sabato 8 agosto 2015

Il corpo nelle pratiche pedagogiche: spunti operativi per il pedagogista


La dimensione corporea

Nella professione del pedagogista non è possibile centrare l’attenzione unicamente sugli aspetti intellettivi del soggetto, perché questo cozzerebbe con la definizione stessa di “pedagogista”.
L’esperto di processi formativi ha infatti il dovere professionale di favorire la crescita e la maturazione armonica dell’individuo, in tutti i suoi aspetti, quindi, anche il corpo riveste un ruolo fondamentale nel cammino evolutivo dell’individuo. Senza una giusta considerazione della dimensione corporea e della sua centralità  all’interno dei progetti formativi, non è possibile organizzare percorsi che consentano realmente di far emergere le potenzialità individuali.
Negli ultimi anni stanno sorgendo sempre più numerose, ricerche che hanno per oggetto il corpo e la sua relazione con la mente; dalla psicologia alla pedagogia, dalla medicina psicosomatica all’antropologia, il corpo è sempre più sotto analisi, alla ricerca di un nuovo modo di comprendere in una diversa accezione questo delicato rapporto fra corporeo ed incorporeo. Il dualismo cartesiano è entrato quindi nettamente in crisi; parlare di mente senza considerare la dimensione corporea, risulta oggi del tutto fuori luogo. L’ottica secondo la quale la dimensione corporea che la nostra tradizione intellettualistica vorrebbe completamente piegata alla volontà della psiche, è stata ridimensionata e modificata, dimostrando come i due piani non siano realtà separate da disporre in due classi gerarchiche distinte ma entità inscindibili che operano in sinergia costante.
Il corpo non rappresenta più quindi, la “marionetta” da sottomettere ai comandi della volontà ma diviene a tutti gli effetti il luogo del sentire e dell’espressione delle emozioni, rappresentando il confine tra noi ed il mondo in cui avviene l’incontro tra le gli avvenimenti e la nostra interiorità.
Già da diversi anni gli analisti di stampo bioenergetico (si pensi alla scuola di Lowen) hanno dimostrato come sia possibile intervenire sulla psiche e sulle emozioni più profonde dell’uomo, partendo proprio dai blocchi energetici che si manifestano a livello fisico, come contratture, rigidità, dolori, ecc. Il corpo diviene specchio della dimensione più intima dell’uomo e lavorando con il contatto fisico e gli esercizi di bioenergetica, il terapeuta riesce ad entrare in sintonia con il paziente, aiutandolo a modificare gli aspetti patologici del suo comportamento.
Corpo e mente forniscono insomma, differenti livelli di conoscenza: una sensibile, legata alle informazioni che provengono dagli organi di senso; l’altra in cui la mente organizza e struttura le informazioni di cui è in possesso secondo schemi oggettivi, razionali, generali ed astratti.
Ecco allora che anche in ambito pedagogico l’ottica subisce una nuova curvatura perché adesso, educare significa organizzare percorsi didattici che partano dalle esperienze del corpo vissuto/vivente nella direzione di apertura ed incontro con il mondo esterno, di ciò che si trova oltre la fisicità soggettiva: dall’esplorazione dello spazio corporeo, all’orientamento nello spazio e nel tempo, all’esplorazione dei propri vissuti emotivi, delle proprie memorie, delle tracce che ognuno descrive nel mondo così come in se stesso, fino alle tracce segnate da altri nei loro propri corpi, frutto di diverse esistenze trascorse[1].
I corpi rappresentano l’impronta della differenza soggettiva, a partire da quella di genere, attratti l’uno dall’altro dal desiderio di scoperta, fusione, di cura e conoscenza, che rientrano a pieno nella sfera del percorso educativo; un desiderio di conoscere che genera sensi, dona significati, implica responsabilità nei confronti di se stessi e degli altri. Educare significa allora sensibilizzare il soggetto al sentire, a riconoscere i propri sentimenti, a comunicare non soltanto con le parole ma con diverse forme espressive, come il gesto, lo sguardo, l’azione spontanea, ecc. Ecco che allora l’emozione si fa azione all’interno delle diverse forme di socializzazione adeguate alle varie capacità, possibilità e strategie espressive di ciascuno: è all’interno della scuola che l’insegnante riesce a proporre modelli validi e trasmettere strategie e tecniche che consentono all’allievo di raggiungere autostima ed autonomia. Azioni e forme diverse di socializzazione possono quindi essere sperimentate andando alla ricerca di nuovi significati ed orizzonti di senso, grazie soprattutto alle tecniche ed alle strategie tipiche della meditazione, contemplazione, training autogeno, yoga, ecc.
Insomma, grazie alla dimensione intersoggettiva, alla sperimentazione dei diversi linguaggi gestuali, è possibile scoprire il binomio corpo-sentire in una nuova ottica che fornisce nuove declinazioni, collegate non soltanto alla dimensione dell’irrazionalità e della passionalità, ma anche a quella del pensato e riflettuto, frutto di una personale rielaborazione dei diversi vissuti.
Sperimentare la propria gestualità ed il movimento del corpo nello spazio diventa un modo di percepire ed elaborare il proprio essere nel mondo con gli altri, sia nella direzione dell’azione, cercando di sapere e di saper fare, sia in quella della meditazione, in cui si lascia spazio alla dimensione del non sapere del corpo, del possibile, all’interno di un tempo dilatato e di uno spazio silenzioso, all’interno dei quali è possibile mettersi tra parentesi e sospendere il giudizio sul mondo, prendendone momentaneamente le distanze[2].
E’quindi possibile avvicinarsi alla danza, anche in un contesto scolastico, ma lontani dalla sua valenza tradizionale che vuole il movimento codificato e lineare; può essere una gestualità scombinata, fuori dagli schemi, poco aggraziato e spigoloso, unita alla moderazione ed al rilassamento dello yoga o di altre tecniche di meditazione orientale, fino a giungere alla negazione del movimento nella totale immobilità della postura, richiesta dalle pratiche contemplative.
Nell’educazione alla danza o in altre pratiche motorie, l’oggetto in questione non è tanto l’apprendimento di gesti aggraziati che potenzino l’apparato muscolare o che migliorino le prestazioni del corpo, quanto piuttosto una formazione attraverso il movimento che mira alla conoscenza ed al riconoscimento del proprio schema corporeo ed alla consapevolezza delle valenze comunicative e simboliche del corpo, immergendo la pratica motoria nel contesto dell’educazione alle arti, in modo da avvicinare il sistema valore-simbolo a quello degli altri linguaggi artistici.
Questo modello, possiede una curvatura del tutto particolare perché si appropria degli insegnamenti che provengono da culture e filosofie differenti ed in particolare da quelle orientali che fondano la loro riflessione proprio sulla sintesi degli opposti e sul loro dinamico intreccio verso un temporaneo ma necessario equilibrio, inteso come fonte di energia vitale dell’individuo e dell’intero universo.
Le vie ascetiche orientali, o comunque le pratiche psicofisiche maturate in India e in Cina, possono insegnarci tanto mostrandoci l’importanza dell’esperienza nei percorsi di conoscenza, laddove il termine esperienza si accosta in modo nuovo a quello del pensiero, al vivere i propri stati di coscienza allo scopo di migliorare la qualità della vita ed il proprio essere nel mondo con gli altri.
Da un punto di vista pedagogico è importante constatare che il concetto di azione e non azione rappresentano gli aspetti fondanti della costruzione della conoscenza in quanto incontro fra soggetto e mondo. Leggendo il Tao te Ching[3]ci accorgiamo che il concetto di non azione taoista non significa assolutamente inerzia o passività di fronte al mondo della vita, anzi, rappresenta invece l’espressione di una sintonia, di una concordanza e condizione che, secondo questa visione della realtà, rappresenta il più alto potenziale di un corretto esercizio interiore, volto a riscoprire l’importanza della realizzazione di una mente semplice, chiara, pulita ed essenziale. La Via, tanto ricercata dai saggi e dai filosofi orientali, rappresenta la metafora con la quale si vuole aiutare l’uomo ad accostarsi serenamente a quel processo di cambiamento e di crescita in se stessi, progressivamente, passo dopo passo, attraverso un graduale processo di autoeducazione.
L’attività meditativa tipica delle tradizioni orientali propongono modalità di conoscenza e di educazione attraverso il corpo nelle quali azione e non azione sono compresenti completandosi a vicenda: la meditazione non è più in tal senso, un modo di conoscere opposto a quello dell’azione bensì l’altra faccia della medaglia che si traduce, nel corpo, in tensione e rilassamento, in movimento e stasi, silenzio e suono. La funzione fondamentale di questa pratica è quella di mettere l’unità somatopsichica nella condizione che permetta un cambiamento a ritroso nell’intenzionalità del soggetto, aprendo il cuore alla possibilità del cambiamento. In tal senso il cuore è da considerare, in maniera simbolica, come quel nodo che concentra la globalità dell’esistere, in cui misteriosamente si trova la radice della coappartenenza tra mentale, cognitivo, intenzionale e corporeo. Il cuore, in quanto patria dell’emozione, di un’intelligenza emotiva ed affettiva, rappresenta il crocevia tra l’attribuzione di senso e la percezione del mondo. Come dire: ogni cambiamento della propria esistenza non è soltanto di natura cognitiva ma è pure determinata dalle tonalità emotive, che investono la totalità dell’essere, fatta di corpo, affettività ed intenzionalità.
  Non può esservi, in sintesi, cambiamento e tanto meno educazione, se non si percorrono vie che tengano in grande considerazione non solo la conoscenza di tipo razionale ma anche quella estetica, ponendo l’accento sull’importanza dei sentimenti e delle emozioni nei processi di significazione del mondo. Dal punto di vista delle filosofie orientali, l’azione non rappresenta soltanto il movimento ma si determina anche come stasi; l’immobilità rappresenta dunque una via, una strategia che non può essere considerata neutra in campo educativo.
Ma il corpo può anche divenire il veicolo della sofferenza e del dolore; il corpo che invecchia, il corpo che si ammala, diventa allora testimonianza e metafora di un corpo vissuto/vivente che lotta e si ribella al suo destino di malattia e di morte, aprendosi alla dimensione dell’amore e dell’esperienza limite, che lo vedrà negato e sconfitto. La consapevolezza della prossimità della morte, apre spiragli intrisi di connotazioni formative, obbligando l’individuo a riformulare il proprio progetto esistenziale, una rivisitazione del proprio essere che dal piano della salute deve necessariamente proiettarsi su quello della malattia. Fra difficoltà e dolori il soggetto è costretto a sperimentare cambiamenti, riprogettando la propria esistenza anche a costo di cadute, smarrimenti e di abbandoni.  
La malattia e di conseguenza la morte, rappresentano quell’esperienza limite, in cui la sostanza, la fisicità del corpo scivola progressivamente nell’etereo, nell’invisibile, verso tutto ciò che si contrappone alla dimensione concreta dell’esistere ed alla sua progettualità di vita futura[4].

Le emozioni e la loro funzione

La nostra cultura ha sempre considerato la dimensione intellettuale prioritaria e superiore rispetto a quella fisica. Il lavoro intellettuale ha sempre goduto un maggiore prestigio rispetto al lavoro manuale, come ad esempio quello artigiano; negli ultimi anni comunque, complice la cultura americana, il corpo ha subito un nuovo passaggio di grado, infatti, grazie allo sport competitivo, oggi l’individuo abile nel basket o nel football, non ha niente da invidiare al medico o all’ingegnere, anzi. Tuttavia, anche in questo caso puntare il riflettore solamente sulla dimensione fisica, strutturata solamente in termini di efficienza, funzionalità ed estetica, porta con sé tutta una serie di altre problematiche, tipiche della nostra epoca, che vanno dalla non accettazione di sé, all’anoressia, alla bulimia. Il punto cruciale è proprio questo: focalizzare l’attenzione su quella linea di confine che unisce e separa allo stesso tempo il corpo, con la mente ed il mondo esterno: l’emozione. Le emozioni rappresentano le reazioni fisiologiche a determinate situazioni o stimoli esterni e  l’uomo spesso, troppo preso dalle distrazioni quotidiane, difficilmente riesce a distinguerle, riconoscerle e gestirle in maniera costruttiva. Le emozioni per l’uomo moderno sono un qualcosa del tutto sconosciuto e di difficile identificazione; sono un universo sommerso che condizionano i nostri rapporti interpersonali, con i colleghi, gli amici, il partner e sono tra l’altro, alla base della nostra disponibilità ad apprendere in maniera significativa. Le nostre esperienze di vita sono supportate dalle emozioni che fungono da motore motivazionale. E’ l’emozione che rende più o meno pregnante e significativa un esperienza ed è quella che permette di lasciare tracce nella nostra esistenza in maniera determinante o superficiale. L’emozione dà il tono all’esperienza e la forza con cui  rimarrà impressa nella mente, l’apprendimento di determinate nozioni. Come chiarisce Goleman[1], ogni individuo è dotato di abilità intellettuali ed emozionali, che non operano su piani distinti ma interconnessi che lavorano in sinergia nelle diverse esperienze di vita umana: dal piacere al desiderio, dalla cognizione al processo di formazione e di apprendimento.
Ecco che allora questa visione condiziona anche l’attività dell’insegnamento, che non può essere semplicemente fornito ma deve essere necessariamente costruito attraverso la mediazione di una relazione che sia significativa non soltanto sotto il profilo dei contenuti da trasmettere ma anche da un punto di vista affettivo perché senza la forza delle emozioni condivise fra docente ed allievo, non si determina nessun apprendimento duraturo e realmente significativo.  
Un insegnamento sterile che si focalizza unicamente sulla trasmissione di contenuti dall’emittente al ricevente, può solo dar luogo ad apprendimenti mnemonici, che sicuramente svaniscono subito dopo la fase della verifica.
E’ logico quindi cominciare a ripensare i processi formativi, ribaltando quella che da sempre è stata la consuetudine dell’educatore: reprimere gli impulsi emotivi, la vitalità, in modo da favorire l’apprendimento. Tutto sembra concordare con questa filosofia, ne è una prova tangibile la richiesta di immobilità dietro al banco di scuola, nella convinzione che solo attraverso la repressione delle cariche vitali fosse possibile attivare qualsiasi forma di apprendimento. Nuovi settori di ricerca indicano invece la possibilità/necessità di uscire da questa ottica, per adottare un diverso modo di lavorare, dove l’emozione non è più da reprimere ma da formare, considerato motore essenziale della pratica educativa. La crescita e la maturazione degli individui sono sempre state considerate in relazione al dominio delle passioni ed alloro progressivo di scostamento, a favore dell’attività cognitiva, che deve portare gradualmente ad una piena e totale razionalizzazione delle cose e dei fatti. Le attività di drammatizzazione e di gioco, le ore dedicate alla creatività e manipolazione, vengono del tutto abbandonate quando il bambino dalla materna, fa il suo ingresso nella scuola primaria. Tutto si gioca dietro il banco, il corpo è ormai dimenticato, si deve solo ascoltare, memorizzare e ripetere. Le moderne neuroscienze hanno ormai ben evidenziato come l’acquisizione dei saperi avvenga attraverso dal rapporto che si stabilisce tra il sistema cerebrale umano e l’organizzazione delle informazioni, sotto forma di stimoli, che derivano dall’esperienza che il soggetto fa del mondo in cui vive. Il messaggio ha una duplice valenza: da una parte tiene in considerazione la struttura di base genetica, che è unica per ogni individuo, dall’altra il particolare legame che essa stringe con i diversi vissuti.
Partire dal corpo significa recuperare la sensorialità, l’emozione che è alla base del percorso di apprendimento, dando nuovo significato al sentire e al percepire. L’ottica Spinoziana per cui mente e corpo sono un unico e medesimo individuo, concide con le dottrine orientali che vedono l’uomo come una sintesi mente-corpo e che solo una pedagogia negativa può scindere queste due parti, rendendo l’uomo incompiuto ed infelice. Tornare ad essere con il proprio corpo vuol dire allora cercare, attraverso il gioco, il teatro, di sperimentare, riconoscere e gestire al meglio le proprie emozioni, puntando i riflettori non più sulla sola produzione cognitiva, ma anche sulla dimensione gestuale e recitativa, dove sia possibile sperimentare come i due piani azione/pensiero siano intimamente connessi, grazie alla mediazione del “sentire”.
Ma cosa è allora, un’emozione? La Collacchioni, attraverso un excursus storico, dimostra come da sempre essa sia stata considerata dai maggiori pensatori una colonna portante della rappresentazione della vita morale delle persone. Tradizionalmente le emozioni hanno a che fare con alcune manifestazioni del comportamento, reazioni deleterie e disfattiste che si contrappongono alla luce della ragione[2]. Oggi questa teoria non convince più e ad una analisi più attenta ci accorgiamo come i comportamenti dettati dalle emozioni, come paura, rabbia, aggressività, ecc., siano parti costitutive del nostro patrimonio genetico e siano sopravvissuti in tutti questi millenni perché hanno aiutato l’uomo a sopravvivere ai pericoli e ad adattarsi a circostanze diverse. L’emozione ha la funzione di collegare il nostro corpo al mondo, informando immediatamente della situazione nella quale siamo coinvolti. Se il modello ipotetico/deduttivo al quale la nostra mente si ispira risulta essere lento e sempre mediato, l’immediatezza dell’emozione avverte il corpo affinché reagisca nel minor tempo possibile. La razionalità ha sempre avuto comunque il monopolio sulla vita emotiva, confermando la supremazia dettata dalla filosofia della necessità di dominio della vita interiore; tuttavia la dottrina dell’equilibrio e del giusto mezzo, tipica del pensiero aristotelico, ha messo in evidenza come non debba esserci antagonismo tra i due aspetti dell’essere umano (cuore/mente), ma sinergica cooperazione. 
Il concetto di intelligenza che da sempre ormai domina nella nostra cultura, si basa sul presupposto che questa facoltà sia una struttura monolitica e traducibile in un punteggio, risultante dal rapporto età mentale/età cronologica.  Al di là dell’utilizzo e della sua efficacia come strumento in ambito neuropsicologico per la diagnosi ed il recupero di specifiche patologie mentali, questa visione dell’intelligenza risulta essere superata perché considerata di limitata portata e frutto di una visione troppo riduttiva della mente umana. Gardner parla di forme mentali, annunciando come in ogni essere umano vi siano diverse forme di intelligenza suddivisibili in fattori; ogni fattore è il risultato della interazione fra substrato biologico e strutture psicologiche. Si può essere quindi intelligenti in molti modi, per cui, le misure classiche dell’intelligenza umana, non danno un valore oggettivo ma semplicemente indicano il livello di conformismo sociale raggiunto dall’individuo.
Successivamente Goleman arriverà a parlare di intelligenza emotiva, necessaria per raggiungere il successo e la felicità; basata essenzialmente sulla capacità di ascolto, la comprensione e l’abilità nel dare e nel ricevere, essa aiuta a riscoprire il senso della meraviglia e della sorpresa, garantendo la piena autonomia decisionale dell’individuo[3].
Il senso di autonomia, di fiducia nelle proprie capacità, sorge e si matura progressivamente negli anni, a partire dalla relazione che il bambino instaura inizialmente con la madre, poi con i familiari e con i compagni; un bambino amato e voluto, è un bambino che da grande saprà amare e ben volere al prossimo, ecco perché è importante che le figure adulte di riferimento, come insegnanti, genitori e parenti, sappiano alimentare e potenziare la fiducia personale. L’amore che un bambino riceve, è lo strumento necessario per vincere le paure nei momenti di maggior fragilità ed è la chiave per mantenere l’equilibrio e la stabilità nelle situazioni difficili.
Un bambino sicuro è un bambino che sa esplorare autonomamente l’ambiente circostante, regolando il suo comportamento attraverso l’organizzazione delle proprie emozioni, certo del legame affettivo che lo lega alla madre. E’ la madre che deve fungere da base sicura, in grado di trasmettere al figlio il senso di conforto, protezione e solidarietà, senza la quale si corre il rischio di compromettere lo sviluppo dell’emotività, della motricità e del linguaggio.
Per il pedagogista saper riconoscere le emozioni e gestirle al fine di convogliare energie, forze e risorse in modo costruttivo, rappresenta una sfida importante ed una competenza da formare e valorizzare sempre di più.



Il concetto di alfabetizzazione emotiva è alla base dell'intelligenza emotiva, ossia, di quell'abilità che tende ad emergere accanto all'intelligenza cognitiva, rivendicando un proprio statuto ed una propria collocazione all'interno della realtà umana e del suo rapporto con il mondo sociale.
L'intelligenza non essendo più riconducibile ad una dimensione monolitica, assume oggi connotati diversi, ossia, una pluralità di tratti e di sfaccettature che mettono in crisi il concetto tradizionale di intelligenza, intesa come valore, come numero estrapolato dall'utilizzo di una scala di valutazione.
Howard Gardner, in Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell' intelligenza[4] spiega come ognuno di noi sia intelligente in molti modi e in modi diversi, mostrando come il nostro modo di essere, di pensare e di vivere cambi in relazione al tempo, alle esperienze, ai vissuti e al modo di interpretare la realtà circostante. La personalità umana, quindi, è soggetta ad una molteplicità di intelligenze che Gardner classifica, riconoscendone ben sette: intelligenza linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale, corpo-cinestetica, interpersonale ed intrapersonale. Successivamente, ad esse vengono aggiunte anche l'intelligenza naturalistica ed esistenziale o sociale, ossia, quell'abilità che permette di capire le persone, distinguere i propri sentimenti, aspirazioni o desideri da quelli altrui, comprendere situazioni diverse e sapersi destreggiare in ambienti non abituali. In pratica è una forma di intelligenza che consente di saper cogliere le regole della vita, i pregi e i limiti della vita di gruppo, imparando a distinguere le diverse sfumature, oltre naturalmente alla capacità di accettare gli altri nel nostro universo e allo tesso tempo il nostro nel loro. Le diverse intelligenze tendono quindi a sovrapporsi e ad influenzarsi vicendevolmente, rendendoci tutti normalmente diversi e diversamente intelligenti, dotando ogni soggetto della capacità di di svilupparsi e costruire la propria individualità in base alle proprie specifiche potenzialità. Prendendo le distanze da dal concetto di intelligenza intesa come una capacità innata ed immodificabile, diversi studiosi concordano nel considerare l'intelligenza come una facoltà che permette l'adattamento a situazioni simili e nuove, o più complesse rispetto a situazioni note ed esperienze vissute; un processo talmente vasto che consente di abbracciare una molteplicità di fenomeni che hanno in comune la dinamica e la meccanica dell'adattamento. L'intelligenza non è più allora una struttura statica ma un sistema aperto e dinamico che continua a svilupparsi durante tutto l'arco della vita.
Negli anni '90 Goleman definisce il concetto intelligenza emotiva  che rappresenta la capacità di sapersi porre adeguatamente nelle diverse situazioni della vita. Andando smarrendosi la dimensione dialogica, relazionale ed affettiva, per l'uomo moderno  facile ritrovarsi in una dimensione isolata in cui, l'uso di alcol, droga spingono molte persone a trovare rimedio nel suicidio e l'omicidio. Aggressività e sofferenza sono ormai le parole chiave della nostra epoca e nella fretta quotidiana, costellate dalla mancanza di gioia di vivere e dalla scarsa consapevolezza di se stessi.
Emozione e conoscenza non sono quindi in contrapposizione ma sono estremamente interconnesse; senza la spinta motivazionale data dall'emozione, senza la passione che spinge ad agire con entusiasmo, non è possibile raggiungere livelli adeguati di felicità, benessere e consapevolezza. L'armonia tra mente e corpo si raggiunge attraverso l'empatia, ossia l'abilità nell'assumere la prospettiva altrui, accettando le differenze mediante l'abbattimento delle barriere e dei pregiudizi. Oggi viviamo in un'era sempre più pluralista basata sul rispetto reciproco e sulla costruzione di una realtà che richiede la partecipazione di tutti i cittadini; saper ascoltare, prestare orecchio alle richieste e alle parole altrui, significa gettare le basi per una convivenza civile, pacifica ed una vita democratica.
Il quoziente emotivo si differenzia da quello intellettivo perché il test di misurazione non termina con un punteggio che indica quanta intelligenza emotiva abbiamo ma più semplicemente invita il soggetto a riflettere sulle proprie emozioni. Il mondo dell'istruzione è ancora sotto il pieno dominio dell'intelligenza razionale; la scuola dovrebbe aprirsi alla concezione che senza un adeguato supporto dell'intelligenza emotiva, si corre il rischio di considerare l'insuccesso scolastico soltanto come una carenza o una inadeguato utilizzo dell'intelletto nei riguardi delle discipline. L'autostima e la fiducia in sé sono invece indispensabili per vivere consapevolmente e sapersi relazionare con gli altri in modo appropriato; ecco perché la didattica, se vuol essere realmente efficace, deve aprire i propri orizzonti alla vita emotiva degli studenti ed adottare tutte le strategie necessarie per rinforzare la fiducia nelle loro capacità[5].



 L'emozione come strumento per conoscere

Abbiamo già avuto modo di parlare dell'emozione, definendola come motore della vita infatti, è grazie a questa forza che l'uomo è spinto ad agire, relazionarsi, muoversi ed effettuare scelte. L'emozione è ciò che permette di rendere un dialogo più o meno costruttivo, è il collante che permette di trasformare le relazioni in maniera più o meno significativa.
Dice bene Galimberti[6] quando afferma che il male nichilista dei giovani d'oggi è dettato prevalentemente da una sorta di anestesia collettiva, ossia dall'incapacità moderna di vivere in maniera reale, intensa e costruttiva le proprie emozioni. E' come se esistesse un distacco da questa sfera che non permette di accedere alla dimensione più profonda dell'uomo e che lo categorizza come tale. Parlare di alfabetizzazione emotiva significa allora cominciare a riconoscere le emozioni, individuarle come tali ed utilizzarle in maniera costruttiva, ossia, come strumento di conoscenza. La tendenza dei giovani d'oggi, invece, forse per cause culturali, per mutamenti epocali, per la crisi dei valori, ecc., è invece quella di prendere le distanze dalla vita emotiva divenendo quindi degli automi soggetti agli stimoli esterni in maniera passiva ed acritica. Per i giovani è difficile allora che la scuola rappresenti un'occasione importante per crescere e maturare, quando a priori è stato decretato un inaridimento della sfera emotiva. Una cultura che tiene conto soltanto della sfera intellettiva senza preoccuparsi che un bambino, un adolescente, un uomo devono maturarsi anche emozionalmente, decreta già in partenza il fallimento del proprio progetto formativo. Non c'è da meravigliarsi se gli studenti sono sempre più demotivati, più imbarazzati davanti ai testi scolastici e costantemente distratti. Dire ad un genitore: suo figlio è continuamente distratto, non ha voglia, dovrebbe metterci più volontà, è un'assurdità ed andrebbe ribaltata, chiedendo: cosa ho fatto io insegnante per motivare questi ragazzi affinché siano in grado di interessarsi, motivarsi e studiare?10
E la motivazione ad apprendere non è qualcosa di automatico, che si innesca con un atto di sacrificio e di volontà ma nasce grazie ad un interesse che si forma se dietro vi è un'adeguata spinta emozionale[7]. Ecco allora che l'insegnante non è più chiamato a svolgere una mera azione didattica con l'obiettivo di trasmettere conoscenze ma deve adesso guardare alla propria professione con un'ottica diversa, dove la relazione, il prendersi cura degli alunni, l'incoraggiamento, l'ascolto partecipato, l'empatia, l'interesse attivo, divengono le parole chiave di questo lavoro così complesso e difficile.  
Un professionista dell'incoraggiamento, che sa ascoltare e guidare l'allievo nel proprio cammino di crescita culturale ed umana, non può che favorire lo sviluppo della sfera emotiva dei soggetti, aiutandoli a gestire le proprie emozioni, a controllarle e trasformarle. Se questo non avviene, se la scuola continua a proporsi come agenzia formativa addetta unicamente alla erogazione di nozioni, rischiamo veramente di non fornire una valida alternative alle opzioni autodistruttive che la società propone in maniera sempre più massiccia ed invitante. La droga, le estremizzazioni del sesso, gli omicidi e i suicidi sono soltanto alcuni degli esempi di azioni regolate unicamente dall'incapacità di provare e gestire le emozioni, dall'impossibilità di fermarsi di fronte a situazioni inaccettabili.
Quando il deserto emotivo avanza, quando la sfera delle emozioni sembra essersi spenta completamente, si va alla ricerca di azioni estreme per verificare se qualcosa dentro si muove, se esiste ancora una scintilla all'interno in grado di fare percepire il senso di esserci realmente; ecco allora i gesti insensati come il lancio dei sassi dal cavalcavia, le stragi, le torture agli animali, ecc.  
La scuola deve allora intervenire in maniera da favorire maggiormente la partecipazione dei bambini e dei ragazzi alla vita, preparandoli soprattutto attraverso il dialogo, la discussione di gruppo, l'ascolto individuale a prendere confidenza con la vita emotiva, alimentandola giorno dopo giorno attraverso continue attenzioni e stimoli positivi.
La sopravvivenza dell'uomo, fin dai tempi più remoti è sempre stata determinata dalla guida che le emozioni gli hanno fornito, avvertendolo dei pericoli imminenti e delle situazioni favorevoli per conservarsi e proliferare. La conoscenza sensomotoria è quella che riguarda gli organi di senso e consente la percezione degli stimoli, mentre quella cognitiva coinvolge la neocorteccia e riguarda il riconoscimento e la comprensione degli stimoli sensoriali ricevuti. Le informazioni sensoriali che l'uomo riceve percorrono due vie: quella più rapida arriva al sistema limbico ed innesca reazioni e risposte emotive; l'altra invece è più lenta e giunge alla neocorteccia che fornisce una risposta cognitiva. La velocità della risposta determina un comportamento immediato rispetto a quelle dettate dalla razionalità. I domini conoscitivi riguardano allora tre canali diversi ma allo stesso tempo comunicanti: sensoriale, emotivo e cognitivo che si incontrano e si uniscono per dar vita alla conoscenza. La razionalità prevarrà quando è necessario un comportamento ponderato e consapevole mentre in altri contesti sarà l'istinto a prevalere; le scelte che ogni individuo prende nella propria vita, sono connesse ai comportamenti che ogni volta decidiamo di utilizzare e questi sono legati al modo in cui intendiamo leggere la realtà e al tipo di filtro che utilizziamo in quel momento. Condizionamenti sociali, educazione, ideologie, tutto concorre a favorire o meno una lettura della realtà con il cuore o con la mente, determinando quindi una maggiore o minore coloritura affettiva delle informazioni acquisite e delle risposte fornite all'ambiente.  
Se i significati emotivi, all'interno della società sono maggiormente coltivati, allora le persone tenderanno a promuovere una cultura basata maggiormente sulla dimensione comunitaria, sul sostegno, sul mutuo-aiuto, favorendo l'unità e l'incontro. Diversamente, si avranno soltanto scissioni, conflitti ed isolamento, dettati dall'incomprensione e dall'incapacità di mettere in sintonia il proprio “apparato” emotivo con quello altrui.
Ecco perché la formazione gioca un ruolo importante all'interno di questo delicato meccanismo; se la scuola non getta le basi per un'educazione al “comprendere” e al “sentire”, rischiamo di generare una società sterile, dove regnano unicamente le logiche del profitto, della sopraffazione e dell'individualismo più acceso.
La trasmissione di contenuti, modelli e ideologie tipica di una educazione tradizionale, deve progressivamente lasciare il posto ad un'educazione improntata maggiormente sul modello della piantina che cresce e dell'insegnante che la pota, la cura e la nutre, ossia, dell'educatore che incoraggia, motiva, agevola e predispone all'apprendimento.
La conoscenza dei processi di sviluppo e delle leggi della maturazione psichica consente di effettuare interventi calibrati sul soggetto e sul sistema, al fine di ottenere le condizioni più agevoli e migliori per una sana crescita psicofisica dell'allievo. Essere coscienti del fatto che non esistono regole standard e ricette universali per educare, aiuta a far comprendere che ogni individuo è unico ed irripetibili e che spetta all'educatore scorgere i bisogni formativi soggettivi, al fine di motivare nel miglior modo possibile ed aiutare a raggiungere gli obiettivi prefissi in maniera autonoma e responsabile.
Sappiamo che l'apprendimento è facilitato dalla voglia di imparare e perché ciò avvenga occorre che in ogni momento l'allievo sperimenti il successo e la soddisfazione che segue l'aver appreso un concetto. Se invece la nozione impartita non suscita nessuna reazione emotiva in quanto sterile nella sua trasmissione, il dato registrato sarà solamente memorizzato e quindi destinato ad una vita breve e a non rientrare all'interno di una cornice di senso più ampia.
Il lavoro del pedagogista deve cavalcare l'onda dell'empatia, vestendo continuamente i panni del soggetto così da comprendere realmente quali siano le motivazioni, i bisogni più nascosti, i perché di determinati gesti ed arrivare a scorgere le reali aspirazioni e desideri futuri.
E' attraverso la relazione che si riesce a costruire le basi per un sano e corretto sviluppo psicofisico dell'allievo; la relazione è il ponte attraverso il quale passano non soltanto le informazioni ma anche le cariche emotive in grado di sorreggere e fare da collante al tutto, rendendo il percorso formativo più o meno significativo. La relazione permette di orientare gli sforzi in maniera tale da far emergere l'individualità di ognuno, al di là di ogni tentativo di omologazione e massificazione; una buona relazione aiuta il soggetto a far emergere quello che realmente è, fornendo gli strumenti affinché ognuno possa effettivamente ottenere il nutrimento di cui necessita per la propria maturazione.



 La didattica mediata dall'emozione  

Abbiamo detto in precedenza che un pedagogista che non tiene conto dei gesti del soggetto, del suo umore, dei cambiamenti nei modi di porsi, di vestirsi, ecc. è un professionista che al centro del processo formativo non mette il soggetto ma il programma da portare a termine e questo con tutte le conseguenze che ne derivano.
Un pedagogista o un docente che non presta attenzione alla persona con cui quotidianamente interagisce, rischia veramente di non assolvere al compito che fondamentalmente è alla base della sua professione: aiutare gli allievi a crescere come persone, intellettualmente e culturalmente, ottenendo il loro spontaneo coinvolgimento nelle attività di apprendimento. Le discipline impartite, affinché possano divenire parti costitutive della personalità di ognuno, occorre che prendano le mosse dal coinvolgimento emotivo e questo compito spetta all'insegnante e al suo modo di porsi nei riguardi degli allievi.
Senza motivazioni positive non si creano le premesse per un apprendimento propriamente detto, tuttavia è importante ricordare che gestire l'emozioni all'interno di una classe, come all’interno dello studio del professionista, sia un compito tutt'altro che semplice, infatti, pochi pedagogisti o docenti hanno una preparazione specifica in materia, atta non soltanto a riconoscere i diversi stati emotivi dei ragazzi, ma di essere in grado di gestirle e di tradurle in comportamenti costruttivi.
Davanti al pianto la prima reazione è quella di bloccare le lacrime, così come di fronte alle grida di rabbia si pensa sia bene inibire questa reazione. Vivere liberamente le emozioni, invece, consente di  riacquistare quell'equilibrio psicologico che altrimenti porterebbe soltanto malessere, ansia e tensioni; ecco perché è sempre importante non inibire, non rimuovere e cercare la via migliore affinché non si inneschino inutili e dannosi meccanismi di difesa.
Il pedagogista deve prestare attenzione al linguaggio degli allievi, anzi, ai linguaggi degli allievi perché l'uomo non si esprime soltanto verbalmente ma anche con il corpo attraverso il gesto, la postura, lo sguardo, ecc. Per capire realmente chi abbiamo davanti e cosa sta accadendo, non possiamo escludere la comunicazione non verbale; il corpo costantemente informa e parla, manifestando stati d'animo, tensioni e pensieri dell'interlocutore. Sta al professionista cogliere questi aspetti e prendere coscienza dei fatti, intervenendo in maniera costruttiva ogni volta che lo studente  emette un grido d'allarme. Il docente deve allora continuamente stimolare i ragazzi o i bambini a non accontentarsi mai per ciò che sanno e fanno, mostrando loro le risorse che realmente possiedono e quanto poco facciano per farle emergere. Giocare sulla volontà e sulle emozioni è fondamentale anche per questo, così si possono davvero estinguere atteggiamenti di apatia e indifferenza che sempre più spesso aleggiano nelle aule scolastiche di ogni ordine e grado. L'attività del docente che funge da mediatore fra l'allievo da educare ed il mondo da conoscere, permette al soggetto di sviluppare un pensiero divergente e creativo, ragionando sulla base dei dati a disposizione ed ipotizzando strategie per trovare soluzioni efficaci e funzionali. Attraverso l'ascolto reciproco e l'osservazione, gli alunni hanno modo di sviluppare abilità sociali e cooperative e non soltanto quelle di tipo competitivo; lavorando insieme e mettendo le energie a disposizione del gruppo si possono ottenere risultati migliori in tempi relativamente più brevi, mostrando come sia importante integrare e far interagire mente-corpo ed emozione.[8] 


[1]    CFR. Goleman D., Intelligenza emotiva, Milano, Rizzoli, pp. 32 e ss.
[2]    Cfr. Collacchioni L., Insegnare emozionando, emozionare insegnando, Del Cerro, Pisa, 2006.
[3]    Mannucci A. (a cura di), L’emozione fra corpo e mente, educazione, comunicazione e metodologie, Del Cerro, Pisa, 2006, pp. 12 e ss.
[4]    Gardner H., op. cit., pp. 56 e ss.
[5]      Mannucci A. Landi M., Collacchioni L., Per una Pedagogia e una Didattica delle Emozioni, Del Cerro, Tirrenia (Pisa), 2006, pp. 40 e ss.
[6]      Galimberti U., L'ospite inquietante, Serie Bianca Feltrinelli, Milano, 2007. pp. 50 e ss.
[7]    10   Su questi aspetti della motivazione e dell'apprendimento si è interessato soprattutto Guido Petter. Cfr. Petter G., Il Mestiere di Insegnante, Giunti, Prato, 2007.
[8]    Cfr. Mannucci A., Landi M., Collacchioni L., op cit..

[1]    CFR. Isidori E., La Pedagogia come Scienza del Corpo, Anicia, Roma, 2002
[2]    CFR. Siringano F. M., La Pedagogia della Formazione, Liguori, Napoli, 2003
[3]    CFR C. Castellani, La regola celeste di Lao Tse, Sansoni Editore, Firenze, 1971, pp. 23 e ss.
[4]    CFR: Balduzzi L. (a cura di),  Voci del corpo, La Nuova Italia, Firenze, 2002, pp. 11 e ss.

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