Il corpo nelle pratiche pedagogiche:
spunti operativi per il pedagogista
La dimensione
corporea
Nella professione del pedagogista non è possibile centrare
l’attenzione unicamente sugli aspetti intellettivi del soggetto, perché questo
cozzerebbe con la definizione stessa di “pedagogista”.
L’esperto di processi formativi ha infatti il dovere
professionale di favorire la crescita e la maturazione armonica dell’individuo,
in tutti i suoi aspetti, quindi, anche il corpo riveste un ruolo fondamentale
nel cammino evolutivo dell’individuo. Senza una giusta considerazione della
dimensione corporea e della sua centralità
all’interno dei progetti formativi, non è possibile organizzare percorsi
che consentano realmente di far emergere le potenzialità individuali.
Negli ultimi anni stanno sorgendo sempre più numerose,
ricerche che hanno per oggetto il corpo e la sua relazione con la mente; dalla
psicologia alla pedagogia, dalla medicina psicosomatica all’antropologia, il
corpo è sempre più sotto analisi, alla ricerca di un nuovo modo di comprendere
in una diversa accezione questo delicato rapporto fra corporeo ed incorporeo.
Il dualismo cartesiano è entrato quindi nettamente in crisi; parlare di mente
senza considerare la dimensione corporea, risulta oggi del tutto fuori luogo.
L’ottica secondo la quale la dimensione corporea che la nostra tradizione
intellettualistica vorrebbe completamente piegata alla volontà della psiche, è
stata ridimensionata e modificata, dimostrando come i due piani non siano
realtà separate da disporre in due classi gerarchiche distinte ma entità
inscindibili che operano in sinergia costante.
Il corpo non rappresenta più quindi, la “marionetta” da
sottomettere ai comandi della volontà ma diviene a tutti gli effetti il luogo
del sentire e dell’espressione delle emozioni, rappresentando il confine tra
noi ed il mondo in cui avviene l’incontro tra le gli avvenimenti e la nostra
interiorità.
Già da diversi anni gli analisti di stampo bioenergetico (si
pensi alla scuola di Lowen) hanno dimostrato come sia possibile intervenire
sulla psiche e sulle emozioni più profonde dell’uomo, partendo proprio dai
blocchi energetici che si manifestano a livello fisico, come contratture,
rigidità, dolori, ecc. Il corpo diviene specchio della dimensione più intima
dell’uomo e lavorando con il contatto fisico e gli esercizi di bioenergetica,
il terapeuta riesce ad entrare in sintonia con il paziente, aiutandolo a
modificare gli aspetti patologici del suo comportamento.
Corpo e mente forniscono insomma, differenti livelli di
conoscenza: una sensibile, legata alle informazioni che provengono dagli organi
di senso; l’altra in cui la mente organizza e struttura le informazioni di cui
è in possesso secondo schemi oggettivi, razionali, generali ed astratti.
Ecco allora che anche in ambito pedagogico l’ottica subisce
una nuova curvatura perché adesso, educare significa organizzare percorsi
didattici che partano dalle esperienze del corpo vissuto/vivente nella
direzione di apertura ed incontro con il mondo esterno, di ciò che si trova
oltre la fisicità soggettiva: dall’esplorazione dello spazio corporeo,
all’orientamento nello spazio e nel tempo, all’esplorazione dei propri vissuti
emotivi, delle proprie memorie, delle tracce che ognuno descrive nel mondo così
come in se stesso, fino alle tracce segnate da altri nei loro propri corpi,
frutto di diverse esistenze trascorse[1].
I corpi rappresentano l’impronta della differenza
soggettiva, a partire da quella di genere, attratti l’uno dall’altro dal
desiderio di scoperta, fusione, di cura e conoscenza, che rientrano a pieno
nella sfera del percorso educativo; un desiderio di conoscere che genera sensi,
dona significati, implica responsabilità nei confronti di se stessi e degli
altri. Educare significa allora sensibilizzare il soggetto al sentire, a
riconoscere i propri sentimenti, a comunicare non soltanto con le parole ma con
diverse forme espressive, come il gesto, lo sguardo, l’azione spontanea, ecc. Ecco
che allora l’emozione si fa azione all’interno delle diverse forme di
socializzazione adeguate alle varie capacità, possibilità e strategie
espressive di ciascuno: è all’interno della scuola che l’insegnante riesce a
proporre modelli validi e trasmettere strategie e tecniche che consentono
all’allievo di raggiungere autostima ed autonomia. Azioni e forme diverse di
socializzazione possono quindi essere sperimentate andando alla ricerca di
nuovi significati ed orizzonti di senso, grazie soprattutto alle tecniche ed
alle strategie tipiche della meditazione, contemplazione, training autogeno,
yoga, ecc.
Insomma, grazie alla dimensione intersoggettiva, alla
sperimentazione dei diversi linguaggi gestuali, è possibile scoprire il binomio
corpo-sentire in una nuova ottica che fornisce nuove declinazioni, collegate
non soltanto alla dimensione dell’irrazionalità e della passionalità, ma anche
a quella del pensato e riflettuto, frutto di una personale rielaborazione dei
diversi vissuti.
Sperimentare la propria gestualità ed il movimento del corpo
nello spazio diventa un modo di percepire ed elaborare il proprio essere nel
mondo con gli altri, sia nella direzione dell’azione, cercando di sapere e di
saper fare, sia in quella della meditazione, in cui si lascia spazio alla
dimensione del non sapere del corpo, del possibile, all’interno di un tempo
dilatato e di uno spazio silenzioso, all’interno dei quali è possibile mettersi
tra parentesi e sospendere il giudizio sul mondo, prendendone momentaneamente
le distanze[2].
E’quindi possibile avvicinarsi alla danza, anche in un
contesto scolastico, ma lontani dalla sua valenza tradizionale che vuole il
movimento codificato e lineare; può essere una gestualità scombinata, fuori
dagli schemi, poco aggraziato e spigoloso, unita alla moderazione ed al
rilassamento dello yoga o di altre tecniche di meditazione orientale, fino a
giungere alla negazione del movimento nella totale immobilità della postura,
richiesta dalle pratiche contemplative.
Nell’educazione alla danza o in altre pratiche motorie,
l’oggetto in questione non è tanto l’apprendimento di gesti aggraziati che
potenzino l’apparato muscolare o che migliorino le prestazioni del corpo,
quanto piuttosto una formazione attraverso il movimento che mira alla
conoscenza ed al riconoscimento del proprio schema corporeo ed alla
consapevolezza delle valenze comunicative e simboliche del corpo, immergendo la
pratica motoria nel contesto dell’educazione alle arti, in modo da avvicinare
il sistema valore-simbolo a quello degli altri linguaggi artistici.
Questo modello, possiede una curvatura del tutto particolare
perché si appropria degli insegnamenti che provengono da culture e filosofie
differenti ed in particolare da quelle orientali che fondano la loro
riflessione proprio sulla sintesi degli opposti e sul loro dinamico intreccio
verso un temporaneo ma necessario equilibrio, inteso come fonte di energia
vitale dell’individuo e dell’intero universo.
Le vie ascetiche orientali, o comunque le pratiche
psicofisiche maturate in India e in Cina, possono insegnarci tanto mostrandoci
l’importanza dell’esperienza nei percorsi di conoscenza, laddove il termine
esperienza si accosta in modo nuovo a quello del pensiero, al vivere i propri
stati di coscienza allo scopo di migliorare la qualità della vita ed il proprio
essere nel mondo con gli altri.
Da un punto di vista pedagogico è importante constatare che
il concetto di azione e non azione rappresentano gli aspetti fondanti della
costruzione della conoscenza in quanto incontro fra soggetto e mondo. Leggendo
il Tao te Ching[3]ci
accorgiamo che il concetto di non azione taoista non significa assolutamente
inerzia o passività di fronte al mondo della vita, anzi, rappresenta invece
l’espressione di una sintonia, di una concordanza e condizione che, secondo
questa visione della realtà, rappresenta il più alto potenziale di un corretto
esercizio interiore, volto a riscoprire l’importanza della realizzazione di una
mente semplice, chiara, pulita ed essenziale. La Via, tanto ricercata dai saggi
e dai filosofi orientali, rappresenta la metafora con la quale si vuole aiutare
l’uomo ad accostarsi serenamente a quel processo di cambiamento e di crescita
in se stessi, progressivamente, passo dopo passo, attraverso un graduale
processo di autoeducazione.
L’attività meditativa tipica delle tradizioni orientali
propongono modalità di conoscenza e di educazione attraverso il corpo nelle
quali azione e non azione sono compresenti completandosi a vicenda: la
meditazione non è più in tal senso, un modo di conoscere opposto a quello
dell’azione bensì l’altra faccia della medaglia che si traduce, nel corpo, in
tensione e rilassamento, in movimento e stasi, silenzio e suono. La funzione
fondamentale di questa pratica è quella di mettere l’unità somatopsichica nella
condizione che permetta un cambiamento a ritroso nell’intenzionalità del
soggetto, aprendo il cuore alla possibilità del cambiamento. In tal senso il
cuore è da considerare, in maniera simbolica, come quel nodo che concentra la
globalità dell’esistere, in cui misteriosamente si trova la radice della
coappartenenza tra mentale, cognitivo, intenzionale e corporeo. Il cuore, in
quanto patria dell’emozione, di un’intelligenza emotiva ed affettiva,
rappresenta il crocevia tra l’attribuzione di senso e la percezione del mondo.
Come dire: ogni cambiamento della propria esistenza non è soltanto di natura
cognitiva ma è pure determinata dalle tonalità emotive, che investono la
totalità dell’essere, fatta di corpo, affettività ed intenzionalità.
Non può esservi, in
sintesi, cambiamento e tanto meno educazione, se non si percorrono vie che
tengano in grande considerazione non solo la conoscenza di tipo razionale ma
anche quella estetica, ponendo l’accento sull’importanza dei sentimenti e delle
emozioni nei processi di significazione del mondo. Dal punto di vista delle
filosofie orientali, l’azione non rappresenta soltanto il movimento ma si
determina anche come stasi; l’immobilità rappresenta dunque una via, una
strategia che non può essere considerata neutra in campo educativo.
Ma il corpo può anche divenire il veicolo della sofferenza e
del dolore; il corpo che invecchia, il corpo che si ammala, diventa allora
testimonianza e metafora di un corpo vissuto/vivente che lotta e si ribella al
suo destino di malattia e di morte, aprendosi alla dimensione dell’amore e
dell’esperienza limite, che lo vedrà negato e sconfitto. La consapevolezza
della prossimità della morte, apre spiragli intrisi di connotazioni formative,
obbligando l’individuo a riformulare il proprio progetto esistenziale, una
rivisitazione del proprio essere che dal piano della salute deve
necessariamente proiettarsi su quello della malattia. Fra difficoltà e dolori
il soggetto è costretto a sperimentare cambiamenti, riprogettando la propria
esistenza anche a costo di cadute, smarrimenti e di abbandoni.
La malattia e di conseguenza la morte, rappresentano
quell’esperienza limite, in cui la sostanza, la fisicità del corpo scivola
progressivamente nell’etereo, nell’invisibile, verso tutto ciò che si
contrappone alla dimensione concreta dell’esistere ed alla sua progettualità di
vita futura[4].
Le emozioni e la loro
funzione
La nostra cultura ha sempre considerato la dimensione
intellettuale prioritaria e superiore rispetto a quella fisica. Il lavoro
intellettuale ha sempre goduto un maggiore prestigio rispetto al lavoro
manuale, come ad esempio quello artigiano; negli ultimi anni comunque, complice
la cultura americana, il corpo ha subito un nuovo passaggio di grado, infatti,
grazie allo sport competitivo, oggi l’individuo abile nel basket o nel
football, non ha niente da invidiare al medico o all’ingegnere, anzi. Tuttavia,
anche in questo caso puntare il riflettore solamente sulla dimensione fisica,
strutturata solamente in termini di efficienza, funzionalità ed estetica, porta
con sé tutta una serie di altre problematiche, tipiche della nostra epoca, che
vanno dalla non accettazione di sé, all’anoressia, alla bulimia. Il punto
cruciale è proprio questo: focalizzare l’attenzione su quella linea di confine
che unisce e separa allo stesso tempo il corpo, con la mente ed il mondo
esterno: l’emozione. Le emozioni rappresentano le reazioni fisiologiche a
determinate situazioni o stimoli esterni e
l’uomo spesso, troppo preso dalle distrazioni quotidiane, difficilmente
riesce a distinguerle, riconoscerle e gestirle in maniera costruttiva. Le
emozioni per l’uomo moderno sono un qualcosa del tutto sconosciuto e di
difficile identificazione; sono un universo sommerso che condizionano i nostri
rapporti interpersonali, con i colleghi, gli amici, il partner e sono tra
l’altro, alla base della nostra disponibilità ad apprendere in maniera
significativa. Le nostre esperienze di vita sono supportate dalle emozioni che
fungono da motore motivazionale. E’ l’emozione che rende più o meno pregnante e
significativa un esperienza ed è quella che permette di lasciare tracce nella
nostra esistenza in maniera determinante o superficiale. L’emozione dà il tono
all’esperienza e la forza con cui
rimarrà impressa nella mente, l’apprendimento di determinate nozioni.
Come chiarisce Goleman[1], ogni
individuo è dotato di abilità intellettuali ed emozionali, che non operano su
piani distinti ma interconnessi che lavorano in sinergia nelle diverse
esperienze di vita umana: dal piacere al desiderio, dalla cognizione al
processo di formazione e di apprendimento.
Ecco che allora questa visione condiziona anche l’attività
dell’insegnamento, che non può essere semplicemente fornito ma deve essere
necessariamente costruito attraverso la mediazione di una relazione che sia
significativa non soltanto sotto il profilo dei contenuti da trasmettere ma
anche da un punto di vista affettivo perché senza la forza delle emozioni
condivise fra docente ed allievo, non si determina nessun apprendimento
duraturo e realmente significativo.
Un insegnamento sterile che si focalizza unicamente sulla
trasmissione di contenuti dall’emittente al ricevente, può solo dar luogo ad
apprendimenti mnemonici, che sicuramente svaniscono subito dopo la fase della
verifica.
E’ logico quindi cominciare a ripensare i processi
formativi, ribaltando quella che da sempre è stata la consuetudine
dell’educatore: reprimere gli impulsi emotivi, la vitalità, in modo da favorire
l’apprendimento. Tutto sembra concordare con questa filosofia, ne è una prova
tangibile la richiesta di immobilità dietro al banco di scuola, nella
convinzione che solo attraverso la repressione delle cariche vitali fosse
possibile attivare qualsiasi forma di apprendimento. Nuovi settori di ricerca
indicano invece la possibilità/necessità di uscire da questa ottica, per
adottare un diverso modo di lavorare, dove l’emozione non è più da reprimere ma
da formare, considerato motore essenziale della pratica educativa. La crescita
e la maturazione degli individui sono sempre state considerate in relazione al
dominio delle passioni ed alloro progressivo di scostamento, a favore
dell’attività cognitiva, che deve portare gradualmente ad una piena e totale
razionalizzazione delle cose e dei fatti. Le attività di drammatizzazione e di
gioco, le ore dedicate alla creatività e manipolazione, vengono del tutto
abbandonate quando il bambino dalla materna, fa il suo ingresso nella scuola
primaria. Tutto si gioca dietro il banco, il corpo è ormai dimenticato, si deve
solo ascoltare, memorizzare e ripetere. Le moderne neuroscienze hanno ormai ben
evidenziato come l’acquisizione dei saperi avvenga attraverso dal rapporto che
si stabilisce tra il sistema cerebrale umano e l’organizzazione delle
informazioni, sotto forma di stimoli, che derivano dall’esperienza che il
soggetto fa del mondo in cui vive. Il messaggio ha una duplice valenza: da una
parte tiene in considerazione la struttura di base genetica, che è unica per
ogni individuo, dall’altra il particolare legame che essa stringe con i diversi
vissuti.
Partire dal corpo significa recuperare la sensorialità,
l’emozione che è alla base del percorso di apprendimento, dando nuovo
significato al sentire e al percepire. L’ottica Spinoziana per cui mente e
corpo sono un unico e medesimo individuo, concide con le dottrine orientali che
vedono l’uomo come una sintesi mente-corpo e che solo una pedagogia negativa
può scindere queste due parti, rendendo l’uomo incompiuto ed infelice. Tornare
ad essere con il proprio corpo vuol dire allora cercare, attraverso il gioco,
il teatro, di sperimentare, riconoscere e gestire al meglio le proprie
emozioni, puntando i riflettori non più sulla sola produzione cognitiva, ma
anche sulla dimensione gestuale e recitativa, dove sia possibile sperimentare
come i due piani azione/pensiero siano intimamente connessi, grazie alla
mediazione del “sentire”.
Ma cosa è allora, un’emozione? La Collacchioni, attraverso
un excursus storico, dimostra come da sempre essa sia stata considerata dai
maggiori pensatori una colonna portante della rappresentazione della vita
morale delle persone. Tradizionalmente le emozioni hanno a che fare con alcune
manifestazioni del comportamento, reazioni deleterie e disfattiste che si
contrappongono alla luce della ragione[2]. Oggi
questa teoria non convince più e ad una analisi più attenta ci accorgiamo come
i comportamenti dettati dalle emozioni, come paura, rabbia, aggressività, ecc.,
siano parti costitutive del nostro patrimonio genetico e siano sopravvissuti in
tutti questi millenni perché hanno aiutato l’uomo a sopravvivere ai pericoli e
ad adattarsi a circostanze diverse. L’emozione ha la funzione di collegare il
nostro corpo al mondo, informando immediatamente della situazione nella quale
siamo coinvolti. Se il modello ipotetico/deduttivo al quale la nostra mente si
ispira risulta essere lento e sempre mediato, l’immediatezza dell’emozione
avverte il corpo affinché reagisca nel minor tempo possibile. La razionalità ha
sempre avuto comunque il monopolio sulla vita emotiva, confermando la
supremazia dettata dalla filosofia della necessità di dominio della vita
interiore; tuttavia la dottrina dell’equilibrio e del giusto mezzo, tipica del
pensiero aristotelico, ha messo in evidenza come non debba esserci antagonismo
tra i due aspetti dell’essere umano (cuore/mente), ma sinergica
cooperazione.
Il concetto di intelligenza che da sempre ormai domina nella
nostra cultura, si basa sul presupposto che questa facoltà sia una struttura
monolitica e traducibile in un punteggio, risultante dal rapporto età
mentale/età cronologica. Al di là
dell’utilizzo e della sua efficacia come strumento in ambito neuropsicologico
per la diagnosi ed il recupero di specifiche patologie mentali, questa visione
dell’intelligenza risulta essere superata perché considerata di limitata portata
e frutto di una visione troppo riduttiva della mente umana. Gardner parla di
forme mentali, annunciando come in ogni essere umano vi siano diverse forme di
intelligenza suddivisibili in fattori; ogni fattore è il risultato della
interazione fra substrato biologico e strutture psicologiche. Si può essere
quindi intelligenti in molti modi, per cui, le misure classiche
dell’intelligenza umana, non danno un valore oggettivo ma semplicemente
indicano il livello di conformismo sociale raggiunto dall’individuo.
Successivamente Goleman arriverà a parlare di intelligenza
emotiva, necessaria per raggiungere il successo e la felicità; basata
essenzialmente sulla capacità di ascolto, la comprensione e l’abilità nel dare
e nel ricevere, essa aiuta a riscoprire il senso della meraviglia e della
sorpresa, garantendo la piena autonomia decisionale dell’individuo[3].
Il senso di autonomia, di fiducia nelle proprie capacità,
sorge e si matura progressivamente negli anni, a partire dalla relazione che il
bambino instaura inizialmente con la madre, poi con i familiari e con i
compagni; un bambino amato e voluto, è un bambino che da grande saprà amare e
ben volere al prossimo, ecco perché è importante che le figure adulte di
riferimento, come insegnanti, genitori e parenti, sappiano alimentare e
potenziare la fiducia personale. L’amore che un bambino riceve, è lo strumento
necessario per vincere le paure nei momenti di maggior fragilità ed è la chiave
per mantenere l’equilibrio e la stabilità nelle situazioni difficili.
Un bambino sicuro è un bambino che sa esplorare
autonomamente l’ambiente circostante, regolando il suo comportamento attraverso
l’organizzazione delle proprie emozioni, certo del legame affettivo che lo lega
alla madre. E’ la madre che deve fungere da base sicura, in grado di
trasmettere al figlio il senso di conforto, protezione e solidarietà, senza la
quale si corre il rischio di compromettere lo sviluppo dell’emotività, della
motricità e del linguaggio.
Per il pedagogista saper riconoscere le emozioni e gestirle
al fine di convogliare energie, forze e risorse in modo costruttivo,
rappresenta una sfida importante ed una competenza da formare e valorizzare
sempre di più.
Il concetto di
alfabetizzazione emotiva è alla base dell'intelligenza emotiva, ossia, di quell'abilità
che tende ad emergere accanto all'intelligenza cognitiva, rivendicando un
proprio statuto ed una propria collocazione all'interno della realtà umana e
del suo rapporto con il mondo sociale.
L'intelligenza non essendo
più riconducibile ad una dimensione monolitica, assume oggi connotati diversi,
ossia, una pluralità di tratti e di sfaccettature che mettono in crisi il
concetto tradizionale di intelligenza, intesa come valore, come numero
estrapolato dall'utilizzo di una scala di valutazione.
Howard Gardner, in Formae
mentis. Saggio sulla pluralità dell' intelligenza[4]
spiega come ognuno di noi sia intelligente in molti modi e in modi diversi,
mostrando come il nostro modo di essere, di pensare e di vivere cambi in
relazione al tempo, alle esperienze, ai vissuti e al modo di interpretare la
realtà circostante. La personalità umana, quindi, è soggetta ad una
molteplicità di intelligenze che Gardner classifica, riconoscendone ben sette: intelligenza
linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale, corpo-cinestetica,
interpersonale ed intrapersonale. Successivamente, ad esse vengono aggiunte
anche l'intelligenza naturalistica ed esistenziale o sociale,
ossia, quell'abilità che permette di capire le persone, distinguere i propri
sentimenti, aspirazioni o desideri da quelli altrui, comprendere situazioni
diverse e sapersi destreggiare in ambienti non abituali. In pratica è una forma
di intelligenza che consente di saper cogliere le regole della vita, i pregi e
i limiti della vita di gruppo, imparando a distinguere le diverse sfumature,
oltre naturalmente alla capacità di accettare gli altri nel nostro universo e
allo tesso tempo il nostro nel loro. Le diverse intelligenze tendono quindi a
sovrapporsi e ad influenzarsi vicendevolmente, rendendoci tutti normalmente
diversi e diversamente intelligenti, dotando ogni soggetto della capacità di di
svilupparsi e costruire la propria individualità in base alle proprie
specifiche potenzialità. Prendendo le distanze da dal concetto di intelligenza
intesa come una capacità innata ed immodificabile, diversi studiosi concordano
nel considerare l'intelligenza come una facoltà che permette l'adattamento a
situazioni simili e nuove, o più complesse rispetto a situazioni note ed
esperienze vissute; un processo talmente vasto che consente di abbracciare una
molteplicità di fenomeni che hanno in comune la dinamica e la meccanica
dell'adattamento. L'intelligenza non è più allora una struttura statica ma un
sistema aperto e dinamico che continua a svilupparsi durante tutto l'arco della
vita.
Negli anni '90 Goleman
definisce il concetto intelligenza emotiva
che rappresenta la capacità di sapersi porre adeguatamente nelle
diverse situazioni della vita. Andando smarrendosi la dimensione dialogica,
relazionale ed affettiva, per l'uomo moderno
facile ritrovarsi in una dimensione isolata in cui, l'uso di alcol,
droga spingono molte persone a trovare rimedio nel suicidio e l'omicidio.
Aggressività e sofferenza sono ormai le parole chiave della nostra epoca e
nella fretta quotidiana, costellate dalla mancanza di gioia di vivere e dalla
scarsa consapevolezza di se stessi.
Emozione e conoscenza non
sono quindi in contrapposizione ma sono estremamente interconnesse; senza la
spinta motivazionale data dall'emozione, senza la passione che spinge ad agire
con entusiasmo, non è possibile raggiungere livelli adeguati di felicità,
benessere e consapevolezza. L'armonia tra mente e corpo si raggiunge attraverso
l'empatia, ossia l'abilità nell'assumere la prospettiva altrui,
accettando le differenze mediante l'abbattimento delle barriere e dei
pregiudizi. Oggi viviamo in un'era sempre più pluralista basata sul rispetto
reciproco e sulla costruzione di una realtà che richiede la partecipazione di
tutti i cittadini; saper ascoltare, prestare orecchio alle richieste e alle
parole altrui, significa gettare le basi per una convivenza civile, pacifica ed
una vita democratica.
Il quoziente emotivo si
differenzia da quello intellettivo perché il test di misurazione non termina
con un punteggio che indica quanta intelligenza emotiva abbiamo ma più
semplicemente invita il soggetto a riflettere sulle proprie emozioni. Il mondo
dell'istruzione è ancora sotto il pieno dominio dell'intelligenza razionale; la
scuola dovrebbe aprirsi alla concezione che senza un adeguato supporto
dell'intelligenza emotiva, si corre il rischio di considerare l'insuccesso
scolastico soltanto come una carenza o una inadeguato utilizzo dell'intelletto
nei riguardi delle discipline. L'autostima e la fiducia in sé sono invece
indispensabili per vivere consapevolmente e sapersi relazionare con gli altri
in modo appropriato; ecco perché la didattica, se vuol essere realmente
efficace, deve aprire i propri orizzonti alla vita emotiva degli studenti ed
adottare tutte le strategie necessarie per rinforzare la fiducia nelle loro
capacità[5].
L'emozione come strumento per conoscere
Abbiamo già avuto modo di
parlare dell'emozione, definendola come motore della vita infatti, è grazie a
questa forza che l'uomo è spinto ad agire, relazionarsi, muoversi ed effettuare
scelte. L'emozione è ciò che permette di rendere un dialogo più o meno
costruttivo, è il collante che permette di trasformare le relazioni in maniera
più o meno significativa.
Dice bene Galimberti[6]
quando afferma che il male nichilista dei giovani d'oggi è dettato
prevalentemente da una sorta di anestesia collettiva, ossia
dall'incapacità moderna di vivere in maniera reale, intensa e costruttiva le
proprie emozioni. E' come se esistesse un distacco da questa sfera che non
permette di accedere alla dimensione più profonda dell'uomo e che lo
categorizza come tale. Parlare di alfabetizzazione emotiva significa allora
cominciare a riconoscere le emozioni, individuarle come tali ed utilizzarle in
maniera costruttiva, ossia, come strumento di conoscenza. La tendenza dei
giovani d'oggi, invece, forse per cause culturali, per mutamenti epocali, per
la crisi dei valori, ecc., è invece quella di prendere le distanze dalla vita
emotiva divenendo quindi degli automi soggetti agli stimoli esterni in maniera
passiva ed acritica. Per i giovani è difficile allora che la scuola rappresenti
un'occasione importante per crescere e maturare, quando a priori è stato
decretato un inaridimento della sfera emotiva. Una cultura che tiene conto
soltanto della sfera intellettiva senza preoccuparsi che un bambino, un
adolescente, un uomo devono maturarsi anche emozionalmente, decreta già in
partenza il fallimento del proprio progetto formativo. Non c'è da meravigliarsi
se gli studenti sono sempre più demotivati, più imbarazzati davanti ai testi
scolastici e costantemente distratti. Dire ad un genitore: suo figlio è
continuamente distratto, non ha voglia, dovrebbe metterci più volontà, è
un'assurdità ed andrebbe ribaltata, chiedendo: cosa ho fatto io insegnante
per motivare questi ragazzi affinché siano in grado di interessarsi, motivarsi
e studiare?10
E la motivazione ad
apprendere non è qualcosa di automatico, che si innesca con un atto di
sacrificio e di volontà ma nasce grazie ad un interesse che si forma se dietro
vi è un'adeguata spinta emozionale[7].
Ecco allora che l'insegnante non è più chiamato a svolgere una mera azione
didattica con l'obiettivo di trasmettere conoscenze ma deve adesso guardare
alla propria professione con un'ottica diversa, dove la relazione, il prendersi
cura degli alunni, l'incoraggiamento, l'ascolto partecipato, l'empatia,
l'interesse attivo, divengono le parole chiave di questo lavoro così complesso
e difficile.
Un professionista
dell'incoraggiamento, che sa ascoltare e guidare l'allievo nel proprio cammino
di crescita culturale ed umana, non può che favorire lo sviluppo della sfera
emotiva dei soggetti, aiutandoli a gestire le proprie emozioni, a controllarle
e trasformarle. Se questo non avviene, se la scuola continua a proporsi come
agenzia formativa addetta unicamente alla erogazione di nozioni, rischiamo
veramente di non fornire una valida alternative alle opzioni autodistruttive
che la società propone in maniera sempre più massiccia ed invitante. La droga,
le estremizzazioni del sesso, gli omicidi e i suicidi sono soltanto alcuni
degli esempi di azioni regolate unicamente dall'incapacità di provare e gestire
le emozioni, dall'impossibilità di fermarsi di fronte a situazioni
inaccettabili.
Quando il deserto emotivo
avanza, quando la sfera delle emozioni sembra essersi spenta completamente, si
va alla ricerca di azioni estreme per verificare se qualcosa dentro si muove,
se esiste ancora una scintilla all'interno in grado di fare percepire il senso
di esserci realmente; ecco allora i gesti insensati come il lancio dei sassi
dal cavalcavia, le stragi, le torture agli animali, ecc.
La scuola deve allora
intervenire in maniera da favorire maggiormente la partecipazione dei bambini e
dei ragazzi alla vita, preparandoli soprattutto attraverso il dialogo, la
discussione di gruppo, l'ascolto individuale a prendere confidenza con la vita
emotiva, alimentandola giorno dopo giorno attraverso continue attenzioni e
stimoli positivi.
La sopravvivenza dell'uomo,
fin dai tempi più remoti è sempre stata determinata dalla guida che le emozioni
gli hanno fornito, avvertendolo dei pericoli imminenti e delle situazioni
favorevoli per conservarsi e proliferare. La conoscenza sensomotoria è quella
che riguarda gli organi di senso e consente la percezione degli stimoli, mentre
quella cognitiva coinvolge la neocorteccia e riguarda il riconoscimento e la
comprensione degli stimoli sensoriali ricevuti. Le informazioni sensoriali che
l'uomo riceve percorrono due vie: quella più rapida arriva al sistema limbico
ed innesca reazioni e risposte emotive; l'altra invece è più lenta e giunge
alla neocorteccia che fornisce una risposta cognitiva. La velocità della
risposta determina un comportamento immediato rispetto a quelle dettate dalla
razionalità. I domini conoscitivi riguardano allora tre canali diversi
ma allo stesso tempo comunicanti: sensoriale, emotivo e cognitivo
che si incontrano e si uniscono per dar vita alla conoscenza. La
razionalità prevarrà quando è necessario un comportamento ponderato e
consapevole mentre in altri contesti sarà l'istinto a prevalere; le scelte che
ogni individuo prende nella propria vita, sono connesse ai comportamenti che
ogni volta decidiamo di utilizzare e questi sono legati al modo in cui
intendiamo leggere la realtà e al tipo di filtro che utilizziamo in quel
momento. Condizionamenti sociali, educazione, ideologie, tutto concorre a
favorire o meno una lettura della realtà con il cuore o con la mente,
determinando quindi una maggiore o minore coloritura affettiva delle
informazioni acquisite e delle risposte fornite all'ambiente.
Se i significati emotivi,
all'interno della società sono maggiormente coltivati, allora le persone
tenderanno a promuovere una cultura basata maggiormente sulla dimensione
comunitaria, sul sostegno, sul mutuo-aiuto, favorendo l'unità e l'incontro.
Diversamente, si avranno soltanto scissioni, conflitti ed isolamento, dettati
dall'incomprensione e dall'incapacità di mettere in sintonia il proprio
“apparato” emotivo con quello altrui.
Ecco perché la formazione
gioca un ruolo importante all'interno di questo delicato meccanismo; se la
scuola non getta le basi per un'educazione al “comprendere” e al “sentire”,
rischiamo di generare una società sterile, dove regnano unicamente le logiche
del profitto, della sopraffazione e dell'individualismo più acceso.
La trasmissione di
contenuti, modelli e ideologie tipica di una educazione tradizionale, deve
progressivamente lasciare il posto ad un'educazione improntata maggiormente sul
modello della piantina che cresce e dell'insegnante che la pota, la cura e la
nutre, ossia, dell'educatore che incoraggia, motiva, agevola e predispone
all'apprendimento.
La conoscenza dei processi
di sviluppo e delle leggi della maturazione psichica consente di effettuare
interventi calibrati sul soggetto e sul sistema, al fine di ottenere le
condizioni più agevoli e migliori per una sana crescita psicofisica
dell'allievo. Essere coscienti del fatto che non esistono regole standard e
ricette universali per educare, aiuta a far comprendere che ogni individuo è
unico ed irripetibili e che spetta all'educatore scorgere i bisogni formativi
soggettivi, al fine di motivare nel miglior modo possibile ed aiutare a
raggiungere gli obiettivi prefissi in maniera autonoma e responsabile.
Sappiamo che l'apprendimento
è facilitato dalla voglia di imparare e perché ciò avvenga occorre che in ogni
momento l'allievo sperimenti il successo e la soddisfazione che segue l'aver
appreso un concetto. Se invece la nozione impartita non suscita nessuna
reazione emotiva in quanto sterile nella sua trasmissione, il dato registrato
sarà solamente memorizzato e quindi destinato ad una vita breve e a non
rientrare all'interno di una cornice di senso più ampia.
Il lavoro del pedagogista
deve cavalcare l'onda dell'empatia, vestendo continuamente i panni del soggetto
così da comprendere realmente quali siano le motivazioni, i bisogni più
nascosti, i perché di determinati gesti ed arrivare a scorgere le reali
aspirazioni e desideri futuri.
E' attraverso la relazione
che si riesce a costruire le basi per un sano e corretto sviluppo psicofisico
dell'allievo; la relazione è il ponte attraverso il quale passano non soltanto
le informazioni ma anche le cariche emotive in grado di sorreggere e fare da
collante al tutto, rendendo il percorso formativo più o meno significativo. La
relazione permette di orientare gli sforzi in maniera tale da far emergere
l'individualità di ognuno, al di là di ogni tentativo di omologazione e
massificazione; una buona relazione aiuta il soggetto a far emergere quello che
realmente è, fornendo gli strumenti affinché ognuno possa effettivamente
ottenere il nutrimento di cui necessita per la propria maturazione.
La didattica mediata dall'emozione
Abbiamo detto in precedenza
che un pedagogista che non tiene conto dei gesti del soggetto, del suo umore,
dei cambiamenti nei modi di porsi, di vestirsi, ecc. è un professionista che al
centro del processo formativo non mette il soggetto ma il programma da portare
a termine e questo con tutte le conseguenze che ne derivano.
Un pedagogista o un docente
che non presta attenzione alla persona con cui quotidianamente interagisce,
rischia veramente di non assolvere al compito che fondamentalmente è alla base
della sua professione: aiutare gli allievi a crescere come persone, intellettualmente
e culturalmente, ottenendo il loro spontaneo coinvolgimento nelle attività di
apprendimento. Le discipline impartite, affinché possano divenire parti
costitutive della personalità di ognuno, occorre che prendano le mosse dal
coinvolgimento emotivo e questo compito spetta all'insegnante e al suo modo di
porsi nei riguardi degli allievi.
Senza motivazioni positive
non si creano le premesse per un apprendimento propriamente detto, tuttavia è
importante ricordare che gestire l'emozioni all'interno di una classe, come
all’interno dello studio del professionista, sia un compito tutt'altro che
semplice, infatti, pochi pedagogisti o docenti hanno una preparazione specifica
in materia, atta non soltanto a riconoscere i diversi stati emotivi dei ragazzi,
ma di essere in grado di gestirle e di tradurle in comportamenti costruttivi.
Davanti al pianto la prima
reazione è quella di bloccare le lacrime, così come di fronte alle grida di
rabbia si pensa sia bene inibire questa reazione. Vivere liberamente le
emozioni, invece, consente di
riacquistare quell'equilibrio psicologico che altrimenti porterebbe
soltanto malessere, ansia e tensioni; ecco perché è sempre importante non
inibire, non rimuovere e cercare la via migliore affinché non si inneschino
inutili e dannosi meccanismi di difesa.
Il pedagogista deve prestare
attenzione al linguaggio degli allievi, anzi, ai linguaggi degli allievi perché
l'uomo non si esprime soltanto verbalmente ma anche con il corpo attraverso il
gesto, la postura, lo sguardo, ecc. Per capire realmente chi abbiamo davanti e
cosa sta accadendo, non possiamo escludere la comunicazione non verbale; il
corpo costantemente informa e parla, manifestando stati d'animo, tensioni e
pensieri dell'interlocutore. Sta al professionista cogliere questi aspetti e
prendere coscienza dei fatti, intervenendo in maniera costruttiva ogni volta
che lo studente emette un grido
d'allarme. Il docente deve allora continuamente stimolare i ragazzi o i bambini
a non accontentarsi mai per ciò che sanno e fanno, mostrando loro le risorse
che realmente possiedono e quanto poco facciano per farle emergere. Giocare
sulla volontà e sulle emozioni è fondamentale anche per questo, così si possono
davvero estinguere atteggiamenti di apatia e indifferenza che sempre più spesso
aleggiano nelle aule scolastiche di ogni ordine e grado. L'attività del docente
che funge da mediatore fra l'allievo da educare ed il mondo da conoscere,
permette al soggetto di sviluppare un pensiero divergente e creativo,
ragionando sulla base dei dati a disposizione ed ipotizzando strategie per
trovare soluzioni efficaci e funzionali. Attraverso l'ascolto reciproco e
l'osservazione, gli alunni hanno modo di sviluppare abilità sociali e
cooperative e non soltanto quelle di tipo competitivo; lavorando insieme e
mettendo le energie a disposizione del gruppo si possono ottenere risultati
migliori in tempi relativamente più brevi, mostrando come sia importante
integrare e far interagire mente-corpo ed emozione.[8]
[1] CFR. Goleman D., Intelligenza emotiva, Milano, Rizzoli, pp. 32 e ss.
[2] Cfr. Collacchioni L., Insegnare emozionando, emozionare insegnando, Del Cerro, Pisa,
2006.
[3] Mannucci A. (a cura di), L’emozione fra corpo e mente, educazione,
comunicazione e metodologie, Del Cerro, Pisa, 2006, pp. 12 e ss.
[4] Gardner H., op. cit., pp. 56 e ss.
[5]
Mannucci A. Landi M., Collacchioni L., Per una Pedagogia e una
Didattica delle Emozioni, Del Cerro, Tirrenia (Pisa), 2006, pp. 40 e ss.
[6]
Galimberti U., L'ospite inquietante, Serie Bianca Feltrinelli,
Milano, 2007. pp. 50 e ss.
[7] 10 Su questi aspetti della motivazione e
dell'apprendimento si è interessato soprattutto Guido Petter. Cfr. Petter G., Il
Mestiere di Insegnante, Giunti, Prato, 2007.
[8] Cfr. Mannucci A., Landi M., Collacchioni L.,
op cit..
[1] CFR. Isidori E., La Pedagogia come Scienza del Corpo, Anicia, Roma, 2002
[2] CFR. Siringano F. M., La Pedagogia della Formazione, Liguori, Napoli, 2003
[3] CFR C. Castellani, La regola celeste di Lao Tse, Sansoni Editore, Firenze, 1971, pp.
23 e ss.
[4] CFR: Balduzzi L. (a cura di), Voci
del corpo, La Nuova Italia, Firenze, 2002, pp. 11 e ss.
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