa la condizione di malessere causato dallo stato deformativo in cui riversa il soggetto; ad essa il professionista perviene dopo aver compreso ed interpretato la sua particolare storia formativa che non si manifesta mai come una sentenza ma come un conferimento di senso ai segni rilevati.
La diagnosi pedagogica è quindi soggetta a fallibilità dal momento che le storie narrate nascondono sempre tratti occulti o deformati, per cui, occorre sempre agire con cautela e con sospetto, non trascurando mai la comunicazione non verbale, i segni motori e le condotte cinesiche che involontariamente il soggetto esprime[9].
Il pedagogista clinico, da buon lettore di segni deve dunque procedere attraverso il continuo domandare prestando attenzione anche agli aspetti più sottili del racconto; una volta approfondita la conoscenza dello stato deformativo, occorre ricostruire la rete categoriale per meglio identificarne le forme, infine, attraverso la consulenza, è possibile approdare ad una terza fase in cui si è in grado di orientare il soggetto in un percorso di riflessione che consenta di condurlo in un percorso di riflessione approfondita della propria formazione.
E' da tale autoindagine che scaturisce il processo di identificazione e decostruzione del proprio malessere formativo (sempre alla luce delle categorie formative promosse dal pedagogista), indirizzandosi verso la costruzione conoscitiva del benessere e delle possibili trasformazioni future.
Due sono quindi i processi chiamati in causa: quello educativo, che si stabilisce fra pedagogista e soggetto e quello formativo che si fonda sul rapporto dell'individuo con se stesso, gettando le basi per un rinnovato statuto formativo fondato su criteri diversi, capaci di ridefinire il soggetto stesso e il suo essere uomo. L'intervento clinico ha quindi termine quando l'individuo ha preso coscienza e individuato chiaramente la radice della propria deformazione e dopo aver ricostruito la propria formazione, autenticamente libera e fondata su quelle basi chiaramente espresse dalla rete categoriale disposta dal clinico. La terapia pedagogica si sostanzia in sintesi come “cultura della cura” ovvero come “cultura della formazione” fondata sulla cura di sé e sulla capacità per il soggetto di non smarrirsi nuovamente, orientandosi verso le più confacenti trasformazioni del proprio essere costitutivo. La cura non indica un lavoro terapeutico tradizionalmente inteso, infatti, come più volte abbiamo ripetuto, il pedagogista non è né un tecnico né un terapista; per cura qui intendiamo un aiuto al ritorno a se stessi, alla propria originarietà formativa ed alla propria identità profonda, circa la responsabilità del proprio farsi uomo concepito come differenza dagli altri uomini, nel rispetto della propria libertà formativa[10].  
Il pedagogista clinico adotta quindi lo strumento della consulenza per dirigersi verso il soggetto, la cui formazione necessita di essere presa in cura, per cui, la relazione educativa non è mai lo scopo ma semplicemente il mezzo che conduce il soggetto a ripensare la propria formazione, attraverso la pratica dell'incontro e del dialogo. La forma della consulenza non è mai precostituita ma mantiene i caratteri della flessibilità, in grado di adattarsi alle specificità delle situazioni, disponendo il soggetto a guardare il proprio disagio formativo da punti di vista differenti in modo da favorirne l'emancipazione dallo stato di deformazione che gli impedisce il libero ed armonico formarsi.
Il soggetto viene aiutato così a riequilibrarsi attenuando le condizioni di conflittualità con l'ambiente in cui è inserito, in modo da colmare il vuoto lasciato dal suo essere inautentico che  impediva il radicarsi in se stesso e la liberazione  della forma del proprio essere autentico. Tutto questo contribuisce al processo trasformativo dell'individuo che avviene una volta abbandonati i vecchi codici causa di deformazioni formative, in favore di nuovi codici in grado di attivare il processo di liberazione del soggetto da vincoli patologici e riduttivi, avviando il percorso di emancipazione della formazione soggettiva.
In conclusione, il pedagogista clinico opera sempre a livello educativo e formativo del soggetto, senza mai intervenire sulle patologie fisiche, psichiche e sensoriali; il suo intervento è quindi di natura educativa, coordinando e gestendo la consulenza per risolvere i problemi diseducativi e deformativi dell'individuo, derivanti dall'incapacità di aver cura di sé. Si capisce bene che per gestire una così complessa e delicata professione occorre conoscere la pedagogia generale, le scienze pedagogiche, le scienze umane, naturali e cliniche, nella consapevolezza che nella pratica di consulenza permangono sempre elementi di problematicità e mai di assoluta certezza.[11]
Il lavoro clinico si costruisce nella consapevolezza che l'individuo è la risultante di un intreccio fra la sua struttura biologico/genetica e l'ambiente di appartenenza, quindi, gli squilibri e le disarmonie formative del soggetto devono essere lette sia sotto un'ottica costitutiva e naturale, sia sia sotto un'ottica socio/culturale in modo da inquadrare tale “impasto” tra natura e cultura in maniera adeguata, soggetta ad  influenzare inevitabilmente la formazione e l'educazione dell'individuo[12]
Il clinico adotta comunque sempre le forme della cultura interpretativa che possiede ed è quindi necessario che ne prenda coscienza, in modo da sviluppare adeguate competenze riflessive e metariflessive circa le sue competenze di professionista oltre che umane e quindi relative alla propria educazione e formazione[13].










Il pedagogista clinico sul campo  
Contemporaneamente all'affermazione della disciplina pedagogico-clinica, è venuta affermandosi anche quella professionale ad essa connessa, ossia, quella del pedagogista professionista impegnato sul campo, consapevole sia del proprio regime clinico, sia dello stile professionale clinico che lo contraddistingue. Le esperienze cliniche sul campo consentono al pedagogista di superare gradualmente lo stato di subordinazione rispetto ad altri professionisti, anche se ancora, molto deve essere fatto per aiutare il professionista a prendere coscienza del proprio ruolo e delle competenze che ha maturato, si tratta, in altre parole, di rendere esplicite le abilità implicite, ossia le conoscenze che si possiedono ma di cui non si ha piena consapevolezza.[14]
Procedendo in questa direzione è possibile tamponare almeno in parte l'effetto alienazione che deriva dalla convinzione che determinate procedure, metodiche ed azioni, in quanto simili ad  altri  saperi  maturati su campi professionali limitrofi, non possano essere esercitati da chi non appartiene a quella specifica categoria . L'emancipazione che invece si è venuta a determinare in ambito pedagogico negli ultimi anni, denota la tendenza ad uscire da questo stato di ancillarità, come dimostrano i seguenti fenomeni:
1)      lo sviluppo degli interessi in ambito formativo che si sono estesi ben oltre i confini che tradizionalmente sono stati imposti alla pedagogia, come ad esempio la scuola, costringendola a rimanere attinente solamente agli aspetti didattici.
2)      Maggiore consapevolezza culturale e scientifica dei pedagogisti
3)      incremento del numero dei pedagogisti che operano come liberi professionisti all'interno di studi privati o in èquipe multidisciplinari. 
4)      Presenza sempre maggiore di pedagogisti che lavorano come dipendenti, a progetto o come consulenti, presso ASL, enti locali di vario tipo, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, ma anche in nidi d'infanzia, scuole d'infanzia e servizi formativi, para ed extrascolastici, occupandosi direttamente degli aspetti legati al disagio, alla formazione professionale, alla patologia evolutiva, contribuendo anche attraverso la stesura della diagnosi pedagogica e del progetto educativo.
Allo stesso tempo si manifesta però, da più parti, la scarsa consapevolezza, da parte degli operatori scolastici, del proprio essere pedagogisti, in quanto esperti dei processi formativi umani, seppur con ruoli diversificati, come ad esempio docenti, dirigenti ed altre figure attinenti alla scuola. La competenza scientifica del pedagogista apre comunque a questo professionista ampie possibilità di intervento, in più ambiti, in quanto egli:
a) è esperto dello sviluppo umano totale ed integrato, con studi di sintesi e di ricerca propri.
b) Osserva e valuta l'andamento evolutivo di un individuo in relazione alla normalità, in ogni stadio della vita.
c) Contribuisce alla tipizzazione dei casi evolutivi, unitamente ad altri specialisti (neurologo, psichiatra, psicologo, fisiatra, logopedista, ecc.)
d) osserva e valuta le condizioni ambientali e sociali di vita.
e) Studia e tratta (consulenza) i problemi adattivi umani.
f) E' teorico dell'educazione.
g) E' teorico e ricercatore di pedagogia.
h)  E' docente di pedagogia[15].
   
Da questo quadro si comprende allora che il pedagogista è dunque competente ed esperto dello sviluppo corporeo sia organico che funzionale, comprendenti gli aspetti intellettivi, emotivi, linguistici, affettivi,  ecc., in grado di redarre adeguate sintesi globali e cliniche; inoltre, essendo formato alla gestione dell'approccio ermeneutico, è in grado di interpretare in maniera approfondita la complessa situazione del soggetto, senza cadere nei facili luoghi comuni o farsi ingannare dalle apparenze della realtà in cui si immerge.
La pedagogia di cui si nutre il clinico è sempre comunque di natura educativa, attenta quindi ai processi di crescita e di maturazione individuali, necessitando quindi di un approccio formativo duplice: quello della formazione generale e quello della specializzazione, oltre naturalmente all'analisi delle personali attitudini, necessarie per individuare con sicurezza l'ambito o gli ambiti in cui esercitare la propria attività.
La consapevolezza del ruolo professionale del pedagogista deve allora iniziare a delinearsi sin dai primi anni universitari, affinché lo studente possa cominciare a costruirsi un'immagine ben distinta e positiva della professione cui potrà accedere, rinforzando, così facendo, la valorizzazione di sé, il consapevole impegno intellettuale, le aspettative professionali e le energie creative. Maturare la piena consapevolezza del ruolo e percepire l'autonomia della pedagogia rispetto ad altri saperi, contribuisce a valorizzare non soltanto la professione del pedagogista ma anche a rinforzare in maniera positiva la visione che gli studenti hanno del proprio percorso di studi. Partendo da queste premesse si capisce bene che l'obiettivo principale è quello di superare l'eccessiva indeterminatezza delle prospettive lavorative e imporre come opzione primaria la formazione alla figura del pedagogista, inteso come specialista delle scienze dell'educazione. Continuando successivamente gli studi, il pedagogista potrà specializzarsi in uno o più ambiti, in connessione con gli interessi o con le richieste che il mercato gli rivolge, attivando strategie di intervento clinico, in relazione ai problemi di carattere formativo, mediante opportuni procedimenti di:
-         diagnosi (della situazione);
-         intervento (teorico, prescrittivo, progettuale, ecc.)
-         controllo (dell'andamento)[16].
Le prestazioni professionali del pedagogista clinico possono possono esprimersi in istituzioni pubbliche, come quelle socio-sanitarie, scolastiche, amministrative, universitarie, giudiziarie, ecc., oppure private, come quelle consultoriali, editoriali, industriali, centri di ricerca/diagnosi/terapia, ecc.
Il pedagogista comunque, pur lavorando con persone di ogni età e in contesti diversi, ha come tratto professionale distintivo la centralità dell'apprendimento e l'adattamento alla realtà, infatti, questo professionista lavora su:
-         Osservazione e valutazione del comportamento e dell'apprendimento.
-         Strategie dell'apprendimento.
-         Tecnologia educativa (metodologia, didattica, riabilitazione, sussidi, curricolo, progetta-zione, organizzazione scolastica, valutazione/controllo, risorse dell'educazione, ecc.).
-         Epistemologia generale.
-         Epistemologia disciplinare.
-          Filosofia dell'educazione.
-         Deontologia dell'educatore.
-         Docimologia.
-         Architettura e arredo spazi sociali e scolastici.
-         Organizzazione scolastica e dei servizi formativi.
-         Programmi scolastici e formativi.
-         Legislazione scolastica e dei servizi socio-educativi.
-         Educazione speciale (didattica speciale, riabilitazione, terapia).
-         Comparazione educativa e scolastica.
-         Letteratura per ragazzi.
-         Tempo libero.
-         Storia dell'educazione e della scuola.
-         Teoria e ricerca educativa.
-         Orientamento scolastico e professionale.
-         Educazione familiare.
-         Consulenza tecnica giudiziaria.
-         Tossicodipendenze (devianza, emarginazione).
-         Formazione sportiva.
-         Educazione permanente.
-         Conduzione di servizi fomativi (scolastici, assistenziali, terapici, ecc.)
-         altri...[17]
In conclusione,  da questo elenco si traggono importanti spunti di riflessione che ci consentono di individuare i tratti costitutivi essenziali, tipici dell'agire del pedagogista, ossia, la promozione delle abilità ed il sostegno umano, in ogni situazione, del soggetto o del gruppo, ponendo attenzione alla  singolarità o diversità dei protagonisti del fenomeno educativo, siano essi bambini, adolescenti o adulti in formazione, indagandoli e trattandoli con aderenza alla loro caratteristica individualità, attraverso azioni cliniche di  orientamento, osservazione, diagnosi e trattamento.     

Aspetti fondamentali della professione

Il pedagogista, sia che declini la propria professionalità in senso clinico, sia che lavori in un ambito formativo, deve porsi tre obiettivi fondamentali: aiutare i soggetti a crescere come persone, a maturare intellettualmente e culturalmente e ad ottenere il loro spontaneo coinvolgimento nei processi di apprendimento. Il pedagogista è essenzialmente il professionista che vede nell’apprendimento il focus intorno al quale ruota tutto il suo lavoro, infatti, senza apprendimento non è possibile attivare nessun percorso formativo che consenta di progredire, crescere e maturare e questo vale in qualsiasi contesto e in presenza di utenti di ogni età, a prescindere  dall’etnia, dalla classe sociale di appartenenza o dalle condizioni soggettive.
La competenza culturale è un fattore fondamentale nell’esercizio della professione pedagogica e questo non perché il compito del pedagogista debba ridursi a trasmettere nozioni o informazioni ad un ipotetico allievo ma più semplicemente perché senza un substrato di conoscenze atte a mettere a fuoco determinati nuclei rilevanti e collegarli fra di loro in modo organico non è possibile far luce sui concetti fondamentali di cui si tratta e i metodi da utilizzare in un setting educativo.
Per aiutare ad orientare o a motivare è importante che la persona alla quale ci si rivolge avverta la sensazione di stare su una base sicura, che gli consenta  di ricominciare a pensarsi e progettarsi, ecco perché il professionista deve possedere conoscenze tali, da consentire a chi gli sta davanti di non essere su una piattaforma instabile e priva di ancoraggi, anzi, l’obiettivo è proprio quello di portare il soggetto ad apprendere da solo determinati concetti, utilizzando metodi e strategie che permettano di elaborarli, collegarli fra loro e valutarli. Le conoscenze maturate, nella consapevolezza del loro valore storicamente determinato, sono presentate e costruite sempre in modo problematico e non come un prodotto già confezionato e semplicemente consegnato all’utente; ogni argomento, tema o spunto di riflessione è così oggetto di curiosità e di indagine, le sole che possano risvegliare l’interesse e l’ingegno soggettivi, favorendo l’attivazione di meccanismi di pensiero finora inutilizzati.
La competenza pedagogico-didattica la ritroviamo soprattutto (ma non in maniera esclusiva) in ambito scolastico, soprattutto quando il pedagogista ha il compito di promuovere la formazione del o dei soggetti in difficoltà, aiutandoli a crescere come persone e come cittadini, guidandoli nell’acquisizione di conoscenze e abilità specifiche. L’obiettivo non è quello di adeguare l’individuo in maniera acritica alla realtà sociale ma all’opposto, di consentire l’acquisizione dell’abilità necessarie per valutare, riflettere sulla realtà, sui fatti che accadono intorno a lui, proponendo soluzioni e tentando di cambiare in modo propositivo la situazione con la quale si trova ad interagire. Non si tratta quindi “assorbire” nozioni come vuole la più antica tradizione scolastica ma di “costruire” attraverso un personale lavoro individuale e collettivo i diversi punti di vista, con spirito critico e metodo, impegnandosi in lavori di gruppo, in attività di collaborazione con gli altri ma anche in singolari compiti di ripensamento e riflessione. Tutto ciò è possibile solo se il pedagogista è in grado di definire in maniera precisa gli obiettivi educativi di fondo, i mezzi per raggiungerli, le strategie da utilizzare, negoziando il tutto con gli interlocutori al fine di ottenere coinvolgimento e spirito di iniziativa.
La competenza psicologica è necessaria dal momento che al pedagogista non interessa, come abbiamo precedentemente detto, trasmettere i saperi o i contenuti di una determinata disciplina, ma promuovere lo sviluppo del soggetto con cui si interagisce, anche attraverso gli argomenti disciplinari, siano essi artistico, scientifici, artistici o letterari, con il fine ultimo di acquisire non solo conoscenze ed abilità ma soprattutto di animare la vita mentale dell’interlocutore, promuovendone lo sviluppo in tutti i suoi aspetti, motori, affettivi e cognitivi. L’attenzione del Pedagogista è rivolta sia ai processi mentali del soggetto, sia al modo, diretto o indiretto, di acquisire le conoscenze, comprendere eventi, attribuire responsabilità, riconoscere cause ed effetti dei fenomeni storici, sociali, fisici, ecc. L’apprendimento per il pedagogista è inteso come processo grazie al quale una certa esperienza lascia una traccia più o meno nitida e durevole, considerando la razionalità, il linguaggio (verbale, gestuale, grafico, ecc.), la fantasia, le motivazioni a capire, conoscere e autorealizzarsi, come condizioni fondamentali per una equilibrata formazioni che però necessitano di una continua supervisione e “manutenzione”, al fine di evitare indebolimenti o rotture significative. Anche l’affettività (emotività) rientra nell’ambito della vita mentale del soggetto, degna di attenzione da parte del pedagogista, il quale, nell’esercizio delle sue funzioni avrà cura di rilevare le modalità con cui l’individuo si appresta ad affrontare situazioni o eventi, le strategie che adotta nel relazionarsi con gli altri (socialità), i valori a cui si ispira per orientare le proprie azioni (moralità), l’attività riflessiva che impiega per ripensare il proprio agire o le conoscenze acquisite durante un’esperienza formativa ( attività metacognitiva). Capire quali sono i fattori che ostacolano o possono incrementare lo sviluppo della vita mentale del soggetto rappresenta una competenza fondamentale per il professionista che si impegnerà a conoscere sia la natura che la genesi dell’attività dei vari fenomeni, ad esempio quelli percettivi, considerati in relazione all’età, sia che si tratti di un bambino, di un adolescente o di un adulto e ipotizzando eventuali esperienze educative che potrebbero rafforzare specifiche abilità. Il pedagogista dovrà saper gestire adeguatamente colloqui di gruppo (nel caso in cui operi in contesti scolastici) e individuali, centrati su scopi ben precisi, saper utilizzare questionari e costruirli adeguatamente preoccupandosi di imparare a somministrarli in maniera corretta e ad elaborarne le risposte finali. Occorrerà inoltre essere in grado di selezionare gli strumenti didattici più idonei per il recupero di abilità residue o carenti, utilizzare il test sociometrico e i cosiddetti, “test di profitto”, al fine di rilevare in che modo le conoscenze vengono acquisite, come sono elaborate e come vengono impiegate. Il pedagogista, infine, dovrà tenere presente l’importanza degli atteggiamenti adottati, curando in particolar modo quello dell’ascolto e quello di guida, con il fine favorire il più possibile lo sviluppo di una capacità di autonomia, senso di libertà ed un sentimento di valorizzazione personale, elementi necessari per la maturazione di una sana curiosità cognitiva, oltre naturalmente all’intraprendenza inventiva,  che consente di cercare i modi più consoni per dare una risposta soddisfacente ai propri “perché”. La flessibilità cognitiva è un atteggiamento mentale da coltivare perché rappresenta la disponibilità a cambiare la propria opinione quando si prende coscienza di determinati fattori rilevanti, oltre a conferire la capacità di rispettare idee e opinioni che contrastano con la propria, facendo scorgere eventuali punti contatto o di integrazioni fra visioni diverse della realtà o fra filosofie apparentemente inconciliabili[1]. Il potenziamento degli atteggiamenti funzionali e già presenti all’interno degli schemi comportamentali del soggetto e l’aiuto ad acquisire quelli necessari e carenti affinandone anche l’efficacia applicativa, rappresentano un’ulteriore competenza pedagogica da coltivare per rendere più completa la professionalità dello specialista.
Dopo questa breve rassegna delle competenze, siamo ora in grado capire meglio le finalità professionali del pedagogista e la specificità operative che lo contraddistinguono da altri operatori, ovvero, 1) aiutare bambini, adolescenti e adulti a crescere come persone, 2) a maturare culturalmente e intellettualmente, 3) ottenere un pieno coinvolgimento negli apprendimenti, siano essi di carattere disciplinare, esistenziale, formativo o professionale.
Ricordiamo che, per quanto riguarda il primo punto, la nostra costituzione nell’art. 3 specifica che occorre aiutare l’ allievo a sviluppare tutte le sue potenzialità, sul piano delle capacità motorie, e intellettive, così come su quelli degli interessi, dell’affettività e della socialità, così da stimolare in lui la crescita della capacità di autonomia, che gli consenta valutare criticamente situazioni, eventi e risultati, oltre naturalmente a sviluppare una sana fiducia in se stesso e nelle proprie capacità presenti e potenziali, riassumibili nel termine di “ senso di autoefficacia”. Partendo da questi requisiti il soggetto può, insieme al pedagogista iniziare a programmare  le proprie attività e a progettare in maniera costruttiva il proprio futuro, cominciando ad assumersi le responsabilità, anche nei confronti degli altri, maturando quindi la competenza relazionale che gli consenta di mettersi nei panni di chi ha di fronte e di interagirci positivamente, prendendo gradualmente coscienza delle emozioni in gioco, dei successi o problemi emergenti e sviluppando così l’abitudine a ispirare le proprie decisioni a valori che siano riconosciuti universalmente. Tutto questo significa rendersi capaci di reagire positivamente ad un insuccesso attivando importanti meccanismi riflessivi sulle possibili ragioni interne o esterne al soggetto, ipotizzando eventuali soluzioni alternative a quelle finora sperimentate e fallimentari, senza far ricorso a reazioni irrazionali e aggressive dettate unicamente dall’impeto emotivo.
Per quanto riguarda il secondo punto si tratta in poche parole di promuovere lo sviluppo intellettuale dell’individuo, favorendo l’acquisizione o il rafforzamento di certe capacità di base, come ad esempio quelle di analisi, sintesi, generalizzazione, simbolizzazione, ragionamento e di fantasia. Naturalmente, queste capacità essenziali non sono esercitate a “vuoto” ma su precisi contenuti culturali, su specifici temi sui quali il pensiero viene chiamato a lavorare. Al pedagogista non interessa tanto il far ricordare specifici contenuti culturali ma aiutare a far riflettere sui diversi argomenti, cercando di affrontare i problemi sotto ottiche inedite, utilizzando strumenti concettuali nuovi che consentano realmente di guidare verso la scoperta attraverso l’indagine, attingendo alle risorse personali, solo così il soggetto può divenire consapevole delle proprie capacità mentali e collaborare attivamente per superare i propri limiti e le difficoltà di percorso.
Il terzo punto riprende infine quello che abbiamo accennato precedentemente, ossia la necessità di coinvolgere la persona nell’attività di apprendimento, facendo leva non solo sugli aspetti cognitivi ma essenzialmente su quelli emotivi, in modo che, stimolando l’interesse e aiutando a sperimentare il successo, sia possibile rendere spontanea l’attività di apprendimento, senza disperdere le proprie energie in futili attività ma anzi, trovando le giuste motivazioni per canalizzare le proprie energie nella giusta direzione, concentrandosi in ciò che si sta facendo non perché “lo si  debba fare” ma perché “lo si vuol fare”.
Naturalmente per ottenere risultati di questa portata occorre che il pedagogista mostri la propria disponibilità a fornire aiuti, i quali, da un lato possono servire ad introdurre nuovi dati di conoscenza in grado di mutare il contesto entro il quale il soggetto vive una certa situazione, così che questa possa assumere un diverso significato ed una nuova valenza, dall’altra ad incoraggiare, ossia, a mettere in moto un particolare meccanismo psicologico che consiste essenzialmente nel considerare un determinato obiettivo alla propria portata e non al di sopra delle proprie capacità, avvertendo dentro di sé la consapevolezza di disporre dei necessari mezzi per raggiungere i traguardi prefissati[2].   Sentirsi competenti significa avvertire il sentimento di riuscire nel proprio intento ed è questo che spinge il soggetto a trovare le giuste motivazioni per continuare ad apprendere e maturarsi, ecco perché il pedagogista nel proprio lavoro ha il compito di valorizzare ciò che il soggetto fa o dice, fino ad arrivare alla parte più importante del processo formativo, dove il soggetto sperimenta attivamente la conoscenza di se stesso, delle proprie abilità e carenze. Tutto ciò aiuta a sviluppare un senso positivo di sé atto a promuovere la formazione dell’identità soggettiva, costituita dall’insieme delle capacità di base, motorie, intellettuali e sociali, ossia, l’insieme delle conoscenze e delle abilità specifiche che il soggetto possiede, i suoi interessi stabili, gli atteggiamenti che tende ad assumere e i valori ai quali si ispira.
In sintesi, il lavoro pedagogico potremmo considerarlo come un delicato processo di natura formativa che consente di favorire lo sviluppo di capacità operative e riflessive, che consentono gradualmente di maturare la capacità di autonomia intellettuale e di un atteggiamento creativo, strumenti fondamentali per interpretare la realtà naturale o dei comportamenti umani con sguardo critico, giungendo a porsi o “inventarsi” dei perché[3].      
         







La cura di sé come strumento pedagogico

Il concetto di “cura” si sta estendendo sempre di più in diversi ambiti professionali ed  è un termine che appartiene per tradizione alla scienza medica; prendere in cura il malato è infatti uno dei compiti principali che compete alle professioni sanitarie ma che, attualmente, riveste particolare importanza anche in ambito psicologico, sociale e pedagogico.
Quando una persona richiede un aiuto, di qualunque natura esso sia, alla base c’è un denominatore comune: il volere che qualcuno si prenda cura di essa, attraverso la soddisfazione della domanda.
Partendo da questa premessa si comprende bene che la persona alla quale ci rivolgiamo, sia essa un prete, un assistente sociale, un infermiere o un medico, ha il diritto/dovere di rispondere alla domanda di aiuto, nel rispetto naturalmente del proprio e degli altrui profili professionali e delle competenze necessarie affinché l’intervento si svolga nel migliore dei modi.
L’aiuto deve poter essere, detto altrimenti, erogato se si hanno le competenze per farlo, ma indicare alla persona bisognosa, il professionista che può aiutarla nel suo bisogno, è già di per sé una forma di cura dell’altro.
In ambito pedagogico la cura assume una importanza estremamente rilevante e questo è di per sé abbastanza evidente, se si pensa che non esiste intervento pedagogico se non si instaura una relazione con l’altro e non esiste relazione se da parte del professionista non c’è l’intenzione di prendersi cura dell’altro e dei suoi bisogni formativi.
La disponibilità ad ascoltare l’esigenze dell’altro, il tentare di sondare gli aspetti più profondi e le motivazioni che spingono il soggetto a parlare e ad agire in quel particolare modo, l’attenzione che poniamo alla  sua soggettività ed unicità, rappresentano il tentativo importante di instaurare con esso una relazione educativa che testimonia il voler prendersi cura di chi sta davanti a noi.
La cura prende le mosse dalla consapevolezza della possibilità di formare e trasformare l’uomo, nel rispetto dell’autenticità soggettiva e del suo progetto originale, avendo ben chiaro che nel momento in cui essa dà forma ai soggetti del rapporto, produce inevitabilmente autoformazione perché la cura è sempre, inevitabilmente, cura di sé.
Essendo la pedagogia scienza che consente all’uomo di raggiungere la propria forma autentica, in sintonia con i bisogni e le aspirazioni più intime, occorre che la relazione educativa, veicolo principale affinché tutto ciò si realizzi, sia improntata in modo tale da riuscire a sostenere il “peso” del mutamento e della trasformazione della singola soggettività che necessita di costruirsi attraverso il sostegno, il dialogo e l’ascolto, ovvero, di cura.
La cura ha in sé il congegno che consente di far emergere le potenzialità soggettive, collocandosi tra l’azione conformante del modello educativo al quale ci riferiamo e l’azione motivante di un percorso formativo personalmente interpretato, per cui, ogni forma di cura è unica perché calibrata su soggetti diversi, individualmente irripetibili. Attraverso un ascolto partecipato, che consente di comprendere l’esperienza dell’altro nella sua globalità, è possibile avvertire un sentire orientante del soggetto che collega direttamente i  vissuti mettendoli in un contatto reciproco e in una condizione di scambio continuo, frutto dell’azione di cura che si manifesta attraverso specifiche pratiche dialogiche o di comunicazione per il recupero del disagio esistenziale ad esempio, attivabili mediante momenti di lettura, di lettura dei classici, di narrazioni di esperienze o di filosofie di vita, il tutto, da riorientare e reinterpretare alla luce della cura di sé, anche con il ricorso alla pratica autobiografica. 
La professione pedagogica è una professione di cura che ha come oggetto di studio l’uomo e la sua condizione di fragilità esistenziale che necessariamente deve essere presa in cura, curvandosi sul debole, sul soggetto in difficoltà, su chi vive una situazione di smarrimento, chiuso nella propria solitudine e nella disperazione. L’accettazione della differenza come condizione fondamentale della cura pedagogica rappresenta il terreno su cui è possibile edificare la costruzione del soggetto, utilizzando gli strumenti più idonei (dialogo, ascolto attivo, esperienze laboratoriali, scrittura creativa, ecc.) per promuovere l’espressione dei bisogni più nascosti, attraverso un esercizio continuo fatto di dialogo, relazione ed incontro[4]
La cura pedagogica assolve il compito fondamentale al quale l’individuo è chiamato, da sempre: il suo farsi uomo attraverso il personale processo di formazione-costruzione, realizzando così, il progetto della propria esistenza che, se nelle prime fasi della vita è affidato alle cure genitoriali, successivamente saranno le esperienze di vita, gli apprendimenti, gli insegnanti, la personale metabolizzazione delle conoscenze, a disegnare i contorni della propria architettura di vita futura.
Attraverso il prendersi cura di sé e del proprio progetto di vita che l’uomo ha la possibilità di “pervenire a se stesso”, realizzando così la propria forma originale ma questo delicato cammino non è solitario, anzi, è la fragilità esistenziale di ognuno e il senso di finitudine soggettivo che costringono a richiedere e ricevere aiuto in molti momenti della vita. Solo così è dato all’uomo di divenire uomo, ossia di intraprendere un cammino formativo che gli consenta, come accennato prima, di svelarne l’essenza più intima ed essere verso di essa condotto, fino a realizzare quel suo “poter essere”, che lo collochi oltre ogni forma di snaturamento o di inautentica esistenza.
Un uomo che non si dedichi alla cura di sé , ossia al raccoglimento e all’ascolto della propria dimensione più autentica, disattendendo ogni forma di costruzione del proprio divenire, sordo ad ogni richiesta di costruzione di sé, non può prestare attenzione ai bisogni formativi che lo agitano, destinandolo a non raggiungere mai la propria essenza e a divenire non-umano.
Spetta alla cura pedagogica assicurarsi che l’individuo permanga all’interno di un orizzonte formativo, che non impedisca lo slancio verso l’ulteriorità e l’alterità, nella consapevolezza che solo attraverso il dialogo e l’incontro con l’altro da sé è possibile trovare la propria identità sia pure sempre in modo instabile e mai conclusivo, su un terreno instabile , attraversato da inquietanti scosse  che spingono a lasciare le antiche dimore per dirigersi sempre oltre, verso l’ignoto e l’inesplorato, con l’intento di divenire costantemente ciò che ancora non si è riusciti ad essere.
La cura in pedagogia ha il principale obiettivo di far nascere nell’uomo il desiderio e l’esigenza di aver cura, facendo prender coscienza che si è da una parte oggetto di cura ma dall’altra si è necessariamente soggetti di cura, con il dovere primario di assumersi le sue cure, prima fra tutte la cura di sé, intesa come mezzo per autoaffermarsi, perché solo l’affermazione di sé porta a volere che anche l’altro affermi se stesso, altrimenti, la ricerca della propria originalità, intesa come fonte di autenticità e felicità, non riesce a maturare completamente. Occorre allora riconoscere ed accogliere l’originalità dell’altro, con quel senso di forte responsabilità che fonda ogni forma di cura autentica sulla relazione etica ed educativa, al di là di ogni forma di manipolazione o di interferenza che possa in qualche modo impedire di aiutare il soggetto a divenire ciò che è, magari perché animati dal desiderio di cambiare i connotati o di snaturarli per renderli più appetibili o somigliante ad un modello, indice comunque sia di mancanza di rispetto e di accettazione dell’altro e della propria singolarità.   Il concetto di cura orienta e regola la scelta dei criteri e dei valori insiti nel processo educativo, salvaguardando l’alterità e l’unicità del soggetto, incluso il suo diritto inalienabile di essere aiutato a divenire ciò che è e non ciò che la società o comunque altri vorrebbero che fosse, intervenendo con un fare di natura progettuale che non sia mai un sostituirsi ad esso, evitando di tracciare sentieri o di effettuare scelte al suo posto. Accompagnare e guidare senza mai invadere il terreno altrui non è sinonimo di una pedagogia debole ma è indice di una forte responsabilità nei confronti di chi richiede aiuto, al di là di ogni forma di possesso, abuso o intervento arbitrario e a favore invece di una reale relazione educativa fondata su l’etica, la cultura e l’aiuto a pervenire a se stessi.
La cura non è mai un avvenimento asettico e a distanza ma presuppone sempre un coinvolgimento affettivo che costringe a mettersi in discussione, a rivalutare le certezze maturate e la propria identità; ecco perché quando si parla di cura si intende sempre un avvenimento opposto al tecnicismo che si situa al di là del normativo e dell’aproblematico, per dirigersi invece verso la vulnerabilità, l’indigenza, il limite e la finitudine, ossia verso quei parametri che definiscono bene il processo di crescita, formazione e realizzazione del sé.
Sappiamo che il processo formativo è simile ad un viaggio in grado di modificare il viaggiatore stesso in quanto spinge l’avventuriero ad andare verso l’alterità che è sempre comunque mistero; ecco allora che l’uomo, inteso come vascello, viene segnato e trasformato dalle sue stesse rotte, divenendo mistero a se stesso[5].   
Il mettersi in discussione è la caratteristica fondamentale del viaggio e quindi dell’avventura formativa che vede nel ripiegamento su se stessi il proprio opposto. Il coraggio di uscire da sé per incontrare l’altro è qualcosa che si raggiunge attraverso la relazione educativa e che consente decostruire e ricostruire continuamente se stessi sperimentando nuove forme, ecco perché la cura di sé è volta all’autoformazione ovvero alla non accettazione passiva della situazione, rimettendo costantemente in discussione verità date per scontate, i contesti nei quali ci si trova gettati sin dalla nascita ed evitando i sentieri tracciati per mano di altri.
Quello che la nozione di cura vuol mettere in evidenza, quando la si considera in un’ottica pedagogica è che l’individuo non deve mai essere considerato come una ripetizione dell’identico, ossia come già dato o come oggetto di possesso altrui ma come autoappartenenza che si realizza attraverso il distacco progressivo dalla dimora assegnata (che si determina come valori, visioni, logiche consolidati) per dirigersi verso l’autonomia di giudizio, divenendo finalmente legislatori di se stessi, capaci di costruirsi una propria moralità. Perché ciò avvenga occorre però considerare il fatto che per maturare una propria moralità occorre darsi delle norme o, per meglio dire, apprendere il senso del darsi delle norme perché un’educazione senza regole fallisce se non si apprende l’importanza dell’essere norma a se stessi, anzi, si rischia proprio di confondere la libertà dell’uomo con l’anarchia, ossia con il disimpegno e il disorientamento, mali attuali che si identificano con la libertà per il nulla che conduce unicamente allo smarrimento, alla paralisi più totale e all’impossibilità di intraprendere qualsiasi cammino formativo.
Da queste premesse si capisce la forte responsabilità del pedagogista nel fornire il proprio aiuto, sempre teso fra necessità di indirizzare ed orientare secondo norme e rispettare le inclinazioni soggettive, fra necessità di educare e rispettare la forma autentica dell’interlocutore, mettendosi sempre in gioco, esponendosi anche a costo di rendersi vulnerabili attraverso lo strumento del dialogo che è sempre incontro e confronto.
Educare vuol dire allora aver cura di sé ed aver cura di sé significa assumersi il compito di dare forma all’ esistenza che si manifesta attraverso la costruzione della propria umanità; è  questa cura del divenire che consente allora di poter giungere ad essere se stessi e di evitare quelle forme di distrazione che costringono a vivere il tempo in maniera irriflessiva, senza scorgere nessuna direzione di senso del proprio agire. Dare forma al tempo vuol dire aver cura della vita dandole così consistenza ma se il tempo viene lasciato a se stesso, libero di agire, si corre il rischio che prenda forma indipendentemente dal personale progetto di vita, determinando un modo di essere inautentico, dove non si è più attori ma agiti da qualcosa fuori di sé e del proprio volere[6].     
Potremmo chiederci cosa e come il pedagogista dovrebbe agire affinché il soggetto con il quale instaura un rapporto educativo possa riuscire ad orientarsi verso la realizzazione del proprio essere più autentico, senza disperdersi e perdere il contatto con la propria natura profonda; la relazione pedagogica si basa su un fattore ben preciso: aiutare a coltivare la passione per la cura di sé, accompagnandolo nel processo di costruzione degli strumenti cognitivi ed emotivi necessari per ricercare quell’ ”arte del vivere” che consenta finalmente di ottenere per la propria esistenza la miglior forma possibile o che, detto altrimenti, coincida con il tracciare autonomamente il sentiero della propria vita, avendo cura che in ogni attimo si attualizzi il processo di donazione di senso[7].
Per il pedagogista  è necessario allora essere ricettivi nei confronti del soggetto, accettando la qualità della sua unicità dimostrando sempre una piena disponibilità in modo da rispondere adeguatamente ai bisogni espressi; tutto questo significa fare posto all’altro creando gli spazi necessari per accoglierlo, anche se non sempre si è in grado di farlo perché troppo ingombri di idee, convinzioni, certezze maturate sulle illusioni, ecc, che impediscono di rendere possibile l’ascolto attivo e il dialogo costruttivo.
La relazione educativa si distingue comunque dal semplice dialogare tra persone per il fatto che essa è sempre intenzionale, volta a trascendere la condizione attuale per protendere verso l’ulteriore e l’ordinario accettando il rischio della dismisura e sopportando l’inquietudine dettata dalla tensione; tutto ciò si deve intendere come ricerca della giusta forma della propria esistenza, concepita all’interno dei vincoli costitutivi e nel rispetto dei limiti che strutturano la condizione umana. Essendo la relazione di cura sempre problematica, dato che non esiste una scienza che ne definisca in maniera stabile i parametri o un prontuario che ne fissi le  regole  valide universalmente, occorre inquadrare il discorso nel senso di “interrogare” continuamente l’esperienza che si sta vivendo, coltivando un atteggiamento riflessivo che permetta di considerare ogni situazione vissuta come un evento singolare, nella sua unicità e irripetibilità, in modo da rinvenire il senso più autentico di persona e di educazione dato che, per dirla con Mounier, non può esserci realizzazione personale se non si manifesta un’azione educativa[8].    



Le pratiche pedagogiche
La cura in pedagogia si discosta molto da quella praticata in psicoterapia, in psichiatria o in psicoanalisi perché, come abbiamo potuto vedere, è molto più polimorfa, capace di dipanare le potenzialità soggettive, direttiva nel suo momento educativo e non direttiva nel momento più formativo, determinandosi come processo continuo, sempre in cerca di nuovi equilibri (mai definitivi), da cogliere nella sua problematicità e complessità.
Il volto della cura pedagogica è dismorfico perché continuamente attraversato da tensionalità e riflessività, tra dialetticità e dinamicità, in un continuo gioco di sponda tra necessità di “tirar fuori” dal soggetto attraverso un atto di guida ad un tempo e alla valorizzazione della sua autonomia e della sua identità soggettiva, ad un altro. Insomma, per dirla con Cambi prendere in cura il soggetto significa assumere su di sé l’onere della crescita che si realizza nell’autonomia del soggetto da guidare e valorizzare nel suo cammino, tramite comprensione e progettualità con dedizione, empatia, atto donativo e giudizio, un insieme che trova nell’arte il suo traguardo[9].
E’ da queste premesse che partiamo per illustrare come la cura in pedagogia si leghi molto di più alle discipline umanistiche che non alla tecnica, discostandosi in questo modo dalla cura medica che si articola maggiormente alla scienza e al suo metodo sperimentale. Con questo non si vuole affermare che il metodo pedagogico sia quindi costruito in modo non di rigoroso, anzi, il suo specifico è proprio quello di curare senza patologizzare, sostenendo il soggetto nella ricerca di un equilibrio del sé e di una integrazione sociale. La cura si indirizza quindi a soggetti di ogni età ed estrazione sociale, si rivolge ai disagi di natura diversa che vanno dalla scuola, al lavoro, dalla famiglia al tempo libero, consentendo il progressivo risveglio del sé attraverso il coinvolgimento in progetti formativi nutriti di dialogo che ben si innestano all’interno di questa società schizofrenica e priva di orientamenti stabili. La cura di stampo pedagogico non conforma ma libera e si realizza attraverso quel processo maieutico di cui Platone ci ha parlato in grado di stimolare una vera e propria educazione interiore[10] intesa come capacità di coltivare e mettere al centro la propria umanità. 
La cura in pedagogia si determina sempre come cura di sé in grado di rendere ogni individuo capitano di se stesso in un processo che mira a dar corpo ad un equilibrio, se pur temporaneo, instabile e dinamico, da dover continuamente monitorare e aggiustare. Tutto ciò avviene però attraverso l’azione di pratiche ben precise, calibrate sui soggetti in formazione, che traggono il proprio nutrimento dalle discipline umanistiche ed artistiche, distillando i diversi saperi in modo da accordarli e curvarli in un’ottica di stampo squisitamente pedagogica, così da attivare  spunti di riflessione tali, da condurre il soggetto a divenire sempre più persona.
      Si parla allora di funzione formativa della narrazione ad esempio, ossia, dell’uso strumentale che si fa della narrazione per raggiungere fini pedagogici, come ad esempio lo sviluppo delle capacità analitiche, riflessive, attuabili anche attraverso il cinema e la sua critica, oppure mediante la musica, partecipando così attivamente alla costruzione dei saperi e della personalità. Attraverso la narrazione si costruisce l’immaginario conferendogli ordine e senso, grazie alla capacità del linguaggio di essere ad un tempo specchio di forme di vita e gioco linguistico complesso, consentendo di tessere una rete di significati e simboli capaci di interpretare e cogliere il valore e il senso della realtà. Storie che il pedagogista può utilizzare e manipolare, oscillando tra il mito e la fantascienza, tra la fiaba e il racconto, così da sintetizzare significati simbolici profondi che possono servire anche per imparare il metodo del narrare a se stessi, inteso come esperienza formativa che permette di riflettere sugli stati d’animo soggettivi, esprimibili attraverso la poesia, la forma del diario o la musica stessa, tutte forme diverse che condividono il fine comune del farsi uomini, fissando una identità per certi versi stabile e che risponde al preciso bisogno di autoformazione[11].  
Per il pedagogista il lavoro della narrazione si lega fortemente (anche se non necessariamente) a quello della lettura, altro potente strumento formativo che consente di prendere le distanze dal proprio vissuto più immediato per tornare in contatto con se stessi, lasciandosi per un momento alle spalle le distrazioni quotidiane; da queste premesse si comincia a proiettarsi verso un mondo diverso da quello fino ad oggi esperito, consentendo di confrontarsi con realtà altre, diverse da quelle fino ad oggi pensate, facendosi trasportare dalla potenza evocatrice della parola ed avvolgere dalla sua capacità particolare di costruzione e ricostruzione di sensi. La scoperta di poter entrare dentro una storia, in un cumulo di esperienze dotate di senso, attiva processi riflessivi sul racconto e sui concetti che sono la materia prima del lavoro del pedagogista, sia con il bambino che con l’adolescente, in quanto consente di capire come questi viva il proprio mondo e come possa trasformarla facendo appello ai propri strumenti concettuali. La lettura non aiuta solo a scoprire, a far emergere ma anche a dilatare, ad ampliare i propri orizzonti, a trovare dentro di sé gli impulsi per crescere ed affinarsi, consentendo al soggetto di travasare il passato nel presente e viceversa, una pratica per coltivare se stessi attraverso l’esercizio della libertà e della riflessività, un aprirsi al mondo che consente di vivere l’avventura di un viaggio, dando forma alla propria mente.
Dentro la narrazione sta tutta la complessità della costruzione del mondo interiore da parte del soggetto e viene intesa da una parte come alimento pedagogico in grado di coltivare e dilatare tale spazio “spirituale” , dall’altra come strumento in grado di originare forme espressive individuali, frutto di personali elaborazioni che contengono una forte carica comunicativa. Per il pedagogista utilizzare lo strumento della narrazione significa porre l’individuo o il gruppo in una situazione di raccoglimento interiore favorendo una sospensione del vivere immediato attraverso un sottile  dialogo stretto tra sé e sé che si realizza nel rapporto col libro, sia esso un romanzo, un testo di poesie o una raccolta di racconti.
Lavorare con la lettura significa non far sclerotizzare la propria interiorità,non consentire la distrofia della vita mentale, ecco perché è importante la lettura, intesa come alimento culturale capace di far dilatare la consapevolezza di se stessi, del mondo e delle proprie possibilità, al di là di ogni tentativo di riduzione o di adeguamento ad una vita monocorde, opaca, prestabilita e confezionata ad arte da altri, per noi.
Per il pedagogista tutto questo si traduce come possibilità di coltivazione dello spazio di riflessione messo in atto dall’attività di lettura mediante un continuo andirivieni di nozioni, storie, inglobamenti, assimilazioni, costruzioni e rimessa in discussione, allenando il soggetto a porsi domande, a formulare risposte, ad interrogarsi e a muoversi con disinvoltura nel dubbio, nell’ipotetico, nel mondo moderno dell’incertezza, dal quale si può uscirne più rinforzati attraverso l’esercizio stesso del pensare.
Alla pratica della lettura si affianca anche quella scrittura, dove, al di là dello strumento utilizzato (penna o computer), il pedagogista può promuovere la scrittura di sé come metodo di crescita e potenziamento, in grado di saldare il sentire del soggetto con la propria esperienza di vita, esprimibile in modo creativo attraverso il linguaggio scritto. Il vissuto soggettivo, materia importante di lavoro pedagogico, si riflette nella scrittura in maniera incisiva e amplificata, consentendo all’individuo di riappropriarsi della propria esperienza attraverso una continua revisione delle azioni e degli accadimenti trascorsi, distillando il materiale raccolto alla luce del presente.
Per il soggetto che scrive in modo autobiografico vuol dire avere l’opportunità di cogliersi e ricollocarsi nuovamente nell’oggi, nel qui ed ora, di individuare i punti e le zone nevralgiche dei propri trascorsi per riattualizzarli, apprendendo dalle passate esperienze in modo funzionale, così da riorientarsi nel sentiero della propria esistenza, che, se realmente autentico, non è mai già tracciato ma tutto da esplorare ed inventare. Il processo autobiografico è uno strumento formativo eccezionale che  permette di riappropriarsi di se stessi, esigenza oggi sempre più avvertita dato che la tendenza omologatrice della società moderna spinge un po’ tutti a disperdersi nel “si” quotidiano, nelle routine lavorative, nell’abbassamento collettivo della soglia attentiva, lasciandoci soli in balia degli eventi, spesso senza “briccole”[12]  o punti di riferimento, con il rischio grosso di andare alla deriva. Se è vero che rispetto al passato le possibilità di decisione sono aumentate in maniera esponenziale è anche vero che l’eccessiva stimolazione e la percezione delle infinite modalità di scelta rendono non solo incapaci di distinguere l’effimero dal sostanziale ma conferiscono un senso di immobilità e impossibilità. Navigare in acque oscure senza un tracciato, senza riferimenti utili può significare anche decretare a se stessi una condanna a morte, ecco perché ad un mondo che cambia repentinamente non si può rispondere con una metamorfosi acritica e impulsiva; i momenti critici della vita non possono essere affrontati con un adeguamento irriflessivo alle circostanze con il rischio di trasformarsi  in tante banderuole al vento, privi di ogni forma autolegislativa.
E’ vero che le difficoltà della vita e i momenti di crisi inducono a rimettersi in discussione e a ricollocarsi nel cammino esistenziale ma questo non significa che ciò debba avvenire senza il consenso del volere personale, delegando altri nella decisione dei modi, termini e aspetti del proprio esistere futuro.      
  Questo aspetto è importante sottolinearlo perché il rischio è di constatare l’incertezza o l’inconsistenza della realtà attuale e di adagiarsi su questa riflessione rispondendo con la rinuncia o, peggio ancora, con l’adeguamento acritico. L’autobiografia consente, in ambito pedagogico, di superare tali rischi e di attivare importanti processi interpretativi  ed auto riflessivi in grado di far uscire da questo travaglio rinforzati e con un nuovo volto, frutto della tessitura di un’ identità più matura che, seppur mai definitiva, è comunque per adesso in grado di guidarci verso orizzonti di senso attuali. Insomma, per dirla con Cambi, la pratica autobiografica consente di interpretare l’identità dei soggetti e il gioco stesso dei loro ruoli sociali, come assunzione della <<cura di sé>> intesa sia come travaglio individuale, sia come rielaborazione di una nuova traiettoria di senso, ricostruendosi e radicandosi nel proprio statuto problematico attraverso quel farsi carico di sé che altro non è se non l’assumersi come <<esistenza ferita>> (Moravia), ovvero come custodi del proprio Io, mettendo alla luce un sé più stabile, frutto dell’interpretazione, della riflessività e della rielaborazione del processo formativo individuale[13].
Per il pedagogista la scrittura, è coltivazione pratica di sé ad un tempo ed un piacere ad un altro, infatti, la valenza formativa si ha quando per chi scrive tale attività è volontaria e fonte di soddisfazione ed è qui sta la difficoltà del professionista, il quale, sempre (o spesso) a contatto con soggetti con difficoltà di tipo diverso, con trascorsi costellati di rifiuti scolastici e quindi restii a molte attività che somiglino o comunque richiamino alla memoria  le dolorose esperienze avvenute nelle aule, dovrà studiare le strategie più idonee affinché chiunque possa maturare la consapevolezza che solo apprendendo si cresce, si cambia e si impara a divenire continuamente.
Il cuore del lavoro pedagogico è allora quello aiutare a rileggere i percorsi esistenziali, tratteggiando gli eventi costitutivi in modo da fissare una direzione di marcia e risvegliando in questo modo il desiderio dell’avventura formativa intesa come atto capace di far acquisire forma attraverso il riaccendere la memoria su questioni e fatti, fissandone gli eventi-segni e procedendo via via nel senso della direzione emergente, così da prenderne coscienza e cominciare con l’avventura esplorativa del proprio essere stati e delle possibilità di divenire. La scrittura di sé agevola il pedagogista nel suo ruolo che fondamentalmente utilizza le proprie competenze per stimolare il soggetto alla responsabilità di se stesso, de-dogmatizzandolo e rendendolo capace di pensarsi liberamente perché  svincolato da pregiudizi, così da sperimentare il processo di auto-costruzione che diviene un farsi sé a partire da se stessi. 
     Altra pratica pedagogica è l’esperienza del viaggio, del cammino, dell’attraversare spazi, in quanto ciascuno di noi essendo sempre soggetto immerso nel tempo e nello spazio, è costantemente esposto alla necessità di spostarsi in luoghi nuovi e diversi, accendendo quindi la possibilità di riflessione e di affinare la sensibilità e l’identità soggettiva.
Ecco che per il pedagogista si apre la possibilità di affiancare il soggetto nel suo personale cammino, iniziando a guardare la realtà, spesso data per scontato, sotto una luce nuova, più genuina, più immediata, dove la conoscenza non è data dall’atteggiamento “prensile” tipico della società moderna, ma dall’interrogare luoghi, eventi ed oggetti incontrati, rispettandone la collocazione e la natura. Si tratta di aiutare a capire che conoscere non significa possedere, che apprendere non vuol dire piegare la realtà alla volontà soggettiva snaturandola e deformandola, ma più semplicemente si tratta di contemplare, indagare in maniera non invasiva, attraversare il tutto con lo sguardo e con il passo, cercando di comprendere attivando continui processi investigativi di natura mentale, fatti di domande, di possibili risposte, di interrogativi ulteriori.
Aiutare a conoscere camminando, attraversando spazi come strade, sentieri o spiagge, rappresenta un momento importante per l’individuo in formazione che può iniziare a comprendere la realtà quotidiana attraverso semplici esperienze meditative, ben delineate da Demetrio[14] e che prevede l’esercizio dei cinque sensi, ossia il tatto, il gusto, l’udito, l’olfatto e la vista. 
Ovviamente non si tratta di apprendere tecniche o sequenze di esercizi da utilizzare in una sorta di “palestra interiore” ma semplicemente di risvegliare la facoltà intuitiva da una parte e il senso di appartenenza ad un tutto organizzato dall’altra, ovvero, che si può dilatare l’orizzonte della  coscienza facendo appello alle proprie facoltà mentali e corporee, in modo da confrontarsi la natura e rendersi partecipe dei suoi ritmi, riscoprendo così la possibilità di essere viaggiatori che procedono nel mondo attraversando se stessi, arricchendosi con il continuo ruminare sulle proprie riflessioni.
Si scopre così, con l’aiuto del pedagogista, che per riappropriarsi di uno spazio interiore non sono necessari né incensi, né rituali, non occorrono testi sacri e neppure ortodosse posture ma semplicemente l’attitudine o la volontà di coltivare la dimensione profonda soggettiva mediante l’esercizio dell’umiltà, della semplicità e della ricezione del mondo, in un cammino silenzioso, dove i cinque sensi abbiano la possibilità di cogliere suoni, smussature del terreno, silenzi improvvisi, echi lontani, sfumature del cielo e dell’aria, odori sottili, ossia, stimoli che, se lasciati filtrare, penetrano nella sensibilità di ognuno fino a risvegliare ricordi e sensazioni sopiti, materiale rimosso su cui lavorare alla luce del presente.
Ecco che insieme al pedagogista il soggetto può lavorare su queste particolari esperienze, sulle idee che emergono, sulle sensazioni provate e lo fa attraverso il racconto, la scrittura di un diario o di un taccuino, riportando anche schizzi, immagini abbozzate o disegni, raccogliendo magari qualche traccia del proprio cammino, come una foglia, un sasso o comunque tutto ciò sia ritenuto degno di indagine e di riflessione.
Il lavoro del cammino proposto si traduce in sintesi in un attraversare che salda insieme il momento interiore dell’io con uno esteriore degli spazi/luoghi, decifrando i segni che emergono in modo da interpretarli e riportarli nella propria conoscenza, riscoprendo così il significato autentico del viaggio che si fa scoperta, avventura e un rivivere esperienze trascorse a cui adesso si attribuiscono nuovi significati, relativi ad un senso di natura psicologica, esistenziale e personale.
Un viaggio che spazia dal sociale, al naturale, da simbolico all’immaginario, carico sempre di suggestioni, comparazioni ed interrogazioni che  il pedagogista deve alimentare, facendo emergere domande su cosa sia la natura, sul perché delle continue trasformazioni dell’ambiente, sui motivi del degrado, ecc., il tutto al fine di esaltare quelle componenti più vive e uniche del soggetto, così da esaltarne l’umanità, portandolo oltre se stesso ed innalzandolo verso il trascendente di qualunque natura esso sia: Dio, natura o vita.[15]
Dal cammino interiore, sollecitato dall’esperienza dell’attraversare luoghi e dal contemplare paesaggi il soggetto è sollecitato al domandarsi, ossia ad indagare se stesso attraverso l’esperienza del mondo, un’attrazione verso quel mistero dell’esistere che avvicina inevitabilmente ad una religiosità che però non necessita né di divinità né di culti; una filosofia di vita che si fa vocazione esistenziale esercitabile tra le folle, in cammino o in solitudine, animati desiderio di non rassegnarsi alla disumanizzazione della società moderna e dalla volontà di cercare nel proprio vagabondare la propria soggettiva dimensione spirituale. E’ possibile allora esercitare e approfondire una forma di religiosità civile ed inquieta allo stesso tempo, mossa dal dubbio anziché dal dogma, dove si risveglia il bisogno umano di cercare e possibilmente di trovare un senso profondo e personale alla vita quotidiana, mondana e collettiva, riscoprendo così il soggettivo senso dell’esistenza e del mondo che abitiamo, fatto non solo di razionalità ma anche di bisogni arcaici intimamente connessi con la vita psichica, che possono essere educati e coltivati in modo da fornire un significato alla realtà vissuta [16]
Anche l’arte rappresenta un veicolo importante che il pedagogista può utilizzare per promuovere l’evoluzione del soggetto ed animare così la sua vita mentale; i linguaggi artistici, espressivi e simbolici, rappresentano un’esperienza estetica di ampia portata in grado di sensibilizzare lo spettatore o il lettore e stimolare la voglia di andare oltre, di indagare e di interrogare se stessi circa le emozioni suscitate, la loro forma, natura e intensità. La letteratura, le belle arti, la musica, il teatro e la poesia, sono universi che mettono a disposizione i loro linguaggi per comprenderli, facendoli divenire parti di sé; architetture di espressioni e simboli che vengono distillate e che entrano a far parte del proprio bagagli culturale e personale. Quando tali linguaggi riescono ad assumere forme ed   intensità notevoli, sono in grado di risuonare nel soggetto in maniera creativa, aiutando ad integrare le parti del proprio sé alla luce di questa particolare esperienza formativa; ecco perché il teatro spesso utilizzato con soggetti carcerati da riabilitare o con persone che vivono situazioni di forte disagio; la maschera e la capacità di rappresentare personaggi diversi, consentono di recuperare in parte alcuni aspetti la propria identità, sopravvissuti alla catastrofe, sommersi dalle macerie degli eventi e cominciare a costruire una nuova identità, frutto di nuove elaborazioni, ricuciture, ripensamenti[17]. Dal romanzo, alla poesia, dal teatro, alla musica, tutto concorre a collocarsi nel pluralismo dei linguaggi e a filtrarne significati e simboli in modo analitico e dialettico, divenendo partecipi di un’esperienza ideale armonicamente legata al bello e al sublime. Ed ancora, dalla contemplazione di un quadro alla meditazione poetica, dalla lettura appassionata alla scrittura di sé, il soggetto può, insieme al pedagogista, spaziare dentro la storia della cultura e delle sue forme, assimilandone aspetti salienti e decantandone forme capaci di arricchire e dilatare gli spazi interiori, predisponendo all’ascolto e all’esaltazione del sé. 
Insomma l’ arte, come esperienza estetica, nella forma della poesia, della pittura o della musica ha un valore ed una funzione fondativa dell’esperienza soggettiva e della sua umanizzazione che, migrando dalle forme di cultura ai linguaggi spirituali consente di esperire il fascino dell’inusuale, dello stupore e della libertà di fronte ad un mondo incantato e privo di condizionamenti. Con l’arte il pedagogista aiuta nel delicato processo di risveglio di se stessi e di enfatizzazione della propria sensibilità, oscillando continuamente tra ricerca di un momento di solitudine (per consentire un idoneo raccoglimento interiore), l’incantamento e l’evocazione interiore affinché tutto possa sigillarsi in quel medium linguistico, ossia in quella radicazione del codice verbale che consente l’emergere di quell’esperienza eccezionale interiore e fondativa che è propria del dire artistico/poetico.
L’abilità del pedagogista  consiste proprio nel gestire il linguaggio o i linguaggi artistici al fine di promuovere una viva sensibilità interiore, consentendo di fornire un senso all’esperienza attraverso un contatto con la creatività personale; tutto questo si traduce in un’occasione importante che, soprattutto oggi, è rara tanto quanto necessaria, ovvero, aprirsi riflessivamente su se stessi per potenziarsi ed evolvere, cogliendoci sotto forme che, altrimenti, rischieremmo di ignorare per sempre. Si tratta allora di trovare attraverso l’arte un sentiero che, seppur orientante, consenta l’ebbrezza di qualche smarrimento, confermando la natura “errante” della formazione che ha sempre il tratto costitutivo della ricerca, anche se spesso i tracciati si affievoliscono e divengono ambigui.
Ma la strada, si sa, si fa camminando e da ogni sentiero lasciato ed in seguito ripreso, si determina un percorso formativo rinnovato che cerca di tracciare con nuovo sguardo l’orizzonte dell’esistenza. I processi formativi si arricchiscono continuamente di gesti, pensieri e parole sintetizzati in un continuum in grado di orientare nel cammino della vita ed è proprio la domanda di senso a suggerire le direzione delle risposte; l’arte abitua allora all’apertura all’imprevedibile assumendo quel carattere di principio metodologico in grado di cogliere la realtà stessa nei suoi aspetti imprevedibili e originali capaci di obnubilare l’ovvio, il dato per scontato e le consuetudini mentali. Una pedagogia dello sguardo che invita a  cogliere la realtà formativa nel suo manifestarsi instabile e mutevole assumendo però l’etica della responsabilità come suo fondamento[18].  
          



Il problema della diagnosi
Con l’affermarsi della pedagogia clinica si è negli ultimi tempi creata la necessità di far luce in ambito pedagogico sulla questione della diagnosi, considerandola come processo conoscitivo del soggetto nelle sue dimensioni di abilità, competenze e capacità, più che in senso di disturbo o di disagio, ambiti questi ultimi di pertinenza medica e psicologica.
Prima di affrontare la questione della diagnosi pedagogica, occorre far luce sul concetto di diagnosi intesa in senso tradizionale, ossia medica, mostrando come questo aspetto risulti più complesso e articolato di quanto si possa pensare, infatti, ancora oggi è terreno di ampie discussioni e dibattiti fra figure professionali regolarmente istituite, denotando come le controversie non siano ancora risolte nonostante il riconoscimento dello psicologo con la legge num. 56 del 1989[19]

La Cornice normativa di riferimento prevede che la diagnosi psicologica possa essere considerata un aspetto fondativo della professione dello psicologo. Vi sono almeno due riferimenti normativi “forti” che conferiscono alla diagnosi psicologica tale carattere fondativo. Il primo lo si trova nell’art.1 della Legge 56/89 in cui vengono definiti gli ambiti professionali che caratterizzano e specificano la professione: “La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi per la prevenzione, la diagnosi, le attività di riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità” (il corsivo è mio). Il secondo è nell’art.21 del Codice Deontologico dove si dice che “lo psicologo è tenuto a non insegnare l’uso di strumenti conoscitivi e di intervento riservati alla professione di psicologo a soggetti estranei alla professione stessa” (il corsivo è mio).

Come si vede, il Codice rimanda alla Legge per cui si pone come norma l’idea che professionalmente lo psicologo si caratterizza per l’uso di alcuni strumenti specifici grazie ai quali delinea il proprio spazio autonomo e non condiviso con altre figure professionali limitrofe, come ad esempio psichiatri o assistenti sociali. La situazione legislativa configura quindi almeno due punti importanti: lo psicologo è accomunato a medici e odontoiatri come unica figura professionale con facoltà di fare diagnosi in ambito sanitario in Italia; lo psicologo si differenzia da altre figure professionali nel fatto di essere l’unico a poter fare diagnosi psicologica.
I riferimenti normativi servono a recintare gli ambiti formali di definizione di un oggetto. In questo caso, il legislatore ci dice cosa gli psicologi possano fare e cosa no, mentre non può (e non deve) dire cosa possano fare perché quest’ ultimo aspetto indica dei contenuti di cui solo gli esperti sono a conoscenza. Il problema nasce sul significato stesso della diagnosi in quanto essa corre lungo un continuum che attraversa due aree distinte ma parzialmente sovrapposte, l’area psicosociale e l’area biomedca;i ad un primo estremo, relativo all’area psicosociale, la diagnosi è intesa in senso ampio come valutazione, assessment nell’accezione anglosassone. L’assessment (da ad-sedere) si riferisce alla pura valutazione di quello che accade nel corso dell’osservazione, al pari di un giudice di linea che osserva e valuta una serie di eventi all’interno di un recinto che delimita il campo di gioco. Estremizzata, questa accezione trasformerebbe lo psicologo in una sorta di laboratorista, o meglio di tecnico di laboratorio psicometrico, che legge i risultati di un test, valuta se il punteggio ottenuto rientra o meno in un range di valori normali e comunica tali dati ad un terzo che invece fa diagnosi. Tale accezione estrema è abbastanza comune fra alcune figure professionali limitrofe a quella dello psicologo, comunque, generalmente,  l’assessment viene fatto usando più tecniche (osservazione, test, colloquio), integrando gli esiti finali con altre fonti informative, come ad esempio la storia del soggetto[20].
All’estremo opposto, nell’area biomedica, la diagnosi viene intesa in senso stretto come atto di identificazione e classificazione di una patologia e la diagnosi diventa possibile solo quando si dispone di test diagnostici, ossia di esami dotati di elevata ed attendibile probabilità a posteriori di identificare una malattia, considerando la storia naturale della malattia e la sua prevalenza nella popolazione di appartenenza del soggetto. Ad esempio, è possibile far diagnosi di cancro solo dopo un esame istocitologico dei tessuti prelevati. Bisogna tener presente che in nessun campo dell’ area psicosociale è possibile applicare questa accezione estremizzata di diagnosi poiché non esistono test diagnostici in psichiatria. Infatti, ad esempio, non si fa diagnosi di schizofrenia dopo aver eseguito una PET.
In un’area centrale di sovrapposizione, la nozione di diagnosi diventa ancora più ibrida e indefinita. E’ un campo dove sono presenti disturbi di somatizzazione o comunque con una sintomatologia a cavallo fra problematiche psicosociali e sintomi medici per i quali i molteplici interventi medici e psicologico-valutativi non consentono ugualmente di raggiungere alcuna certezza scientifica.
Come visto prima, la Legge 56/89 parla di “diagnosi psicologica” ed è qui che probabilmente il termine “diagnosi” è stato usato dal legislatore in modo abbastanza ambiguo, o forse anche improprio laddove viene specificato che si tratta di diagnosi psicologica. La dizione “diagnosi psicologica” è una contraddizione nei termini se intesa in senso stretto biomedico o fuorviante se usata nel senso ampio di assessment. Manca cioè una definizione precisa di cosa si intenda per “diagnosi” e soprattutto per “diagnosi psicologica”. La questione non è di natura esclusivamente filosofica poiché è in base questa attività che la professione di psicologo viene normata come analoga a quella del medico (per quanto riguarda la “diagnosi”) e come specificamente diversa da tutte le altre (per quanto riguarda la “diagnosi psicologica”).
Non esiste quindi una definizione precisa di diagnosi, ecco che allora occorre intendere l’attività diagnostica nel campo psicosociale come un insieme di interventi effettuati con molteplici tecniche e metodiche (dalle meno strutturate come il colloquio clinico alle più strutturate come i questionari a risposta chiusa) che si situano a vario titolo lungo il continuum che va dall’assessment all’identificazione di patologia. Tradizionalmente, il paziente viene studiato da almeno due punti di vista che, per comodità di esposizione, definiamo psichiatrico e psicologico. Il primo intervento, essendo inserito nell’area biomedica, tende a occupare il polo della diagnosi come identificazione di patologia e viene tradizionalmente effettuato dallo psichiatra. Il secondo, tipicamente psicosociale, tende ad occupare il polo opposto della diagnosi come assessment e viene tradizionalmente effettuato dallo psicologo. Questa suddivisione dei compiti è a prima vista molto razionale, obbedisce ad efficaci criteri operativi e non dà luogo ad alcun problema in situazioni chiaramente definite[21].
Se guardiamo la situazione da un punto di vista normativo, la suddivisione dei compiti non è chiaramente ispirata a criteri operativi e utilitari poiché in tal caso non sarebbe necessaria una legge dello Stato ma una efficace organizzazione del lavoro nei servizi e nelle prestazioni. Formalmente, tale suddivisione è invece imposta dalla qualifica professionale di chi compie l’atto diagnostico. In parole povere, la divisione dei compiti si basa sul titolo di studio: è psichiatrica una diagnosi fatta da un medico specializzato in psichiatria ed è psicologica una diagnosi fatta da un operatore laureato in psicologia. Ciò sembra una conseguenza logica ma in realtà solleva alcuni dubbi di carattere epistemologico.
Una diagnosi psichiatrica differisce profondamente dalla gran parte delle diagnosi mediche specialistiche poiché nella prima non è possibile far alcun accenno all’etiologia. Diagnosi medica significa possibilità di identificare una patologia attraverso l’esame di segni e sintomi e la patologia viene intesa come affezione (di organo, tessuto o cellula) o come disfunzione (alterazione patologica di funzioni). Una diagnosi psichiatrica è invece una diagnosi psicopatologica descrittiva (senza riferimenti ad alcuna teoria, ateroretica, secondo la filosofia del DSM dal 1980 in poi) basata esclusivamente sulla osservazione di sintomi che possono essere convenzionalmente raggruppati in entità nosografiche più o meno omogenee le quali indicano la presenza di un disturbo mentale. Ora, il DSM-IV  definisce il disturbo mentale come “A clinically significant behavioral or psychological syndrome or pattern that occurs in an individual and that is associated with present distress or disability or with a significant increased risk of suffering death, pain, disability, or an important loss of freedom”. Come si può notare, questa definizione impiega esclusivamente costrutti di tipo psicologico, come sindrome psicologica o comportamentale, distress, disabilità, sofferenza, dolore, perdita di libertà. A rigore, non vi è alcun accenno di carattere medico (come, ad esempio, la connessione fra un insieme di sintomi X ed un’alterazione cellulare Y). Al contrario, l’applicazione dei criteri diagnostici del DSM-IV, che assumono la definizione di disturbo mentale sopra citata, richiede un addestramento specifico ed una competenza professionale specifica, ossia una specifica abilità di applicazione dei criteri che deriva sia da una formazione adeguata nel campo della psicopatologia clinica che da uno specifico training tecnico.
Vista da questa prospettiva, l’interdizione della diagnosi psicopatologica o dell’uso dei criteri del DSM-IV allo psicologo in quanto non medico non ha senso se questi ha acquisito abilità derivanti da formazione clinica e training tecnico adeguati. Però, poiché normativamente la diagnosi psicopatologica è diagnosi psichiatrica se effettuata da uno psichiatra, la possibilità che uno psicologo ha, in quanto psicologo, di adoperare il DSM-IV resta avvolta in una cortina di fumo: da un lato, la diagnosi psicopatologica potrebbe rientrare in una accezione ampia di diagnosi psicologica e soddisfare i requisiti dell’art.1 della Legge di Ordinamento 56/89; dall’altro, pur senza che detto articolo definisca cosa bisogna intendere per diagnosi psicologica, corro il rischio di commettere un illecito in quanto sconfino in un ambito - quello psichiatrico - per cui lo psicologo non ha titoli legali. 
Già da questa premessa si capisce come sia labile il confine fra la diagnosi medica e quella psicologica e, soprattutto, come sia facile sconfinare in un ambito professionale diverso dal proprio; le conseguenze che derivano dall’utilizzare o meno determinate procedure o all’uso che si fa della parole in ambito clinico, scaturisce conseguenze legali non indifferenti. Da questo, deriva automaticamente la situazione di incertezza che nasce dalla possibilità di emettere certificazione con valore legale di disturbo mentale; detto in altri termini, emerge chiaramente il differente peso sociale secondo il quale tre parole di diagnosi scritte da uno psichiatra hanno una risonanza estremamente maggiore rispetto ad una valutazione completa e minuziosa redatta da uno psicologo.
Forse sarebbe il caso di riconoscere che la diagnosi psicopatologica si basa sulla competenza e non sul titolo di studio anche perché le due cose non sempre sono equivalenti, tenendo conto del fatto che questo discorso non vale esclusivamente per la diagnosi psicopatologica ma per ogni altro settore di studio. con i fondamenti epistemologici di applicazione del DSM, ma anche di qualsiasi altro sistema diagnostico. Da quanto detto scaturisce che la diagnosi psicologica non può essere definita in base ai suoi contenuti poiché vi sono tanti contenuti non omogenei quanti sono gli approcci che si dispiegano in un ampio ventaglio che va dall’assessment all’identificazione di una patologia. Ciò nondimeno, la diagnosi psicologica obbedisce agli stessi criteri epistemologici che valgono per qualsiasi sistema diagnostico, dal più al meno formalizzato. Indipendentemente dai contenuti e dall’ambito specifico a cui si applicano, i sistemi diagnostici e la diagnosi psicologica si fondano su tre punti tra di loro concatenati: la clinica, la professionalità e la formazione.
Osservazione di fenomeni in una relazione professionale Acquisizione di abilità specifiche Processo di integrazione di conoscenze di base, training, supervisioni, esperienze, aggiornamento
Il primo punto è costituito dalla clinica, intesa come osservazione di fenomeni all’interno di una relazione professionale. L’osservazione in quanto tale non è professionale: scambiare quattro chiacchiere con una persona in modo informale al bar, sia pure su seri problemi psicologici, non indica un’osservazione clinica. L’osservazione psicologica è clinica perché compiuta all’interno di una relazione professionale definita dal setting, ossia dal fatto che il paziente viene osservato in un luogo specificamente adibito al colloquio o al test, in un tempo preciso concordato e dietro un compenso per la prestazione laddove istituzionalmente previsto. La definizione del setting è un prerequisito fondamentale della diagnosi psicologica, un elemento necessario ma chiaramente non sufficiente poiché a sua volta si basa sul punto successivo.
Il secondo punto è costituito dalla professionalità. Il paziente chiede di essere osservato o viene inviato in osservazione a determinate condizioni perché la persona che fornisce il servizio ha acquisito una adeguata e specifica capacità che lo mette in grado di fornire il servizio. L’acquisizione delle capacità professionali non è di per sé sufficiente a fornire un servizio di diagnosi psicologica poiché si basa sull’ulteriore successivo punto.
Il terzo punto è costituito dalla formazione. Intendo per formazione non necessariamente e non semplicemente una formazione di tipo strutturato, sul modello di quella psicoanalitica o cognitivista nell’area della psicoterapia. Per formazione si intende un processo di sviluppo nel tempo che consente l’integrazione attuale delle conoscenze di base del settore (come la laurea in psicologia), il training specifico per aree diagnostiche omogenee (ad esempio, il testing in età evolutiva o in neuropsicologia, i questionari multiitem e multitratto di personalità, il testing proiettivo), le supervisioni effettuate nelle varie aree tematiche del testing, le esperienze cliniche maturate sul campo, l’aggiornamento permanente che consente a ciascuno psicologo di selezionare il materiale testologico in base agli studi di affidabilità e validità che continuamente compaiono in letteratura. Senza questo processo integrato di formazione, non esiste professionalità nella diagnosi psicologica e, di conseguenza, non esiste neanche la capacità di effettuare un’osservazione clinica dotata di senso. Possiamo quindi dire che, la Legge di Ordinamento 56/89 individua, nel primo articolo, la diagnosi psicologica come caratterizzante, ma non ne specifica i contenuti, né può farlo poiché i contenuti ed i significati della diagnosi psicologica devono essere autonomamente definiti dalla categoria e dalle sue professionalità, non imposti per legge; inoltre, in quanto tale, la “diagnosi psicologica” non esiste poiché priva di un significato univoco che ne identifica i contenuti immediatamente. Per “diagnosi psicologica” bisogna quindi intendere un insieme di operazioni valutative che vanno dall’assessment all’identificazione di una patologia psichica[22]. Come per ogni altro sistema diagnostico, la diagnosi in psicologia assume un significato a seconda dell’operatore che la effettua. Tradizionalmente e ufficialmente, la soggettività dell’operatore è stata identificata con il suo titolo di studio universitario, per cui la diagnosi è psichiatrica se effettuata da un laureato in medicina specializzato in psichiatria mentre è psicologica se effettuata da un laureato in psicologia. Questa concezione sembra accettata ed assecondata anche dagli organi istituzionali ordinistici quando l’uso del testing viene identificato sic et simpliciter con il possesso della laurea in psicologia (Art.21 del Codice Deontologico). Esaminando i fondamenti epistemologici della diagnosi, appare invece che l’uso di uno strumento o di un insieme di strumenti professionali, fra cui quelli dell’assessment, è fondato sulla professionalità e sulla formazione dell’operatore.
La Legge ed il Codice impongono una limitazione d’uso ai soli psicologi degli strumenti diagnostici in psicologia. Questo è sensato, ma attualmente sembra non del tutto giustificato in senso positivo ma solo in senso difensivo. Giustificare in senso positivo la sensata identificazione dello psicologo con il testing diagnostico implica un’operazione che è anzitutto culturale nel promuovere la crescita professionale degli psicologi italiani. Fino a quando la validità reale della professionalità verrà scambiata con la legittimità formale data dal possesso della laurea in psicologia non si vede come invertire la rotta da una posizione difensiva ad una propositiva.
Sappiamo insomma che lo psicologo è un laureato in psicologia e che dopo la laurea ha superato l’esame di stato e sia iscritto all’Ordine degli Psicologi e quindi abilitato all’esercizio della professione di psicologo fornendo un aiuto non farmacologico (tecniche di rilassamento, colloqui di sostegno, consulenze, ecc.).
Lo psicologo non può prescrivere farmaci, effettuare diagnosi e/o dare indicazioni di tipo medico, e, se non ha conseguito il titolo di psicoterapeuta non può esercitare la psicoterapia e non può dirsi psicoterapeuta.
Per svolgere la professione di psicoterapeuta lo psicologo deve effettuare una scuola di psicoterapia quadriennale che abiliti all’esercizio della psicoterapia.
Per essere certi che lo psicologo a cui ci rivolgiamo sia anche psicoterapeuta, la strada più sicura è consultare l’Ordine Professionale, al quale deve essere iscritto con entrambi i titoli.
La stessa distinzione va fatta fra psichiatra, neurologo e psicoterapeuta: esse non sono figure equivalenti e sovrapponibili.
Tuttavia, a differenza dello psicologo non psicoterapeuta il quale non può prendere in cura nessuno, lo psichiatra e il neurologo, in quanto laureati in medicina, possono prendere in cura i pazienti per praticare le terapie mediche. Lo psichiatra è un laureato in Medicina che ha ottenuto la specializzazione in Psichiatria.
È un errore pensare che lo psichiatra, in quanto medico, sappia intervenire solo tramite le medicine. Dipende dall’approccio che egli sceglie di seguire.
Accanto a specialisti che privilegiano l’uso dei farmaci si trovano altri che affrontano le malattie associando ai farmaci un intervento anche psicologico (gestito da loro o da altri professionisti). Lo psichiatra non sempre svolge l’attività di psicoterapeuta.Lo psicoterapeuta è uno specialista qualificato in psicoterapia.
Lo psicoterapeuta proviene indifferentemente sia dalla laurea in psicologia, che dalla laurea in medicina.
Una volta formatosi, lo psicoterapeuta è uno specialista qualificato alla diagnosi e cura dei disturbi psichici e delle malattie mentali.
La psicoterapia è un intervento che va più in profondità della consulenza psicologica. Ci sono moltissime scuole di psicoterapia, ognuna delle quali ha un suo orientamento teorico e tecnico.
Poichè, nella maggior parte dei casi, il trattamento dei disturbi psichici e delle malattie mentali, richiede la somministrazione sia della psicoterapia che della farmacoterapia, ovviamente lo psicoterapeuta psicologo deve affiancarsi ad una o più figure mediche.
Ciò non significa, che lo psicoterapeuta psicologo non sia competente dei disturbi e delle malattie che tratta, ma significa che, non essendo medico, non può stabilire nè diagnosi, nè terapie, quando implicano anche valutazioni di medicina generale o specialistica. Perciò deve avvalersi della collaborazione di medici.
Questa collaborazione dello psicoterapeuta psicologo, è indispensabile affinchè possa essere evitato il rischio di mantenere in psicoterapia un paziente che potrebbe, invece, trarre giovamento tempestivamente del supporto degli psicofarmaci, o di altre terapie mediche.
Oppure per evitare che disturbi psicologici con eziologia organica, vengano trattati non considerando la malattia somatica che li produce.
Teoricamente, lo psicoterapeuta medico, potrebbe anche agire da solo nei vari passaggi descritti, poichè potrebbe riunire in sè sia la figura psicoterapeutica che quella medica[23].
In pratica sembra proprio che il piano giuridico e il piano contenutistico siano praticamente indistinguibili e che si delinei , come sempre, un conflitto di interessi professionali, infatti, dietro alla questione della diagnosi e della sua attribuzione al medico e allo psicologo c’è una questione di potere e quindi una difficoltà a stabilire i termini del coordinamento delle due figure.
 Sul piano della legge, almeno in Italia, la competenza diagnostica nel campo della psiche, è dello psicologo e del medico, ma occorre distinguere il piano contenutistico-professionale, dal piano legale. Sul piano legale hanno competenza diagnostica sia gli psicologi non specialisti, che i medici non specialisti. Nella realtà, un medico generico può fare diagnosi psicopatologica, così come lo psicologo. Ciò che è in questione oggi, ciò che si potrebbe provare a ridiscutere, a problematizzare, è il potere e la prerogativa di fare diagnosi psicopatologica; di fatto, spesso gli psicologi ed i medici non specialisti hanno difficoltà a fare diagnosi. Inoltre, in alcuni casi – e ho in mente un recente fatto di cronaca – gli psicologi si sono dissociati dal condividere la responsabilità della diagnosi con lo psichiatra, sostenendo che per loro fare diagnosi è un diritto, ma non un dovere, e dunque sottintendendo che in caso di lavoro di équipe, la responsabilità (anche penale) è unicamente dello psichiatra.
Da quanto finora detto è facile rendersi conto di quanto sia difficile far luce su un argomento così complesso come quello della diagnosi, terreno di contesa fra medici e psicologi, con una normativa ambigua e soggetta ad interessi ordinistici; lo spazio che si prospetta in questo ambito  ai pedagogisti è pressoché inesistente a meno che non decida di estraniarsi da interessi di natura sanitaria e quindi dalla patologia, focalizzando invece l’attenzione sulla conoscenza del soggetto, sulle sue possibilità, risorse e attitudini.




La diagnosi pedagogica
Come abbiamo precedentemente visto, la questione della diagnosi è difficile da affrontare perché da un punto di vista culturale e per tradizione, questo ambito spetta di diritto alla professione medica e, attualmente, anche se per certi aspetti soltanto, a quella psicologica.
Il problema rimane aperto però in ambito pedagogico, dal momento che, nel corso dell’attività educativa, è necessario poter valutare in maniera rigorosa la situazione iniziale del soggetto, i progressi o gli eventuali regressi che si registrano durante il trattamento e i risultati finali che si sono raggiunti.
In pratica la conoscenza del soggetto o dei soggetti rappresenta un momento fondamentale durante la pratica pedagogica, in assenza della quale si rischia di dar luogo ad attività prive di qualsiasi fondamento serio, rigoroso e scientifico. Privare la pedagogia del momento diagnostico significa amputarle la testa e renderla così uno sterile contenitore di metodiche in balia del libero arbitrio dell’operatore e del suo bun senso (se ne ha).
Il polverone che è sorto dal momento della nascita della pedagogia clinica e l’ostilità che si è manifestata quando i pedagogisti hanno dichiarato di svolgere attività diagnostica, deriva a mio avviso unicamente dal diverso significato che viene attribuito al termine “diagnosi”.
Benedetto Vertecchi avverte, in maniera concisa ed efficace che la differenza fra test diagnostici psicologici e test docimologici per la conoscenza del soggetto, è netta ed evidente, infatti, se ai primi spetta il compito di valutare determinate abilità o attitudini, saggiandone esclusivamente le capacità originarie, al di là quindi di ogni influenza culturale, ai secondi spetta invece il compito di valutare le prestazioni che riflettono abilità e competenze che si sono trasmesse per via culturale, in modo esplicito.
Il lavoro dello psicologo e del pedagogista è quindi antitetico, infatti, se i primi vogliono individuare capacità specifiche sulle quali non abbiano inciso in modo determinante le acquisizioni culturali (dal momento che quest’ultime rappresenterebbero unicamente degli elementi di disturbo riducendo la validità delle prove stesse), per i pedagogisti vale la situazione opposta, operando in modo da strutturare test costituiti da un congruo numero di quesiti, al fine di stimolare specifici comportamenti e valutare il modo in cui il soggetto apprende, la qualità delle sue risposte e l’efficacia dell’intervento didattico proposto[24].  



La diagnosi pedagogico clinica si distingue da quella psicologica anche per l'approccio utilizzato, infatti, essa nasce come scienza dell’interpretazione rivolgendosi  alla persona nella sua interezza, considerandone non solo le difficoltà ma anche le potenzialità, perchè è proprio a partire da queste che viene poi stilata la specifica progettazione di aiuto.La diagnosi pedagogico clinica non si concentra sulla malattia o sul malato, ma sulla persona, cerca di tracciarne un quadro complessivo e non settoriale e gli strumenti utilizzati sono maggiormente rivolti alla rilevazione e descrizione analitica delle specifiche difficoltà presentate dal soggetto e non alla loro classificazione nosografica (inquadramento diagnostico della malattia). La relazione d'aiuto pedagogico clinica (di cui parleremo più avanti), per le sue peculiarità di intervento, necessita di una descrizione accurata delle specifiche difficoltà e potenzialità presentate dal soggetto. In base a tale descrizione il Pedagogista Clinico è in grado di scegliere tra le diverse metodologie in suo possesso, quelle maggiormente adatte per il bisogno del soggetto in questione.Le aree di rilevazione diagnostica della Pedagogia Clinica sono molte e vanno dall’interpretazione del repertorio semiotico del soggetto, alla valutazione  dell'autonomia e coscienza di sè, dalla conoscenza senso - percettiva, all’ analisi dell'espressività motoria, delle abilità e capacità espressivo - verbali, dalle abilità codificatorie e decodificatorie a quelle scrittorie, fino ad arrivare all’ analisi delle potenzialità e delle difficoltà scolastiche, come l’ organizazione grafo - percettiva, l’ attenzione e la faticabilità, la maturazione logica e verbale, il concetto di sé, tenendo conto sicuramente anche delle possibili manifestazioni ansiose, depressive e di stress. Le possibilità e gli ambiti di valutazione possono essere moltissimi e, seguendo la linea tracciata da Vertecchi, ci rendiamo conto che, pur discostandosi ampiamente dalla diagnosi medica e psicologica, al pedagogista rimane un settore lavorativo veramente ampio. Occorre ricordare, comunque, che fra la possibilità di valutare e il farlo con competenza ci corre moltissimo; innanzitutto occorre saper destreggiare bene gli strumenti che ci offre la statistica (deviazione standard, tendenza centrale, la verifica dell’ipotesi nulla, tanto per citarne alcune), dall’altra conoscere bene le procedure per costruire strumenti ad hock  che siano validi ed attendibili. Allo stesso tempo, il diagnosta deve saper definire bene quello che vuole valutare, stabilendo in maniera precisa il comportamento da stimolare e le procedure da adottare per registrare la risposta in maniera non ambigua e il più possibile priva di “mediazioni”[25].
Insomma, la pedagogia sperimentale rappresenta la scienza che, più di ogni altra, aiuta il professionista ad adottare uno stile investigativo “clinico”, ovvero il più possibile privo di atteggiamenti riduzionistici e qualunquisti, centrati sul soggetto, sulla situazione specifica e sulle potenzialità e risorse manifestate. Si tratta in poche parole di adottare strumenti validi, fondati su leggi scientifiche e che siano applicabili direttamente, facendo uso di misurazioni di tipo quantitativo o qualitativo con prove che diano un alto grado di affidabilità[26].
La pedagogia sperimentale aiuta il pedagogista ad agire in modo professionale, oltre cioè le convinzioni ideologiche e attraverso l’esercizio del semplice buon senso; si tratta in poche parole di indagare la realtà del soggetto con valutazioni precise, con strumenti affidabili ed ipotesi operative concrete, ben strutturate ed organizzate.
Possiamo dire che il modo di valutare del pedagogista è molto diverso da quello tipico dello sperimentatore, infatti, il primo non può mantenere un atteggiamento distaccato rispetto al soggetto e non può condurre le osservazioni in un ambiente asettico; la valutazione è parte costitutiva del processo educativo stesso e prevede quindi uno stretto coinvolgimento del professionista all’interno della relazione, dove all’osservato è richiesto di poter collaborare affinché possa fornire prestazioni, ovvero segni del suo apprendimento, attraverso stimolazioni specifiche fornite dal professionista[27].
In Italia non esistono molte ricerche sperimentali in ambito pedagogico e molti degli strumenti a disposizione del pedagogista sono presi in prestito dagli psicologi che hanno effettuato ricerche in ambito scolastico o da logopediste che, in collaborazione con neuropsichiatri infantili, hanno avuto modo di svolgere ricerche in ambito sanitario, all’interno delle stesse ASL[28].
A partire del 2010 la Giunti, in collaborazione con l’ordine degli psicologi, ha deciso di  pubblicare il consueto catalogo delle Organizzazioni Speciali inserendo, fra i livelli di accesso alla strumentazione diagnostica, la voce “pedagogista clinico” , il quale, accanto ai logopedisti, tecnici della riabilitazione psichiatrica, terapisti della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, terapisti occupazionali, fisioterapisti, educatori professionali e insegnanti di sostegno, può acquistare il materiale di valutazione riferito alla sezione B1 (che consente, tra l’altro, di acquistare anche i test appartenenti alla sezione A2 di cui fanno parte i medici con specializzazione in medicina del lavoro, gli orientatori, gli psicopedagogisti e i professionisti RU con competenza nel testing e anche quelli appartenenti alla sezione A1 di cui fanno parte solo gli insegnanti)[29].
Il fatto di avere un riconoscimento all’interno del catalogo specializzato dell’O.S. è un grande passo avanti che consente al pedagogista clinico di attingere ad una fonte importante capace di orientarlo meglio all’interno del mondo del lavoro, facendolo operare con maggiore sicurezza da una parte e, dall’altra, di chiarirsi le idee circa il proprio ambito di intervento, senza rischiare pericolosi sconfinamenti.
Il problema si pone però da un punto di vista della categoria di accesso, infatti, all’interno della sezione B1 si trovano diversi professionisti, molti dei quali appartenenti all’area sanitaria e non si comprende bene ad esempio, quali siano gli strumenti più idonei all’educatore professionale rispetto a quelli del terapista occupazionale e comunque non si capisce se tutti possano usare tutti gli strumenti consentiti a prescindere dasl settore specifico di intervento. Ma così si ritorna nuovamente al problema iniziale che ancora non vede risolto il dilemma della definizione specifica dei profili professionali e dei confini che separano la figura dell’ educatore professionale rispetto al pedagista o del pedagogista clinico (quando questi opera nella scuola) nei confronti dell’ insegnante di sostegno.
Innanzitutto cominciamo col precisare che al pedagogista clinico sono escluse competenze inerenti all’uso di tecniche proiettive (test di Rorschach, Test di Appercezione Tematica, test di Induzione Psico-Erotica, Reattivo di Disegno, Test Patte-Noire, ecc.), questionari di personalità (MMPI-A, MMPI-2, MCMI-III, 16 PF-5, CPS scale di personalità di Comrey, ecc.), oltre ai test di Salute Mentale, che riguardano le interviste cliniche strutturate per il DSM IV, le batterie per la pratica clinico-terapeutico e le scale psicologiche di interesse psichiatrico, comprendenti gli indicatori della condotta aggressiva, le scale per la misura delle fragilità emotiva e quelle per la valutazione dei disordini alimentari o per la depressione infantile[30].  
Maggiori opportunità sono offerte alla categoria all’interno della sezione Abilità sociali e Relazionali, come ad esempio gli Indicatori della capacità di adattamento sociale in età evolutiva che consente di monitorare lo sviluppo psicosociale del bambino, attraverso l’uso di scale che misurano l’aggressivitàil comportamento prosociale e l’instabilità emotiva.
Altri strumenti simili sono sono ad esempio il SIV per la misura dei valori influenti nei rapporti interpersonali, oppure il Vineland Adaptive Behavior scales che consente di valutare le abilità sociali nella vita di ogni giorno, altri strumenti legati allo studio delle relazioni familiari o dell’autismo ci sono preclusi.
Anche il settore Efficienza intellettiva non rientra, sfogliando le pagine del catalogo O.S, nelle competenze del pedagogista (mi riferisco al WAIS-R le WISC, le WPPSI, le Matrici progressive di Raven, il  test dei cubi di Kohs, ecc.), mentre il BAC, Benessere e Abilità Cognitive nell’Età Adulta e Avanzata,è utilizzabile anche dal pedagogista e consente di effettuare una valutazione cognitiva multidimensionale (lungo un ampio arco di vita), accertare la memoria negli adulti, valutare le capacità di comprensione del testo nell’invecchiamento e determinare il livello di benessere percepito dal soggetto, attraverso il senso dell’autonomia, la soddisfazione negli affetti, nelle relazioni, ecc[31].
Simile a questo strumento è il Lab-I che consente di potenziare gli aspetti cognitivi ed emotivo-emozionale in adulti ed anziani, valutando diversi ambiti cognitivi: memoria a breve termine, memoria a lungo termine episodica, memoria a lungo termine autobiografica, attenzione e inibizione, intelligenza cristallizzata, metacognizione e benessere[32].
   Nel settore ADHD e neuropsicolgia del bambino non è consentito al pedagogista l’uso di strumenti relativi alla valutazione dei disturbi del comportamento (CRS-R, oppure il Brown ADD Scalesper la valutazione AD/HD in bambini, adolescentie adulti), mentre sono accessibili VMI, test di percezione visiva e di coordinazione motoria, il Benton Visual Retention Test, oppure l’ormai classico Bender Visual Motor Gestalt Test per cogliere la maturazione della funzione visuomotoria della gestalt ed ancora, è consentito l’uso del Promea, prove di memoria e apprendimento per l’età evolutiva, le VAUMeLF, batterie per la valutazione dell’attenzione uditiva e della memoria di lavoro fonologica nell’età evolutiva e, infine, il Movement ABC, batteria per la valutazione motoria del bambino, in grado di identificare e quantificare le difficoltà di movimento che potrebbero influenzare l’integrazione scolastica e sociale del bambino[33]
Nel settore Disabilità è consentito l’uso di ASTRID, portfolio per l’assessment, il trattamento e l’integrazione delle disabilità che, facendo riferimento all’ICF, consente di valutare le abilità funzionali nella vita quotidiana e dei punti di debolezza, la qualità della vita, le abilità sociali, l’integrazione scolastica e l’autodeterminazione; ASTRID-or, altro importante strumento per l’assesment, il trattamento e l’integrazione delle disabilità di orientamento, consente invece valutare i concetti di lavoro, studio e tempo libero, la decisione/indecisione scolastico professionale, il senso di efficacia, gli stili decisionali, interessi, valori e motivazioni professionali, oltre alle idee irrazionali sul proprio futuro professionale e sullo sviluppo professionale. Il Reynell-Zinkin Scales, scale di sviluppo per bambini disabili visivi, consente di valutare l’adattamento sociale, la comprensione sensomotoria, l’esplorazione dell’ambiente, la risposta al suono, la comprensione verbale e il linguaggio espressivo.La sezione Deterioramento mentale e funzionale consente invece l’utilizzo di Contributi per un Assesment Neuropsicologico che consente di valutare il grado di funzionalità cognitiva del paziente rilevando le capacità di orientamento, di apprendimento ed effettuando misurazioni della percezione e della motricità. Abbiamo inoltre il VATA-m per valutare l’agnosia del disturbo motorio, somministrabile a tutti i cerebrolesi; sono esclusi al pedagogista il Moda (per la diagnosi dell’alzheimer), l’ADAS (per valutare la demenza) e molti altri relativi alla diagnosi del danno cerebrale e delle funzioni cognitive, ad eccezione dei Reattivi di memoria di Rey che valutano la struttura percettiva, l’attenzione, le capacità visuomotorie e la capacità di ritenzione a breve termine. Test importante per il pedagogista è il test per l’acalculia, ovvero, lo strumento in grado di valutare il disturbo delle capacità di calcolo, lettura e scrittura di numeri e difficoltà di organizzazione spaziale dei rapporti fra i numeri. Nella sezione Linguaggio troviamo diversi strumenti utilizzabili dal pedagogista, anche se molti sembrano pensati più per il logopedista che non per gli specialisti della formazione, sfogliando le pagine del catalogo troviamo l’AAT, test per la diagnosi dei disturbi afasici, il Test dei gettoni, il PCR (prova di comunicazione referenziale) e il TPL (test del primo linguaggio).
Importante è il DDE-2, batteria per la valutazione della dislessia e della disortografia evolutiva, utilizzabile anche dal pedagogista, il QSCL, questionario sullo sviluppo comunicativo e linguistico nel secondo anno di vita e molti altri test significativi soprattutto per il logopedista, come il PARLIAMONE, per la valutazione della abilità pragmatiche nel linguaggio[34] 
Nella sezione Attitudini generali e specifiche troviamo molti test interessanti per il pedagogista, come ad esempio il DAT-5 , finalizzata alla valutazione del ragionamento meccanico, velocità e precisione, ragionamento astratto, ragionamento numerico, ragionamento verbale, rapporti spaziali e uso del linguaggio. Simile a questa batteria è GAT-2, il GMA per la valutazione di abilità elevate e potenzialità manageriali, il Test di pensiero creativo, il CRT per la valutazione del ragionamento critico, il Claves per la valutazione del ragionamento deduttivo e della flessibilità cognitiva, il Bomat per la valutazione del personale lavorativo di livello medio-alto.
Nella sezione Talent Assesment troviamo il WIS/SVP, ovvero scala dei valori professionali, utilizzabile dal pedagogista, il Pasat 2000, l’ORG-EIQ per l’individuazione delle competenze emotive ed organizzative che favoriscono la prestazione, il WOMI per la la valutazione della motivazione nei contesti organizzativi, il BFO per l’auto ed etero valutazione ed altri.
Nella sezione Stress e benessere organizzativo troviamo l’HPSCS, LBQ per la valutazione del bunout nelle professioni di aiuto,l’OSI per l’analisi e il trattamento dello stress occupazionale, l’OPRA per l’adempimento degli obblighi ed altri. Infine, nella sezione Orientamento e Counseling troviamo il Mgellano (università, lavoro e junior) per l’orientamento alle scelte scolastiche e professionali; l’Optimist e Clipper e il GOFER per imparare a decidere e il QDP, questionario di decisionalità professionale.[35]
La Giunti Scuola ha pubblicato un interessante catalogo, ampiamente sfruttabile dai pedagogisti, ricco di test scolastici per la Valutazione, l’Orientamento e il Potenziamento; nella sezione Prerequisiti,  troviamo i Processi Cognitivi di Base per la valutazione dei processi percettivi, logico concettuali, mnestici, linguistici e pre-curricolari;  le Prove di Prerequisito per la Diagnosi delle Difficoltà di Lettura e Scrittura, le prove di Prevenzione e il trattamento delle Difficoltà di Lettura e Scrittura con i relativi software; nella sezione Lettura e Scrittura troviamo le prove di valutazione (anche in software) come le Batterie per la Valutazione delle Abilità Trasversali all’Apprendimento, con prove per la comprensione della lettura di un branometacomprensione, abilità di studio, abilità numerica, prussica e ritmica; le ormai note Prove di Lettura MT per la scuola elementare con le prove di comprensionecorrettezza e rapidità di lettura; prove di lettura per la scuola media inferiore, Prove MT Avanzate di Lettura e Matematica 2 per il Biennio della Scuola Secondaria di Secondo Grado; Test di Comprensione del Testo Orale; prove di Comprensione dei Linguaggi nella Lettura per la valutazione dei linguaggi parafrastico, inferenziale, logico, critico-valutativo, estetico-poetico; Prove di Valutazione della Comprensione Linguistica, Prove di Metacomprensione; Prove di Valutazione Grammaticale dell’Italiano Scritto, della Scrittura e della competenza Ortografica nella Scuola dell’Obbligo, Prove di Valutazione della Comprensione Metalinguistica con prove strutturate specifiche, come la prova fumetti, proverbi, modi di dire e pubblicità; software specifici che indagano le strutture logico-concettuali, mnestiche elinguistiche[36].
Nella sezione Matematica troviamo le prove di valutazione in Matematica, relative all’area del numero, della Geometria, dei dati e delle previsioni, Scienze e Software specifici.
Nella sezione Apprendimenti troviamo il Questionario sui processi di apprendimento, di Attribuzione che valuta l’impegno personalel’abilità soggettiva, la facilità o difficoltà del compito, la fortuna o il casol’aiuto dqualcuno e i software per la costruzione di mappe concettuali.
Nella sezione Memoria troviamo  Mnemotest per la valutazione della memoria strategica e software specifici per apprendere strategie di potenziamento; nella sezione Comportamento troviamo interessanti prove di valutazione di portata pedagogica, come Kit Iperattività: Valutazione ed Intervento in classe, valutando aspetti importanti come inibizione cognitivaorientamento al compitoautocontrollo motoriooppositività e aggressività fisica.
Infine, è importante ricordare test come Io Scrivo per la valutazione il potenziamento delle abilità di espressione scritta; Superabilità, per la valutazione ed il potenziamento delle abilità trasversali a partire dalla classe terza; Scuola Senza Frontiere per valutare e potenziare l’integrazione scolastica e Imparo Parole Nuove per la Valutazione e il Potenziamento delle Abilità Lessicali[37]
    Per quanto riguarda l’Omega Edizioni, è importante citare il Test di Frostig, per lo sviluppo della percezione visiva, finalizzato alla valutazione e al potenziamento della coordinazione visiva-motoriapercezione figura-sfondocostanza percettivaposizione nello spazio e relazioni spaziali[38].
Importante è anche il Metodo Portage che consente di esplorare 5 aree di sviluppo; cognitiva, motoria, linguistica, di socializzazione e di autonomia, finalizzato alla valutazione ed al recupero dei soggetti disabili in età infantile.
Altri strumenti di valutazione e diagnosi li troviamo nel catalogo della Erickson che però non avedo l’accortezza di citare le figure professionali che possono adottarli, non lo citeremo in questo paragrafo, limitandoci nel capitolo successivo ad elencare alcuni strumenti che sono utilizzabili in ambito riabilitativo all’interno della scuola[39] o in  contesti socio/educativi.
Al di là del poter utilizzare o meno determinati strumenti, è importante ribadire che il problema non sta tanto nell’avere o non avere la possibilità di adottare  un test o un questionario, ma nel saperlo utilizzare in modo competente e nel sapere scegliere quello più idoneo.
In pratica quello che manca in ambito pedagogico è l’esperienza nell’uso dei test e nella loro costruzione e anche le ricerche sul modo di condurre una diagnosi sono estremamente scarse; dobbiamo rifarci nuovamente a Crispiani[40]  per trovare qualcosa di concreto in questo ambito e l’autore ci rimanda ai metodi seguiti da Itard,, Seguin, Montessori, Cleparade e Declory, mostrando come questi si fossero da sempre interessati alla diagnosi dello stato evolutivo dei soggetti, ovvero alla totalità integrata della persona e dello stile conoscitivo autonomo proprio del pedagogista[41].
A parte alcune idee guida per la conduzione della diagnosi pedagogica, dobbiamo per adesso accontentarci di sapere che questa pratica si realizza in sinergia con una serie di compiti e di campi di lavoro in cui essi tendono a declinarsi, nella misura delle personali competenze, in quanto connessi al variegato e diffuso fenomeno della educazione intesa come aiuto allo sviluppo.
Le azioni diagnostiche orientate in ambito pedagogico prevedono allora: la complessità dei processi evolutivi individuali, come ad esempio l’apprendimento, l’adattamento, la motricità, l’emotività, ecc.; la complessità dei servizi educativi, assistenziali e dei processi formativi stessi; la presenza di eventuali stati patologici nello sviluppo; l’emergere di nuovi disagi o situazioni di difficoltà; la ricerca della qualità nei servizi formativi e la presenza del pedagogista nei gruppi professionali specialistici. Insomma, l’atto diagnostico del clinico, per definirsi proprio del pedagogista, deve necessariamente possedere uno specifico campo di intervento; avere una destinazione clinica, ovvero individuale ed empirica insieme;  adottare un approccio alla persona di tipo ecologico, globale, integrale e rivolto all’intero contesto di appartenenza; accettare relazioni ed interventi professionali diversi dal proprio, mettendosi sempre in discussione[42].
La diagnosi pedagogica si configura come sintesi dinamica di atti conoscitivi relativi all’andamento evolutivo dell’intera personalità dell’individuo, con una attenzione particolare rivolta ai tratti singolari; occorre quindi conoscere non solo l’andamento evolutivo del singolo ma anche indagare le aree e le funzioni specifiche, valutando gli apprendimenti individuali e di gruppo nei diversi contesti, certificando percorsi formativi specifici in modo da procedere successivamente con una progettazione di interventi educativi calibrati sui reali bisogni formativi dell’individuo.
Essendo quello della diagnosi pedagogica un settore estremamente complesso e variegato, logicamente occorre adottare molteplici strumenti valutativi da coniugare sempre e comunque con le scelte teoriche e le attitudini del singolo specialista; fra questi ricordiamo: l’osservazione clinica, la biografia/autobiografia, il questionario-inventario, il colloquio clinico e le scale di livello.
Sempre Crispiani ritiene che i pedagogisti possano effettuare esami ed utilizzare strumenti come: l’esame neuromotorio, gli esami funzionali, le proiezioni, la psicometria, i test di personalità ed il profilo dinamico individuale[43].
L’atto diagnostico che ne deriva è speso essenzialmente in direzione delle funzioni, come capacità, potenzialità e competenze in ambito motorio, linguistico, sociale, intellettivo ed affettivo. E’ quindi a tutti gli effetti una diagnosi funzionale in quanto inerente lo stato evolutivo delle funzioni che compongono la personalità umana, corrispondendo ad acquisizioni teoriche proprie del filone fenomenologico ed ermeneutico e, nondimeno, dell’epistemologia della complessità, un paradigma importante sostenuto da più autorevoli voci, come E. Morin, I. Stengers, ecc.[44].
Credo sia conveniente dire che, se per diagnosi si intende conoscenza, comprensione della realtà in cui si opera, interpretazione e valutazione dell’esistente, prefigurazione ed immaginazione del possibile cambiamento, tutto questo rientra pienamente nell’ambito delle competenze del pedagogista ed è costitutivo e congruente con il gesto educativo intenzionale.
Conoscere e valutare sono in definitiva funzioni necessarie e fondanti sia per la cura medica sia per quella educativa; se l’intervento medico o psicologico è in stretto rapporto con una situazione di disagio, di patologia e quindi con l’esigenza di terapia dovute ad urgenze di natura riparative, l’intervento educativo è supporto e accompagnamento allo sviluppo della conoscenza, alla realizzazione di sé, al progetto possibile di cambiamento. La diagnosi pedagogica è riconoscibile quindi come snodo mobile, dinamico ed aperto tra conoscenza/interpretazione della situazione el’emergere del progetto, tra la comprensione, ipotetica, di esigenze o possibilità e l’individuazione di mete e direzioni di interventi pedagogici.Diagnosi intesa allora come pratica di conoscenza atta ad istituire una relazione viva e concreta con la realtà considerata, fatta di linguaggi gesti ed espressioni capaci di interrogare e riplobematezzare le teorie di riferimento dell’operatore pedagogico, al di là quindi di ogni accettazione acritica di paradigmi di conoscenza semplici, lineari, si stematici o comunque riduttivi, volti unicamente a ridurre il tutto ad una sterile fissità e prevedibilità[45].      
La diagnosi pedagogica, fondandosi prevalentemente sull’ascolto, relazione ed interpretazione, è figlia dell’epistemologie e delle ermeneutiche contemporanee, dove l’idea principale è quella di accogliere un’identità nuova del soggetto, non più unitario, stabile, prodotto ed effetto della sua storia, ma anch’esso strutturalmente plurimo, complesso, naturalmente ambiguo, soggetto che si costruisce, cambia, che è prodotto della sua storia quanto produttore del suo progetto[46].
La diagnosi pedagogica è sicuramente una diagnosi debole, con un’identità plurima e composita, un percorso di conoscenza necessario per orientare l’azione che sia il più possibile riflessiva, aperta alla possibilità e al dubbio, capace di proporsi non solo come percorso di ricerca ma anche come costruzione condivisa di conoscenza, come valutazione formativa, come orientamento ed interrogazione costante del progetto educativo, espressione concreta di significati e di spazi di significati da elaborare per la formazione. Insomma, la diagnosi pedagogica, in quanto pratica che investe anche la sfera della valutazione, non può che elaborare criticamente la problematicità attuale del soggetto sotto analisi, accettando la proposta di indagine fenomenologia da privilegiare in ogni caso alla cieca applicazione tecnica, volta solamente a scandagliare i sintomi, a favore invece di un’accettazione completa dell’individuo, con i suoi comportamenti e la sua soggettività, intesa come coscienza intenzionale che si rapporta ed attribuisce un significato ed un valore personale alla realtà nella quale si trova inserito; un mondo soggettivo che non è mai concluso e definito, dove l’attività intenzionale della coscienza elabora costantemente valori e segni al fine di costruire una personale visione del mondo, una rappresentazione significativa della realtà riconosciuta come tale dal soggetto stesso[47].
Sembra di poter affermare, a questo punto, che la diagnosi pedagogica possa contribuire, in modo non irrilevante, a recuperare una riflessione integrale, ontologica sulla pedagogia, contrastando nettamente il rischio di essere “ruote di scorta” rispetto ad altri sapre forti, come la medicina, la politica o l’economia; occorre aprire le porte all’aspetto emancipatorio della formazione in modo da superare definitivamente l’astrattismo pedagogico disgiunto dalla prassi ed evitare allo stesso modo il frazionamento di uno specialismo cieco, responsabile di quelle barriere di incomunicabilità che gratificano unicamente l’autoreferenzialità e il baronato, impedendo a livello professionale, l’emergere di altre categorie professionali. Occorre ripensare l’educazione ritrovando una sintesi unitaria dei frammenti che ancora oggi la caratterizzano, così da  spingere la pedagogia oltre i confini della concezione terapeutica odierna, completando finalmente il processo di generazione umana che si fa mediante la cultura e la fioritura delle attitudini personali[48].   






[1]    Petter. G., Il Mestiere Di Insegnante, Giunti, Firenze, 2006, pp.22 e ss.
[2]    CFR. Rogers C., Terapia centrata sul cliente, La Nuova Italia, Firenze, 1977
[3]    Petter G., Il Mestiere di Insegnante, op. cit. pp. 63 e ss.
[4]    Cfr. Boffo V. (a cura di), La cura in Pedagogia, Clueb, Bologna, 2006
[5]    Nietsche F., Al di là del bene e del male, vol. II, tr. It., Milano, Adelphi, 1978, p. 231
[6]    Heidegger M., Essere e Tempo,Milano, Longanesi, 1976, p. 241
[7]    Boffo V., La cura in Pedagogia, op. cit., p. 69
[8]    Mounier E., Che cos’è il personalismo?, Milano, Einaudi, 1975, p. 32.
[9]    Cambi F., La cura di sé come processo formativo, Laterza, Roma, 2010, p. 7
[10]  Sull’educazione interiore, intesa come Pedagogia introspettiva con il suo linguaggio simbolico e le sue pratiche per coltivare l’idea stessa di interiorità, si è soffermato Demetrio. Per approfondimenti Cfr. Demetrio D., L’Educazione Interiore, La Nuova Italia, Firenze, 2000
[11]  Cambi F., La cura di sé come processo formativo, op. cit. pp. 5 e ss.
[12]  Il termine “briccole è stato preso in prestito da Trisciuzzi, intendendo con questo termine i grossi pali che vengono piantati nelle lagune e che servono per segnalare la navigazione sicura dei naviganti; trasferendoci in ambito  pedagogico, questo termine assume un significato relativo ai punti di riferimento esistenziali e alle sicurezze che offrono durante il viaggio della vita. Cfr. Trisciuzzi L., Elogio dell’educazione, ETS, Pisa, 1998, p.11
[13]  Cambi F., L’autobiografia come metodo formativo, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. V e VI
[14]  Demetrio D., Filosofia del camminare, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006, pp. 223 e ss.
[15]  Cambi F., La cura di sé come processo formativo, op. cit. pp. 105 e ss.
[16]  Demetrio D., Ascetismo metropolitano, Ponte alle Grazie, Milano, 2009, pp. 7 e ss.
[17]  Sul tema del teatro e dei detenuti si è soffermato Cambi in un saggio. Cfr. Cambi F., Le devianze giovanili e il trattamento educativo: la cura e la socializzazione. Appunti sulla formazione dei formatori, in Boffo V., La Cura in Pedagogia, op. cit., pp. 153 e ss. 
[18]  Iori V., Nei sentieri dell’esistere, Erickson, Gardolo (TN), 2006 pp. 11 e ss.
[19]          Per maggiori approfondimenti sull’argomento è possibile consultare l’articolo di Piero Porcelli comparso in  Servizio di Psicodiagnostica e Psicoterapia IRCCS gastroenterologico “, S. de Bellis” ,Castellana Grotte (Bari)


[20]  Per approfondimenti sulla diagnosi in ambito psicologico e sui criteri sperimentali, Cfr. Camaioni L., Simion F., Metodi di Ricerca in Psicologia dello Sviluppo, Il Mulino, Bologna, 1990
[21]  Circa gli aspetti valutativi ed operativi in ambito psicosociale esercitati da figure diverse dallo psicologo e dal medico, CFR. Giannetti E., Raffagnino R., Taddei S., Strumenti psicologici per operatori della salute, Le lettere, Firenze, 2008
[22]  Legge 18 febbraio 1989, n.56: Ordinamento della Professione di Psicologo. Website URL http://www.psy.it/ordpsic/consnaz/leggi/56ital.html
Codice Deontologico degli Psicologi Italiani (27-28 giugno 1997). Website URL http://www.psy.it/ordpsic/psy_e_u/op_cx_en.html
Sagona G. Ordinamento della diagnosi psicologica. La Professione di Psicologo, 1997; 4(2): 22-23
Handler L., Hilsenroth M.J. (eds). Teaching and learning personality assessment. Lawrence Erlbaum Associates, Mahwah, NJ, 1998

[23]          www.ordinepsicologiliguria.it ; www.enpap.it

[24]  Cfr. Vertecchi B., Manuale della valutazione, Franco Angeli, Milano, 2003, pp. 207 e ss.
[25]  Sugli strumenti , i metodi e le procedure adottati in ambito docimologico, Cfr. Trisciuzzi L., Corchia F., Manuale di Pedagogia Sperimentale, ETS, Pisa, 1995, pp. 99 e ss.; oppure De Landsheere G., Introduzione alla ricerca in educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1996, pp. 83 e ss. 
[26]  Trisciuzzi L., Corchia F., Manuale di Pedagogia Sperimentale,  op. cit., p. 14
[27]  Vertecchi B., Manuale della Valutazione, op. cit., pp. 181 e ss.
[28]  Per approfondimenti è possibile consultare il catalogo della Erickson, consultabile anche tramite il sito www.erickson.it
[29]  Giunti O.S., Catalogo 2010, Firenze, 2010, p. 213
[30]  CFR il sito www.giuntios.it
[31]  Giunti O.S., Catalogo 2010, op. cit., p. 109
[32]  Giunti O.S., Catalogo 2010, op. cit.,p. 110
[33]  Giunti O.S., Catalogo 2010, op. cit.,p. 120
[34]  Giunti O.S., Catalogo 2010, op. cit.,p. 149
[35]  Giunti O.S., Catalogo 2010, op. cit.,p. 180 e ss.
[36]  CFR.Giunti Scuola, Strumenti per la Scuola, Firenze, 2010, pp.10 e ss.
[37]  CFR.Giunti Scuola, Strumenti per la Scuola, Firenze, 2010, pp.72 e ss.
[38]  Omega Edizioni, Catalogo N.59 –Gennaio 2009, Torino, 2009, p. 14
[39]  Per maggiori informazioni è consultabile il catalogo on line che si trova sul sito www.erickson.it
[40]  Crispiani P., La Pedagogia Clinica, op. cit., pp. 143 e ss.
[41]  Fabi A., La valutazione dell’alunno, Armando, Roma, 1966
[42]  Crispiani P., La Pedagogia Clinica, op. cit., pp. 146 e 147
[43]  Crispiani P., La Pedagogia Clinica, op. cit., p. 153
[44]  CFR. Bocchi G., Ceruti M. (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano, 1985 
[45]  Calmieri C., Prada G. (a cura di), La Diagnosi Educativa, Franco Angeli, Milano,, 2005, pp. 171 e ss.
[46]  Cfr. Callari G., Cambi F. e Ceruti M, Formare alla complessità, Carocci, Roma, 2003
[47]  Bertolini F., Caronia L., Ragazzi difficili, La Nuova Italia, Firenze, 1993, p. 44 e ss.
[48]  Cfr. Xodo C., (a cura di) Bio-Pedagogia: Quality of life, Pensa Multimedia, Lecce, 2008 

[1]    CFR. Sola Giancarla, Introduzione alla Pedagogia Clinica, Il Melangolo, Genova, 2008
[2]    I termini <<punto di equilibrio>>, <<vuoto interiore>> e <<donazione di senso>> li troviamo rispettivamente in: Musil R., L'uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1997; Ferenczi S., Diario clinico. Gennaio-Ottobre 1932, Cortina, Milano, 2004; Gadamer H.G., Verità e metodo, ed. G. Vattimo, Bompiani, Milano, 1997.
[3]    CFR. Gennari M., Storia della Bildung. Formazione dell'uomo e storia della cultura in Germania e nella Mitteleuropa. La Scuola, Brescia, 1998.
[4]    CFR. Gennari M, Pedagogia e semiotica, La Scuola, Brescia, 1984.
[5]    Per approfondimenti circa il processo decostruttivo in pedagogia, CFR. Mariani A., La decostruzione e il discorso pedagogico. Saggio su Derrida, ETS; Pisa, 2000.
[6]    CFR.  Sola Giancarla, Introduzione alla Pedagogia Clinica, op. cit.
[7]    Per approfondire il concetto di categorie pedagogico/cliniche, Sola G., Intoduzione alla pedagogia Clinica, op. cit., pp. 72 e ss.
[8]    Sull'ermeneutica CFR. Gadamer Hans Georg, Verità e metodo, ed. Vattimo G., Bompiani, Milano, 1997; Gennari M., Interpretare l'educazione. Pedagogia, semiotica, ermeneutica, La Scuola, Brescia, 1992.
[9]    Sugli aspetti comunicativi in pedagogia clinica si è soffermato anche Trisciuzzi, per approfondimenti CFR., Trisciuzzi L., La pedagogia clinica, Laterza, Roma, 2003
[10]  Jonas Hans, Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 1990.
[11]  Gennari M., Kaiser A., Prolegomeni alla Pedagogia Generale, Bompiani, Milano, 2004
[12]  Mannese E., La pedagogia clinica tra scienze umane e neuroscienze, Anicia, Roma, 2002
[14]  Per approfondire il contributo dell'approccio riflessivo per la valorizzazione dell'agire competente, CFR. Davide Capperucci, La valutazione delle competenze in età adulta, ETS, Pisa, 2007,
[15]  Crispiani P., Pedagogia clinica, op. cit., p. 136
[16]  Crispiani P., Pedagogia clinica, op. cit. p. 137.
[17]  I ruoli del pedagogista nei diversi ambiti operativi, sono riportati in M. Corsi, Il consigliere, in Scurati C., (a cura di), Volti dell'educazione, La Scuola, Brescia, 1996, pp. 155 e ss.; Zavalloni R., La funzione del consigliere pedagogico, Centro Sociale di Fraternità, Bologna, 1983; Zavalloni R., Figura e unzione del consigliere, Armando, Roma, 1980; Vella C.G., Il consultorio e il consulente familiare. Identità, formazione, tecniche operative, AVE, Roma, 1978

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