giovedì 6 agosto 2015

Pratiche bioenergetiche orientali, arti marziali e diversabilità

6.1 Cos’è l’handicap?

Il termine “handicap” deriva dalla locuzione inglese del XVII secolo hand in cap che significa letteralmente<<mano nel cappello>>, utilizzato nel linguaggio sportivo in riferimento al sorteggio dei cavalli da corsa, per stabilire le posizioni di partenza ed evitare favoritismi . Nel XVIII secolo, invece, questo termine ha assunto un nuovo significato, attribuito soprattutto in ambito sportivo, al fine di indicare lo svantaggio all’interno delle competizioni, a concorrenti posti in condizioni di inferiorità e di difficoltà rispetto agli altri. La parola handicap sta ad indicare una condizione di ostacolo e in Italia il suo utilizzo è avvenuto solamente negli anni ’70; ancora oggi, infatti, si usa definire soggetti in situazioni di handicap tutte quelle persone che, in un dato momento della loro vita, si trovano in una condizione di svantaggio a causa dell’insorgere di determinati problemi, ad esempio, la timidezza può essere considerata un handicap per un buon inserimento sociale, la voce nasale può costituire un handicap per un oratore professionista.
  L’handicap lo potremmo considerare come una penalizzazione, che non è identificabile con il deficit o la limitazione, bensì con il loro effetto. La penalizzazione che un soggetto in situazione di handicap riceve, non dipende solo dal deficit o dalla limitazione, ma riguarda soprattutto il contesto sociale nel quale la persona in questione si trova ad interagire .
  L’Organizzazione Mondiale della Sanità  ritiene che sia importante, ai fini di una corretta definizione dell’handicap, considerare la catena sequenziale malattia – menomazione – disabilità – handicap, dove, per malattia viene inteso qualunque processo patologico associato ad un insieme di sintomi ben determinati e riconoscibili; per menomazione viene intesa la perdita o l’anomalia che può essere transitoria o permanente, a carico di strutture, funzioni fisiologiche, anatomiche o psicologiche; la disabilità invece, viene considerata la diretta conseguenza della menomazione, infatti, rappresenta la restrizione o la carenza della capacità di svolgere una attività nel modo o nei limiti ritenuti normali per un individuo sano.
  L’abilità rappresenta l’insieme integrato delle capacità di un individuo nel riuscire a svolgere con successo determinate attività, pertanto, le persone con menomazioni che riescono ad ottenere buoni risultati da un punto di vista operativo, non possono essere considerate inabili. Le menomazioni non necessariamente danno luogo a disabilità e, infatti, l’utilizzo di protesi per non udenti riduce in maniera sensibile le capacità invalidanti delle persone menomate.
  Occorre precisare la differenza che corre tra inabilità e disabilità: nel primo caso si parla di completa incapacità nello svolgere una determinata azione, sia che questa capacità non sia mai stata posseduta, o che invece sia andata completamente perduta; la disabilità, invece, rappresenta la capacità anche minima di compiere in maniera soddisfacente determinate azioni, identificabile come il livello intermedio posto tra i due termini limite “abilità” e “inabilità”. E’ possibile precisare per ogni persona menomata, un certo grado di abilità specifica, dal momento che molti individui ritenuti inabili, in realtà sono solamente meno o diversamente abili. L’errore fondamentale in sintesi è di pensare che possa esistere una stretta correlazione tra compromissione e disabilità, ritenendo che la menomazione comporti necessariamente nei confronti del soggetto, risultati insoddisfacenti in termini di prestazione.
  La malattia, insomma, produce nelle persone danni e menomazioni, le quali possono dar luogo ad una disabilità, ossia, una riduzione delle capacità nello svolgere certe mansioni, al pari di un individuo sano. La disabilità crea il presupposto per l’handicap e si manifesta tutte le volte che si vengono a creare all’interno dell’ambiente, barriere architettoniche, legislative e socioculturali, impedendo od ostacolando il normale inserimento dell’individuo nella società. Insomma, la malattia crea soltanto il presupposto per l’handicap ma è l’ambiente che lo determina, infatti, la situazione di svantaggio deriva dalla struttura sociale, relazionale ed economica della comunità di appartenenza. L’handicap si manifesta ogni qual volta esista la pretesa di voler ottenere prestazioni standard a prescindere dalle capacità o abilità del soggetto in questione, infatti, al variare delle condizioni e delle richieste, possono variare o no le situazioni di svantaggio.
Occorre allora prendere in considerazione le reali attitudini di un individuo e le eventuali difficoltà che manifesta, al fine di agevolare il più possibile la sua integrazione sociale lavorativa o scolastica, evitando in questo modo le situazioni di handicap a cui  sarebbe costretto inevitabilmente ad andare incontro.
  Il termine handicap, spesso è utilizzato con un’altra accezione, indicando con questo un particolare gruppo di patologie che colpiscono le età evolutive, assumendo in questo modo una definizione di portata più ampia e facilmente confondibile con termini come deficit, minorazione, ecc.
  Per handicap allora, comunemente si intende un insieme di sintomi derivati da una malattia organica avvenuta prima, durante o dopo la nascita, le cui conseguenze possono riguardare le funzioni intellettive, motorie o sensoriali, come l’udito e la vista. Per molto tempo l’handicap è stato considerato soltanto dal punto di vista organico, infatti, il disturbo nella struttura e nelle funzioni del sistema nervoso centrale era concepito come la causa dell’handicap stesso.
  La scienza dunque, in passato ha affrontato il problema dell’handicap considerandolo come una realtà statica, trascurando il fatto che, ad esempio, un possibile danno cerebrale, poteva determinare degli effetti da un punto di vista dello sviluppo psicologico, provocando determinate reazioni anche nell’ambiente sociale e familiare; un’ottica di questo tipo non poteva non dare conseguenze negative, infatti, si sono verificati interventi assistenziali e rieducativi del tutto inadeguati, segregando le persone in situazione di handicap all’interno di istituti speciali, costringendole a vivere rinchiuse nella propria malattia ed in profonda solitudine.
  Attualmente comunque, l’handicap è visto in un’ottica più ampia, oltre l’ambito puramente medico, considerandolo come un complesso sconvolgimento della personalità con fattori non solamente di natura biologica, ma anche di origine affettiva ed emotiva; una realtà non statica ma in perpetuo movimento, che può presentare continue modificazioni ed oscillazioni, anche positive e con possibilità di miglioramento.  
  Nonostante il linguaggio corrente tenda ad associare termini come handicappato ed handicap a svariate persone e contesti, è opportuno evidenziare che, l’utilizzo corretto di questo ultimo termine, si ha solamente qualora si faccia riferimento ad una situazione in cui una persona manifesti inabilità o livelli non soddisfacenti di abilità (disabilità), a causa di menomazioni che  compromettono la possibilità di rispondere a specifiche aspettative di efficienza.
  L’handicap è possibile superarlo soltanto quando è considerato per quello che effettivamente è, ossia una condizione soggettiva che può colpire chiunque, nella consapevolezza che ogni individuo è diverso dall’altro e che deve essere rispettato come soggetto paritario per il diritto e per la società .  
  Un soggetto a causa di determinate condizioni patologiche, fisiche o psichiche, può incontrare degli “handicap”, cioè situazioni di svantaggio e di ostacolo, nel suo pieno inserimento sociale. Chiunque di noi, in determinati momenti della propria esistenza può, ad un tratto, incontrare degli handicap; lo stato di salute è fondamentale affinché ogni individuo riesca a realizzarsi da un punto di vista personale e sociale, tuttavia, il sopraggiungere di una malattia, può determinare improvvisamente una situazione di svantaggio nei confronti degli altri (da un punto di vista dell’integrazione sociale, dell’inserimento lavorativo, ecc.), necessitando di interventi e di aiuti concreti da parte della comunità di appartenenza, la quale invece, spesso si dimostra sorda alle richieste di queste persone, preferendo ignorarle, isolarle o ghettizzarle.
  Sul piano sociale, questi individui sono etichettati come diversi ponendo fra loro e le persone ritenute “normali” barriere invalicabili di qualunque genere, architettoniche e soprattutto mentali .
  Il fatto è che le persone che percepiamo come “diverse”, creano al nostro interno uno stato di disorientamento, di incertezza e di sconcerto; ci sentiamo impreparati ed impotenti di fronte al problema di questi soggetti, al punto da divenire noi stessi i veri handicappati. Il termine diversità non è sinonimo di disuguaglianza, infatti, il soggetto in situazione di handicap non è possibile percepirlo come una persona dissimile a noi; egli può essere un fratello, un figlio, un amico e se anche non esiste nel mondo della medicina il farmaco in grado di ripristinare la “normalità”, molto può essere fatto a livello sociale, mediante il coinvolgimento di queste persone all’interno della realtà effettiva e vitale, dal momento che tutti, persone in situazioni di handicap e non, necessitiamo fondamentalmente di amore.
  L’aiuto più grande che possiamo dare alle persone in situazioni di handicap, è quello di cercare di abbattere le diverse barriere architettoniche, sociali e psicologiche, attraverso aiuti mirati, atti ad impedire la segregazione di questi ultimi dalla società ed il loro confinamento all’interno di lager disumani, chiusi ed appartati, privi di stimoli salutari e rigeneratori .
  La condizione della persona svantaggiata poi, troppo spesso risulta essere quella del non desiderato, diventando il capro espiatorio dell’aggressività del gruppo di appartenenza, percepito socialmente in maniera così svalutata da renderlo vittima dell’emarginazione sociale.
  E’ la società, insomma, che determina e definisce le situazioni di handicap; non occorre molto per rendersi conto di questa realtà, basta dare uno sguardo alla condizione scolastica degli studenti svantaggiati ed agli ostacoli di rendimento e di bocciature a cui molti di essi inevitabilmente vanno incontro, inoltre, anche il mondo del lavoro contribuisce in maniera rilevante ad alimentare questa realtà di emarginazione, infatti, molti soggetti in situazione di handicap non vengono assunti, confermando agli occhi dei familiari e della società la loro totale inadeguatezza e diversità rispetto agli altri ritenuti “normali”.
  Occorre insomma che la società si impegni affinché le menomazioni delle persone non si trasformino in handicap, attraverso interventi mirati, volti ad abbattere le barriere esistenti e ad evitare che nuove barriere di tipo architettonico, legislativo, socioeconomico e culturali vengano erette. Gli interventi possono essere di tipo assistenziale, necessari al fine di garantire una certa protezione e sicurezza alle persone svantaggiate, tuttavia, limitandosi a provvedimenti di questo tipo, esiste il rischio di escluderle da numerose funzioni e in particolare da quelle produttive, che giuocano un ruolo fondamentale nella nostra società e nel modo di concepire noi stessi e la nostra posizione sociale .
  Il dramma dell’handicap sta nel fatto che la persona non è considerata come portatrice di una menomazione, bensì come una persona menomata complessivamente; insomma, l’inferiorità nell’esercizio di una determinata attività si estende al soggetto nella sua globalità, arrivando a percepirlo come inferiore e quindi da emarginare.
  Il problema dell’handicap, in ogni caso, non si limita all’inserimento delle persone disabili all’interno della società; occorre invece prendere coscienza del fatto che è fondamentale riuscire a stimolare i soggetti svantaggiati ad incrementare i loro livelli di partecipazione attiva alla vita comunitaria, al pari di tutti gli altri cittadini.
  E’ importante in conclusione, rendere evidente che disabilità, menomazione ed handicap possono relazionarsi tra loro; ad esempio, l’handicap può essere la diretta conseguenza di una menomazione, senza per questo dare necessariamente origine a condizioni di disabilità, basti pensare a tutte quelle persone che presentano problemi estetici dovuti ad incidenti od ustioni, le cui abilità non sono certo compromesse, ma sono pur sempre soggette a situazioni di svantaggio rispetto agli altri.
  La menomazione invece, non è detto che debba necessariamente portare a sensibili compromissioni di attività o capacità che sono comuni a tutti gli individui. La menomazione in pratica, non comporta necessariamente la disabilità. L’handicap può influenzare il comportamento del soggetto, andando a determinare ulteriori menomazioni e disabilità, le quali a loro volta, possono ritardare lo sviluppo di altre capacità, innescando meccanismi di rifiuto da parte del contesto sociale di appartenenza, con conseguenze deleterie per il già precario senso di sicurezza e di autostima della persona in questione.
  Carlo Fratini  a questo proposito, ritiene che l’handicap rappresenti un fenomeno molto complesso, in grado di provocare una doppia minorazione: una a livello fisico e/o mentale, l’altra a livello sociale, portando ad una immagine distorta e svalutata del proprio corpo e del proprio sé. Tutto questo comporta come conseguenza gravi problemi alla persona in questione, specialmente per quanto concerne la sicurezza in se stessa e la propria autostima, al punto da poter affermare che questo tipo di difficoltà rappresenti una delle barriere più difficili da superare.
  Il problema di una formazione adeguata del proprio sé e della propria identità, è scaturito dal fatto che la persona in situazione di handicap percepisce se stessa solamente all’interno dell’ambito del deficit, una realtà fatta di muri invalicabili, di ferite interiori, di desideri rinnegati e rimossi, aggravati anche dall'ignoranza da parte degli altri, dalle derisioni e dalle offese, che si traducono ogni giorno in una illimitata fonte di piccole e grandi sofferenze. La disabilità infine, non è detto che comporti l’handicap, infatti, molto dipende dal grado di accettazione personale e dal livello di integrazione da parte della comunità di appartenenza.


6.2 Tipologia delle disabilità

Abbiamo visto nel precedente paragrafo come sia difficile poter definire in astratto la condizione di normalità di una persona, infatti, possiamo affermare che il concetto di anormalità è sempre basato su regole socialmente accettate. La cultura insomma, gioca un ruolo determinante per quanto concerne la dimensione in cui viene inquadrata la nozione di handicap, per questo occorre che ogni società abbia sviluppato una propria definizione di “normalità” e di “malattia”, al fine di poter pervenire ad una classificazione delle diverse patologie ed arrivare a schematizzare gli handicap che ne possono derivare.
  Leonardo Trisciuzzi  afferma a questo proposito che la dislessia, la disgrafia (cioè le difficoltà di apprendimento della lettura e della scrittura) e la disortografia, rappresentano per la nostra cultura problematiche soggettive che influenzano negativamente la condizione di “normalità” di una persona, tuttavia, presso altre culture, queste difficoltà non comportano nessuno svantaggio, non rientrano, cioè, nei parametri di valutazione della normalità di un individuo. Il pianto invece, rappresenta un meccanismo di difesa ampiamente accettato nella nostra cultura, mentre presso altre popolazioni risulta essere osteggiato e rifiutato.
  Se la normalità può essere valutata solo in rapporto con la  capacità di adattamento di una persona alla realtà con la quale si trova di volta in volta ad interagire, non possiamo non essere d’accordo con De Ajuriaguerra  quando afferma che “un uomo può essere considerato normale quando, nel mondo, egli vive nel quadro di una assimilazione attiva e non in quello di un accomodamento passivo, o quando egli supera il suo deficit e adatta il suo organismo in vista di una assimilazione o di una utilizzazione ottimale delle sue possibilità senza disorganizzarsi”.
  A livello scientifico l’handicap è considerato in relazione a due variabili: la disabilità individuale, che non è altro che l’effetto della minorazione e l’impedimento ambientale, determinato invece dal rapporto ambiente - minorazione. Le disabilità possono essere suddivise in : deficit sensoriali, intesi quelli della vista e dell’udito, dove nel primo caso vengono distinte in lievi, medi e gravi, provocando cecità, ametropie (miopie, ipermetropie, astigmatismo), ambliopie (strabismo, daltonismo, albinismo, fotofobia, nistagmo, glaucoma) nel secondo caso invece, si ha ipoacusia trasmissiva o percettiva (30 decibel), sordastria (30 – 75 decibel), cofosi (da 95 decibel in poi), in grado di provocare sordità e sordomutismo; i deficit cerebrali (cerebropatie), possono essere perinatali o postnatali: nel primo caso si hanno a causa di anossie da parto (parto cesareo, parto distocico), nel secondo, invece, a causa di traumi (encefaliti infettive).
  Inoltre, rientrano nei deficit cerebrali anche le epilessie idiopatiche; i deficit psichici invece, comprendono disturbi specifici dello sviluppo come il linguaggio (dislalie, balbuzie), disprassia dello sviluppo (encopresi, enuresi, tic.), alimentazione (bulimia, anoressia). Rientra inoltre in questo ambito il disturbo intellettivo (insufficienza mentale) che può essere lieve, medio, grave.
  Gli insufficienti mentali sono soggetti che presentano un deficit intellettivo, in quanto il loro sviluppo mentale non è completo ed è quindi insufficiente, manifestando capacità intellettive notevolmente inferiori alla media ed una bassa capacità di adattamento alle richieste della vita quotidiana nel comprendere i concetti, nel capire ed usare il linguaggio, ecc.
  Il disturbo del linguaggio (afasia, sordomutismo) è determinato dalla difficoltà nell’articolazione delle parole, che può derivare da lesioni ai centri deputati a questa funzione, da alterazioni funzionali delle strutture periferiche, da deficit sensoriali (in particolar modo uditivi) e da determinate condizioni ambientali.
  I disturbi scolastici (disgrafie, dislessie, disortografie, discalculie), si riferiscono a difficoltà strumentali di lettura, scrittura e calcolo, che emergono durante il periodo dell’infanzia, dove il soggetto manifesta problemi nell’automatizzare i processi di decodifica del linguaggio scritto in quello verbale, per quanto riguarda la lettura, di linguaggio verbale in quello scritto, per quanto riguarda la scrittura e difficoltà nello svolgere mentalmente le operazioni aritmetiche, per quanto riguarda il calcolo .
  I disturbi relazionali (nevrosi, psicosi) riguardano nel primo caso una difesa non adattiva dovuta allo stress ambientale, infatti, lo stress causato da un disadattato rapporto con l’ambiente sociale, è considerato una causa determinante dei disturbi nervosi. L’origine della nevrosi è collegabile con una situazione ansiogena che genera stress e si manifesta con una serie di difese irrazionali che, in ogni caso, riescono sempre a far mantenere una certa stabilità alla struttura emotiva profonda del soggetto.
  Per psicosi, invece, si intende un disturbo della relazione molto grave, caratterizzato da alterazioni e da profonde difficoltà nelle relazioni affettive, sul versante cognitivo e nei rapporti comunicativi. Se nella nevrosi l’individuo riesce a mantenere una certa coscienza della propria condizione patologica, nella psicosi si sente come in balìa di forze esterne e malvagie; il soggetto è incapace di riconoscerle come proprie e di reagire adeguatamente, se non attivando meccanismi di difesa arcaici, volti a mantenere rigidamente inalterata la realtà delle condizioni esistenti .
  I deficit motori infine, possono essere di natura cerebrale di tipo spastico o distonico, deficit periferici dovuti a malformazioni muscolari o ortopediche.
  Per quanto riguarda gli impedimenti ambientali invece, occorre prendere in considerazione la realtà sociale (barriere architettoniche, psicologiche, pregiudizi, sovraffollamento, ecc.), il rapporto con gli altri (abbandono minorile e di anziani, rifiuto, iperprotezione ed aggressività), i fattori culturali (emigrazione, sradicamento, sottocultura, idiocultura), i fattori macrosociali  (povertà, isolamento, droga, criminalizzazione, barriere razziali, delinquenza minorile, eversione e post carcerazione) .
  Occorre infine ricordare che, nel 1980, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha redatto una classificazione degli handicap, considerando questi ultimi in stretta relazione con le diverse disabilità, arrivando ad identificarne ben sette differenti tipologie: disabilità nel comportamento, nella deambulazione, nella cura di sé, nell’assetto del proprio corpo, nella comunicazione, nelle diverse abilità e in quelle relative al contesto o situazione .
  E’ importante rilevare che oggi, con una concezione più moderna dell’handicap, sempre più difficilmente si tende a ridurre questo termine ad un’unica etichetta o definizione, preferendo invece considerarlo come un processo nel quale vengono a confluire diversi fattori interagenti, di natura biologica, sociale ed affettiva.


6.3 Esperienze di laboratorio:  Educazione Gestuale e Arti Marziali nei Centri Socioeducativi

In questo paragrafo verrà riportata l’attività da me svolta in qualità di Tecnico, presso due centri socioeducativi dell’empolese – valdelsa (che fanno capo ad una importante cooperativa sociale), inerente alle Arti Marziali e all’educazione psicomotoria.
Questa attività di laboratorio è stata un’esperienza utilissima che mi ha permesso di mettere in pratica i concetti  maturati attraverso la pratica del Kung Fu Wu-Shu e del Karate, supportati dalle letture relative alla psicomotricità, alla psicopedagogia e alla didattica speciale.
Il progetto da attuare è stato ideato da diversi professionisti che operano nell’ambito educativo e sociale, cercando di raggiungere obiettivi specifici in termini di apprendimento, realizzazione, accrescimento dei livelli di aspirazione soggettivi ecc.

Bisogni e caratteristiche dell’utenza:

 i centri diurni entro i quali svolgere l’attività erano due, con utenti affetti da patologie molto diverse cui dare risposta (in termini educativi e didattici), tramite osservazione. La situazione generale dei ragazzi era una condizione di handicap di natura psicofisica e sensoriale medio – grave.

Tempi del progetto:

otto mesi di cui quattro ore complessive settimanali.

Obiettivi:

percorso di maturazione e di crescita del gruppo, che consentisse di esulare dalla quotidiana attività dei due centri. L’attività si prefiggeva di raggiungere importanti traguardi in termini relazionali, di coinvolgimento fra utenti e operatori e di formazione di gruppo.

Metodologie:

. Relazione con il singolo e con il gruppo
. Osservazione dell’attività dei singoli e del gruppo
. Obiettivi condivisi e flessibili secondo le diverse esigenze, da concordare con i professionisti del centro
. Giochi di gruppo, esplorazione di percorsi insoliti, attività creative e movimenti ludici, finalizzati al superamento dei propri limiti, nel rispetto di sé e degli altri.


Nome attività:

Educazione Gestuale e Arti Marziali


In cosa consiste:

l’educazione gestuale è un’attività pedagogica finalizzata all’ accrescimento del livello di coscienza dei ragazzi, alla sperimentazione di nuovi modi di essere e di manifestare se stessi in maniera creativa attraverso il movimento, favorendo l’autorealizzazione e l’affermazione di sé all’interno del gruppo.
Il progetto di Educazione gestuale e Arti Marziali si basa essenzialmente sulle cosiddette “potenzialità umane”, ossia, sulla libertà, volontà, fantasia, desideri, aspettative, ecc. considerate le più tipiche e significative dell’esperienza umana, terreno fertile sul quale coltivare le proprie facoltà per crescere e migliorarsi attraverso il confronto con gli altri.
Le Arti Marziali rappresentano una forma particolare di apprendimento che, basandosi essenzialmente sul corpo, la dimensione tattile e imitativa dei gesti, attiva dei processi che favoriscono la capacità relazionale attraverso modalità comunicative non verbali, infine, facilitano l’acquisizione di nuovi modi di pensare, sentire e relazionarsi.

Le tecniche dell’Educazione Gestuale si suddividono in:

. Attività per sviluppare la comunicazione non verbale e l’autocoscienza
. Attività per sviluppare la percezione e la creatività
. Attività per sviluppare la capacità di imitazione dei movimenti e delle posture
. Attività per sviluppare la libera espressione di sé  e il rilassamento psicofisico attraverso il gesto

La struttura del programma di Arti Marziali e di Educazione Gestuale favorisce l’attivazione di processi dinamici all’interno dei gruppi, attraverso:

. regole e norme condivise che orientano il comportamento dei partecipanti attraverso attività di gruppo e tecniche da eseguire a coppie
. uno spazio ludico in cui fare esperienze utilizzando strumenti di vario genere (sfere, bastoni, cerchi, ecc.)
. imitazione dei gesti utilizzando specchi e un conduttore di riferimento;
. favorire la voglia di partecipare e la volontà di mettersi alla prova, proponendo attività che non creino stati d’ansia e tensioni eccessive.

Le attività dell’Educazione Gestuale sono finalizzate a:

. aiutare il soggetto ad apprendere attraverso il contatto fisico con gli altri, a rendere evidenti le conseguenze che derivano dall’utilizzare una determinata tecnica e dall’esercitare una pressione o una trazione nei confronti del proprio compagno;
. favorire la libera espressione di sé attraverso il coinvolgimento e la voglia di fare , invitando i partecipanti ad esprimere la propria aggressività, attraverso le grida e i colpi con pugni e bastoni contro superfici morbide e ampie;

. sviluppare una maggiore coordinazione e “sensitività”  tenendo braccia e gambe in contatto con quelle del compagno;

. favorire la percezione e la comprensione dell’unità mente - corpo utilizzando le tecniche psico-corporee

. Sperimentare e scoprire l’importanza del rilassamento attraverso gli esercizi di respirazione e la roteazione di sfere vibranti su varie parti del corpo.

Nell’Educazione Gestuale si impara ad agire “come se”, si fosse aironi, tigri, serpenti o gru,“come se” si artigliasse, mordesse o colpisse , “come se” si volasse, roteasse o camminasse nel miele, etc., invitando i ragazzi ad immergersi in scenari fantastici per favorire l’identificazione con animali mitologici e reali, in contesti inusuali.

Alla fine di ogni attività proposta è stato utile far verbalizzare l’esperienza dei ragazzi, rispettando e chiedendo rispetto ai compagni su quanto veniva espresso. Dopo le prime volte, questo lavoro  ha entusiasmato moltissimo  i soggetti, infatti, hanno appreso ed elaborato una maniera di comportarsi confacente agli obiettivi da raggiungere, rispettando l’ambiente e i compagni, anche attraverso il saluto di inizio e di fine lezione .

Strumenti e Verifica:

La verifica degli obiettivi condivisi con gli operatori è stato un momento essenziale nell’attività di Educazione Gestuale, infatti, si è cercato di centrare l’attività di osservazione nei confronti delle capacità relazionali dei singoli e il loro coinvolgimento all’interno del gruppo, valutando, di volta in volta, progressi e miglioramenti di ognuno.
Al centro dell’Attività di Educazione Gestuale erano collocati i bisogni formativi dei ragazzi e le loro specifiche necessità di natura sociale, culturale, affettiva, ecc;  la crescita soggettiva non si esauriva con un’attività fine a se stessa e non poteva essere concepita solamente in termini di un semplice “fare qualcosa”. Occorreva cominciare a ragionare in termini di  momenti formativi intenzionali, di  situazioni che favorissero cambiamenti concreti, di realtà con cui relazionarsi e contesti in cui fosse possibile ridiscutersi e confrontarsi. Ecco perché l’importanza della verifica, del discutere insieme gli obiettivi, i risultati raggiunti e i problemi emergenti; senza un confronto attivo con gli operatori, non sarebbe stato possibile realizzare un progetto educativo efficace, che tenesse conto delle situazioni particolari di ognuno e delle variabili soggettive che necessariamente intervengono e influenzano l’esito dell’attività. Attraverso il confronto con gli operatori è stato possibile discutere circa la scelta degli strumenti da utilizzare, modificando gli interventi e l’uso dei materiali in relazione agli stati d’animo e alle condizioni psicofisiche dei ragazzi, in quella situazione specifica .


6.4 Considerazioni sull’attività

 Il corpo è uno strumento ricco di potenzialità e una incredibile risorsa di nuove possibilità, tutte da scoprire; il gioco e l’esplorazione permettono do conoscerlo, indagarlo e portare alla luce le sue meccaniche, gli schemi e le emozioni più profonde. Sono stati presi in considerazione gli obiettivi da raggiungere, come la libera espressione di sé, l’imitazione e il movimento spontaneo, gli aspetti relativi alla conoscenza del corpo e alla presa di coscienza delle sue potenzialità più nascoste. Il corpo è stato esplorato in tutte le sue parti, valutando le  abilità che possiede, le capacità di relazione con l’ambiente esterno, con gli altri, lo spazio e gli oggetti. Le sfere cinesi vibranti, i bastoni corti e i palloni in lattice di varie dimensioni hanno permesso di dare vita  ad un’attività nuova e ricca di inedite possibilità di gioco. Ogni percorso è stato costruito insieme agli operatori nel rispetto delle esigenze e del lavoro svolto nel Centro. L’aspetto predominante dell’Educazione Gestuale è stato quello di utilizzare in maniera creativa i diversi oggetti (strumenti musicali, stereo, ecc.), andando  alla ricerca e alla scoperta di nuovi modi di comunicare. Oltre al linguaggio gestuale è stato valorizzato quello verbale (attraverso grida e vibrazioni particolari) e quello relativo all’espressione di sé mediante la musica, per guidare e favorire la comunicazione di emozioni e stati d’animo di qualsiasi natura. La vibrazione della voce, la libera espressione di sé attraverso i gesti e l’utilizzo di particolari forme di respirazione, hanno permesso di aiutare i ragazzi a mettersi in relazione con gli altri e con l’ambiente circostante. I gesti, le tecniche con le gambe e con le braccia, la musica e gli strumenti musicali, sono serviti ai ragazzi per provare emozioni nuove ed intense; il corpo è servito come asse centrale dove tutte le correnti energetiche si sono raccolte e successivamente dissipate  ed è qui che il gesto unito alla voce ha acquisito un valore diverso, infatti,  non si è trattato di eseguire gesti a comando ma creare movenze significanti, cariche di forza e di espressività. Le conoscenze  elementari sui colori  primari, secondari, complementari, caldi e freddi, poi, ha permesso di arrivare, durante tutto il percorso dell’attività,  a composizioni cromatiche ed emozionali atte a favorire nei ragazzi il processo di liberazione dai blocchi e dai vincoli di natura emotiva e psicologica. Ogni soggetto ha potuto  sperimentare e prendere confidenza con i colori, la loro densità e vivacità e, insieme alla  musica selezionata precedentemente dai membri del gruppo, è stato possibile guidare la loro mano e tradurre in colore un’emozione particolare. Il principale obiettivo dello studio e applicazione del colore è stato quello di riuscire a decifrare e rappresentare la realtà circostante. Il colore è un mezzo diretto che stimola la percezione delle cose; in base ad esso, infatti, è possibile interpretare e riconoscere i vari messaggi che giungono a noi, fin dalla primissima infanzia. L’utilizzo del colore, in sintesi, ha dimostrato di essere uno strumento idoneo all’Educazione Gestuale, per favorire l’espressione di sé e la libera manifestazione delle emozioni più profonde.
L’educazione Gestuale è un vero e proprio gioco corporeo, ossia, un percorso di apprendimento che si è realizzato attraverso un cammino ricco di esperienze sensoriali, intellettive e relazionali, favorendo importanti cambiamenti nell’autopercezione del soggetto e nel suo rapporto con gli altri. Al centro di tutto il progetto c’è il corpo che, inteso nella sua fisicità, media continuamente il sentimento e il pensiero del soggetto, ponendolo di fronte a se stesso , alle sue capacità, ai suoi limiti e ai compagni di gioco. Il ruolo del corpo è quindi quello di soggetto – oggetto del movimento; è lo strumento del gioco inteso nel senso più esteso del termine. Il corpo fornisce i mezzi per giocare (le mani, i piedi, la voce,...) ma è al contempo fonte di gioco e di soddisfazione, attraverso la libera espressione di sé. Quello che più interessava far emergere da questa attività era il fattore gioco. Giocare è un modo naturale per esprimersi ed apprendere; il soggetto utilizza il gioco come un vero e proprio strumento di conoscenza, è un mezzo per andare alla ricerca di sé e ritrovare emozioni cariche di significati comunicativi, sperimentando la gioia di sentirsi ogni giorno più capaci e coinvolti.
L’educazione Gestuale è un’arte raffinata, uno strumento capace di generare un’attitudine positiva nei confronti della vita in generale. Il laboratorio è stato organizzato tenendo presente che il gesto consente di comunicare, ossia, utilizzare il  linguaggio del corpo  per aumentare l’autostima e la fiducia in se stessi, in modo da scoprire e far emergere le potenzialità più nascoste del proprio essere.
 La semplicità di esecuzione delle tecniche di questa disciplina ha permesso di entrare dolcemente in un percorso conoscitivo sia all’interno che all’esterno di sé, usando il corpo come primo ed unico vettore nella comunicazione, lasciando però, lo spazio ad una visione meno rigida delle Arti Marziali e quindi la possibilità di vivere le movenze in completa libertà, adattando le tecniche al proprio modo di esprimersi. Per questo motivo l’attività di Educazione Gestuale è stata definita come un percorso che favorisce l’ apertura di se stessi al mondo e un metodo  praticabile a qualsiasi età, infatti, i vari esercizi vengono proposti come un gioco, assumendo durante le lezioni un aspetto divertente, favorendo facilmente il superamento di timidezze e reticenze. Ogni emozione e pensiero, si riflettono nel corpo come vibrazioni particolari, infatti, l’ obiettivo principale dell’ Educazione Gestuale è quello di riuscire ad esprimere le proprie emozioni, portando alla luce tutte quelle pulsioni energetiche che condizionano il corpo e manifestarle attraverso la voce, la tecnica corporea, il colore e la scelta della musica. L’Educazione Gestuale raccoglie e fa proprie le varie tecniche mutuate, oltre che dalle Arti Marziali, dall’Educazione Psicomotoria e dalle diverse pratiche artistiche e terapeutiche, come la danza, lo yoga, il mimo e l’educazione fisica classica .



6.5 L’organizzazione dell’Attività

Organizzare l’attività di Educazione Gestuale per soggetti in situazione di handicap non è stato affatto semplice e questo perché:
1) I tecnici non sono al corrente delle diverse patologie degli utenti e quindi è difficile creare didattiche ad hoc per ogni partecipante;
2 ) i ragazzi spesso presentano problematiche diverse, quindi, ciò che viene fatto fare crea inevitabilmente delle esclusioni da parte di alcuni, a meno che non si abbassi di molto il livello di difficoltà degli esercizi, generando inevitabilmente forti demotivazioni da parte dei più abili;
3) non sempre i Centri sono attrezzatissimi, per cui, occorre far appello alla fantasia e alla creatività dell’operatore, onde evitare di ripetersi e di annoiare gli utenti;
4)  non tutti amano praticare attività fisica e non tutti desiderano manifestarsi, ballare o esprimersi con i gesti e questo, purtroppo, ha rappresentato un po’ il limite dell’attività da me proposta.
Il concetto che fosse l’allievo ad occupare il posto centrale all’interno della disciplina marziale, mi aveva un po’ illuso circa la possibilità che si manifestasse per tutti i praticanti una naturale inclinazione all’impegno e un entusiasmo spontaneo verso lo studio delle tecniche di Educazione Gestuale. Contrariamente alle aspettative, invece, alcuni ragazzi hanno mostrato una forte antipatia verso il movimento e le Arti Marziali, nonostante fosse lasciato ampio spazio alla libertà individuale e di espressione, attraverso le diverse tecniche e gli strumenti a disposizione. C’è di più: la libertà di espressione ha rappresentato talvolta più un limite che non una risorsa, infatti, avere l’opportunità di effettuare qualsiasi movimento, per qualcuno ha significato non avere nessuna possibilità, creando inibizioni ed imbarazzi di scelta. Parlare di libertà di movimento, di svuotare la mente da qualunque pensiero, di esprimere le proprie emozioni, era completamente inutile, infatti, i primi mesi non mi ero reso conto che questi non erano concetti da apprendere, bensì da maturare internamente attraverso il gioco e l’imitazione dei movimenti. La libertà espressiva doveva scaturire da dentro e non da fuori attraverso suggerimenti e consigli verbali. La libera manifestazione di sé e delle proprie emozioni era la meta da raggiungere e non il punto di partenza.
Mi accorsi allora che dovevo un po’ riordinare le idee e creare un programma educativo flessibile, da poter modificare in base alle diverse esigenze (strutturali, disponibilità di strumenti, stati d’animo dei ragazzi, ecc.).
Era importante valutare bene quale fossero le potenzialità di ognuno, quali obiettivi raggiungere di volta in volta e identificare l’atteggiamento giusto da tenere al fine di coinvolgere il più possibile i ragazzi, anche quelli più reticenti.
Decisi che era fondamentale capire, innanzitutto, quale fosse per ogni soggetto il livello di:
. conoscenza del proprio corpo
. controllo dell’equilibrio
. coordinazione dei movimenti
. controllo della respirazione
. controllo dei movimenti nello spazio.
Per quanto concerne il primo punto, i ragazzi venivano invitati, giocando, ad indicare le varie parti del proprio corpo (testa, occhi, naso, bocca, gambe e braccia) e quelle degli altri. Guardandosi alla specchio, inoltre, i soggetti dovevano riconoscere il proprio corpo (distinguendo il lato destro da quello sinistro) e definire tutto ciò che  indicavano.
Per quanto concerne il secondo punto, invece, i ragazzi venivano invitati a cercare di mantenere l’equilibrio stando un piede solo, camminare sopra una striscia di stoffa disposta per terra senza mettere fuori i piedi, mantenere un libro sulla testa camminando.
La capacità di coordinazione dei movimenti veniva valutata attraverso una serie di giochi semplici e stimolanti come aprire e chiudere le mani in base alla posizione delle gambe, alzare ed abbassare le braccia facendo dei passi specifici, sollevare le ginocchia e i gomiti seguendo un ritmo prestabilito.
La respirazione svolge una funzione fondamentale nello studio delle Arti Marziali ed era importante che i ragazzi imparassero a gestirla e a controllarla in maniera opportuna. I soggetti venivano invitati ad inspirare con il naso, tapparsi le narici ed espirare con la bocca. In seguito, portando le braccia in avanti ad imitare il movimento di spinta, ai partecipanti veniva chiesto di far sentire il suono dell’inspirazione (in fase di caricamento) e quello di espirazione (durante l’esercizio).
La valutazione della capacità di controllo dei movimenti nello spazio, avveniva attraverso percorsi da compiere con tavolette di legno e blocchi, che mettessero il soggetto nella condizione di valutare bene come spostarsi, onde evitare di urtare gli oggetti posti in equilibrio. Altri esercizi erano quelli del lancio delle sfere all’interno di spazi precisi, movimenti controllati di braccia e gambe, passaggi da una situazione ad un’altra, spostamenti rispetto ad un riferimento preciso e posizionandosi davanti, dietro a destra o a sinistra, seguendo comandi verbali .    
 Dopo questa prima fase di valutazione delle abilità possedute dai ragazzi, era importante impostare un programma di studio che fosse motivante e gratificante, divertente e mai ripetitivo, non troppo complesso ma neppure banale.
Se l’attività veniva caricata di esercizi troppo sofisticati, i ragazzi rischiavano di demotivarsi e, soprattutto, che si creassero inutili stati d’ansia e momenti di tensione eccessiva. L’attività doveva andare bene a tutti senza però dover abbassare troppo il livello di difficoltà della pratica; ognuno poteva trovare una propria gratificazione, attraverso un fare che era sì strutturato, ma non in maniera così rigida da impedire di rispettare i ritmi di apprendimento di ciascuno. Lo studio effettuato singolarmente (attraverso le forme) era particolarmente indicato, comunque, non doveva in nessun caso mancare l’opportunità di esercitarsi in coppia, per confrontarsi, misurarsi con gli altri e correggersi reciprocamente.
Il programma di studio doveva prevedere attività divertenti, semplici ma stimolanti, capaci di favorire apprendimenti reali in tempi brevi. Per ottenere ciò dovevo passare al vaglio tutte le conoscenze relative agli stili del Kung Fu classico, del Karate, dello Judo, dell’Yi Quan, ecc., eliminando le movenze coreografiche che richiedevano un’eccessiva capacità atletica e una coordinazione motoria avanzata. Anche le lunghe sequenze tecniche tipiche delle forme del Wu Shu moderno dovevano essere ridimensionate, semplificate e manipolate per renderle accessibili a tutti. Il lavoro è stato quindi di semplificazione e smembramento, creando nuove sintesi ed innesti particolari, in modo da presentare ai ragazzi un “pacchetto” di attività appetibile e stimolante. Le attività dovevano:
. Divertire e motivare: per ottenere ciò, gli stili di imitazione degli animali e le tecniche del Drago e dell’Ubriaco mi sono tornate utilissime, infatti, ai ragazzi piaceva provare ad imitare le varie movenze, come l’artiglio dell’aquila, la zampata della tigre, gli attacchi del serpente, ecc. Per introdurre gli stili di imitazione sono state utilizzate sequenze di immagini, fotografie e disegni, in modo da favorire il più possibile l’immedesimazione con i diversi animali e la comprensione delle posture assunte da ognuno di essi. Era importante che i ragazzi si rendessero conto degli atteggiamenti aggressivi del leopardo e della tigre, della leggerezza della gru, della forza dell’orso e della repentinità del serpente, verbalizzando le differenze riscontrate dal confronto fra le varie immagini.  
  . Favorire l’apprendimento di movimenti e posture: questo traguardo è stato raggiunto selezionando le movenze caratteristiche degli stili interni del Kung Fu tradizionale, che sono facilmente riproducibili e permettono, tra le altre cose, di lavorare a coppia e utilizzare strumenti come bastoni e sfere. L’Yi Quan è stata la disciplina alla quale mi sono maggiormente riferito, prendendo in considerazione il seguente programma tecnico:
1) posizioni statiche, tenendo i piedi paralleli, le gambe leggermente aperte e le ginocchia un pochino flesse, invitando i partecipanti ad immaginare di stringere con le braccia una grande sfera, morbida e fragile. La schiena doveva necessariamente rimanere diritta e la testa sollevata, cercando il più possibile di non perdere il controllo della posizione delle braccia e delle gambe. L’obiettivo era quello di riuscire ad assumere una corretta postura (in base all’oggetto immaginato) e di aumentare la capacità di controllo del proprio corpo.
2) Movimenti dolci con le braccia e con le gambe, venivano eseguiti immaginando di accarezzare, di fluttuare nell’aria, di muoversi all’interno di scenari nuovi ed insoliti. Le dita delle mani dovevano aprirsi e rilassarsi, la testa si muoveva in base agli spostamenti del corpo, le spalle e le braccia assecondavano gli spostamenti del busto. Tutto questo serviva a favorire il più possibile la capacità di rilassarsi attraverso il movimento spontaneo e l’immaginazione era lasciata libera di esprimersi.
3) Le camminate guidate, invece, venivano eseguite immaginando il passo pesante di un vecchio ubriacone, cercando di spostare il peso da una gamba ad un’ altra ed ammortizzando la forza con una leggera flessione delle ginocchia. Lo scopo era quello di riuscire a controllare gli spostamenti del busto e della testa in base ai cambiamenti di peso e alle oscillazioni improvvise.
4) I movimenti rilassati ed esplosivi servivano a far prendere coscienza al praticante della possibilità di esprimere la forza, la rabbia e le tensioni attraverso una scarica di colpi, accompagnati da grida e cambi di peso. I ragazzi venivano invitati a non irrigidirsi quando scagliavano in avanti le braccia con forza e a coordinare tutto il corpo durante lo svolgimento dell’esercizio. Talvolta ai ragazzi venivano forniti bastoni di plastica e si richiedeva di colpire con tutta la forza dei grossi sacconi imbottiti, immaginando di aggredire tutto ciò che è spiacevole, antipatico e avvertito come ostile. Le grida, i colpi con i bastoni e le spinte con le braccia aiutano i ragazzi a liberarsi dalle tensioni muscolari, emotive e psicologiche, favorendo successivamente, una condizione di benessere e una sensazione di rilassamento fisico e mentale.
5) Gli esercizi delle mani incollate servono a far prendere coscienza ai praticanti dei movimenti del compagno. In pratica, i ragazzi vengono disposti a coppie, devono tenere i polsi o gli avambracci sempre in contatto e cercare di toccare il busto, spingere o tirare via il compagno, facendogli perdere l’equilibrio. Il soggetto, se vuole evitare di farsi spostare, deve necessariamente assecondare i movimenti dell’avversario e cambiare assetto del corpo in relazione al tipo di forza esercitata, modificando la traiettoria dei colpi. La peculiarità di questo esercizio sta nel fatto che i ragazzi vengono educati a “sentire” il compagno, a percepire i suoi movimenti attraverso il tatto e non, come spesso avviene nelle Arti Marziali, attraverso la vista. Avvertire i movimenti del compagno vuol dire reagire in maniera opportuna per rendere inoffensivi attacchi come spinte, strattoni, leve, ecc. Nonostante la difficoltà concettuale di questo esercizio i ragazzi si sono divertiti moltissimo a sperimentare nuovi canali di comunicazione non verbale e forme diverse di interazione con gli altri.
6) Le tecniche a coppie venivano utilizzate per esercitare la capacità di spingere via, tirare a sé, abbassare le braccia del compagno e sollevarle. Tirare, spingere, abbassare e sollevare sono i principi che stanno alla base della maggior parte delle Arti Marziali ed è stato interessante inventare forme diverse per riuscire ad esprimere questi concetti fondamentali. Gli strumenti maggiormente utilizzati sono stati i bastoni corti, le sfere grandi in lattice, i cerchi e i palloni di spugna.
7) Gli esercizi di equilibrio venivano svolti prendendo spunto dalle tecniche della gru, infatti, imitando i movimenti delle ali, i ragazzi dovevano cercare di rimanere in equilibrio su una sola gamba. Un altro esercizio consisteva nel tenere una pallina da tennis sotto il piede, rotearla più volte e lanciarla al compagno davanti, senza colpirla con la punta.
8) Gli esercizi di respirazione venivano eseguiti invitando i praticanti ad effettuare le movenze, enfatizzando l’ inspirazione nelle fasi di raccoglimento e l’espirazione durante l’ estensione delle braccia o delle gambe. L’inspirazione doveva necessariamente avvenire tramite il naso mentre l’espirazione veniva eseguita attraverso la bocca, rilasciando l’aria gradualmente. Per favorire l’apprendimento di questo esercizio, i ragazzi venivano disposti in cerchio e muniti tutti di una cannuccia. Al centro è stata disposta una bacinella con acqua e sapone e a turno, ogni partecipante doveva inspirare forte col naso ed emettere l’aria con la bocca, attraverso la cannuccia immersa nel contenitore. La formazione o meno di bolle sulla superficie dell’acqua indicava se l’esercizio era stato eseguito correttamente oppure no .
9) Gli esercizi di rilassamento sono stati svolti selezionando musiche particolari e invitando i ragazzi a sceglierne una, affinché potessero utilizzarla per distendersi fisicamente e lasciarsi andare. I ragazzi venivano fatti sdraiare sui tappetini in posizione supina, in un primo momento e prona dopo circa dieci minuti. Gli operatori, utilizzando le sfere cinesi, massaggiavano il corpo dei ragazzi, i quali, avvertendo le vibrazioni delicate della pallina metallica posta all’interno degli strumenti, si rilassavano completamente fino quasi ad addormentarsi. Un’altra tecnica utilizzata è stata quella delle sfere grandi in lattice, le quali, utilizzate come sostegno per la schiena e per i glutei, permetteva ai partecipanti di distendere la spina e di aprirsi completamente.
 Favorire la libera espressione di sé: attraverso il movimento improvvisato, sentito in quel preciso momento grazie ad una musica o ad una situazione particolare e attingendo  alle conoscenze tecniche acquisite con l’attività, il soggetto doveva essere in grado di lasciarsi andare, di manifestare se stesso con il movimento, le posizioni statiche e gli spostamenti. Anche l’uso del colore mi ha permesso di aiutare i ragazzi ad esprimersi, infatti, a seconda di ciò che i partecipanti volevano comunicare, utilizzavano una determinata tempera e la spandevano con le mani con più o meno delicatezza. La scelta del colore e l’enfasi dei movimenti facevano da spia al tipo di emozione che i ragazzi volevano trasmettere, come dolcezza, rabbia, euforia, arroganza, gioia, dolore, ecc.
 Creare un ambiente idoneo : senza uno spazio adeguato era impossibile dar vita ad un’ attività significativa; occorreva una stanza raccolta, dove fosse possibile togliere le scarpe per favorire il contatto con il terreno, occorrevano gli specchi per controllare le posizioni e i movimenti, infine era importante poter regolare l’intensità della luce per favorire il rilassamento e la concentrazione.
 Per fortuna, da un punto di vista strutturale i due centri erano forniti benissimo, inoltre, fondamentale è stato l’intervento dei ragazzi che hanno pensato bene di disporre gli oggetti e gli strumenti nella maniera a loro più consona, in modo da creare un contesto a loro congeniale per quel tipo di attività.
Credo che questi obiettivi siano stati raggiunti anche se, ripeto, l’impatto con i ragazzi dei due Centri ha rimesso in discussione molte convinzioni che ormai davo per scontate, circa la bellezza, il fascino e le emozioni positive che le Arti Marziali devono necessariamente trasmettere ai suoi praticanti. Non è stato così, infatti, alcuni ragazzi hanno preferito non prendere parte all’attività e, se costretti, si muovevano in maniera disinteressata, forzata e priva di qualunque entusiasmo. Credo che l’educazione marziale, o gestuale sia un metodo interessante da provare e sperimentare con le persone in situazione di difficoltà ma deve essere considerata soltanto per quello che è, ossia, uno strumento, come tanti, che può essere utile in alcuni casi e totalmente inutile in altri, comunque sia, una tecnica educativa che non può certo pretendere di essere universale e insostituibile.


Conclusioni

E’ soltanto un viaggio

“E’ soltanto un nome”… con queste parole si apre il paragrafo conclusivo del libro di B. Lee “Jeet Kune Do”, in cui parla della necessità insita nell’uomo di credersi uno strumento nelle mani di altri, al fine di liberare se stessi dalla responsabilità delle proprie azioni. Le persone, spiega Lee, spesso non hanno la forza sufficiente per credere in se stesse e delegano tutto ad un capo, ad un Dio o alla società, finendo per credere di più in ciò che gli altri dicono che in quello che riescono a sperimentare da soli.  Quando l’individuo esprime se stesso, quando può mettere a nudo le proprie potenzialità, si manifesta il processo creativo che nasce e si sviluppa dal talento, dalle doti soggettive e dalla volontà di affermazione. Il significato del Jeet Kune Do sta nel fatto che, per riuscire a capire gli altri prima dobbiamo fare chiarezza in noi stessi e per raggiungere questa meta occorre conquistare l’autoconoscenza. Le Arti Marziali permettono di conoscere se stessi e i propri limiti; sono un mezzo che consente di autoesplorarsi e comprendersi in maniera profonda . Non importa il nome della disciplina, le formalità non sono essenziali perché le uniche cose che realmente contano sono la sincerità nei confronti di se stessi e la volontà di migliorarsi.    
Le Arti Marziali, a conclusione di questo lavoro, sono paragonabili ad un viaggio che altro non è se non un percorso formativo, un itinerario spesso accidentato, irto di rischi e pericoli. Un cammino difficile che conduce alla consapevolezza di sé e, allo stesso tempo, ad una radicale trasformazione della propria identità, percorrendo sentieri avventurosi e suggestivi, alla continua ricerca delle proprie radici più profonde. Un percorso avventuroso che conduce alla conoscenza, alla costruzione di se stessi e della realtà circostante, superando prove e difficoltà che aiutano a crescere e maturare.  
Le Arti Marziali sono, per un certo verso, un viaggio fantastico e di  immaginazione, dove non mancano riferimenti mitologici e figure che appartengono al mondo della fantasia. Questo viaggio, per certi aspetti mentale, è un’esperienza che conduce alla libertà ma per arrivare a sperimentarla, occorre camminare, affermare la propria identità e superare tutte le difficoltà del caso. Spesso il sentiero percorso si dirama, si aprono nuove possibilità, nuovi percorsi e il cammino diviene un vagabondare e un errare, un pellegrinaggio che conduce verso terre inesplorate e sconosciute. Questo vagare, anche senza una meta certa, rappresenta  un’occasione irrinunciabile per l’artista marziale che vuole arrivare a costruirsi una propria identità ed esperire quella pienezza dell’essere che è permessa soltanto attraverso un’attenta ricerca delle proprie leggi e della propria natura .
Le Arti Marziali stimolano la capacità di gioire della vita, restituendo spazio alla mente e stimolando i sensi; il mondo interiore viene appagato e risponde espandendosi con forza in tutte le situazioni della vita. La fantasia, la creatività e il gioco alimentano questo processo di auto - miglioramento  e di perfezionamento interiore. Lo scopo del viaggio è anche quello di incrementare l’energia creativa del praticante superando i limiti del proprio corpo, attraverso l’esercizio e l’impegno costante.
Il viaggio formativo attraverso le Arti Marziali consente uno sviluppo permanente delle proprie facoltà , superando i condizionamenti e i limiti imposti da se stessi e da chi ci sta intorno. Il fine è quello di attivare il processo di realizzazione creativa, in grado di trasformare e di evolvere se stessi in maniera completa, superando la soglia che separa la potenza dall’atto, attraverso una sintesi dinamica di autoconoscenza e autorealizzazione .
Quando iniziai la pratica delle Arti Marziali, da bambino, credevo che tutta la conoscenza da acquisire si riassumesse all’interno degli schemi di movimento contenuti nei Kata; dopo alcuni anni di pratica con il Kung Fu Wu Shu, mi resi conto che le Arti Marziali sono un percorso incerto e disorientante e che in questo sta la sua grandezza e il suo limite. Grandezza perché è il praticante che può costruirsi, da solo, il proprio percorso formativo; limite perché, trovandosi davanti infinite possibilità di scelta, è come se in realtà il soggetto fosse innanzi al nulla, dove tutto può portare ovunque e in nessun posto. Dopo vari tentativi, salite e discese, soste e interruzioni, il mio percorso formativo con le Arti Marziali si è incrociato con quello universitario, saldando le mie conoscenze tecniche con quelle relative alla filosofia, alla pedagogia, alla psicologia e all’ antropologia, sperimentando nuove possibilità e ambiti di intervento fino ad allora sconosciuti. Ho iniziato così a proiettare le mie conoscenze con i ragazzi in situazione di handicap, rimettendo costantemente in discussione il mio modo di intendere, costruire e concepire la realtà delle cose e delle Arti Marziali stesse.
Le Arti Marziali sono un cammino, privato, con una meta il più delle volte ideale, che costringe a vagabondare, a sperimentare e a fallire, a ricominciare e ad apprendere dai propri errori. Un percorso con una partenza incerta ed un arrivo mai definitivo…  



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