La pedagogia Olistica: una scienza antica dal volto moderno
1. La Pedagogia generale e sociale
Nei precedenti saggi, abbiamo avuto modo di approfondire gli aspetti più
importanti della pedagogia e di mettere in risalto il suo volto più attuale;
abbiamo definito la pedagogia come scienza dei processi formativi e visto come
il suo come campo di lavoro e di interessi sia l’educazione e quindi il
cambiamento dell'individuo. Più precisamente la pedagogia è stata inquadrata
come teoria dei processi educativi ed è stata scandagliata nei suoi diversi
piani epistemologici e professionali: etico filosofico, psicologico,
sociologico, didattico e relazionale[1].
Abbiamo altresì accennato come questa contaminazione contenutistica abbia reso la pedagogica dipendente dalle altre discipline e l’abbia relegata in uno stato di “ancillarità” rispetto alle altre, fino ad arrivare (erano gli anni ‘80/ ’90) a parlare di una crisi della pedagogia, proprio a causa della mancanza di un proprio statuto epistemico. Questo ha generato una disordinata ricerca di scientificità di derivazione extradisciplinare, nonostante negli ultimi anni la pedagogia stia recuperando un assetto epistemologico basato essenzialmente sul modo di operare, detto clinico, che fu sperimentato nel passato da pedagogisti come Itard[2], Seguin[3], Montessori[4], Decroly[5], Claparede[6].
Abbiamo altresì accennato come questa contaminazione contenutistica abbia reso la pedagogica dipendente dalle altre discipline e l’abbia relegata in uno stato di “ancillarità” rispetto alle altre, fino ad arrivare (erano gli anni ‘80/ ’90) a parlare di una crisi della pedagogia, proprio a causa della mancanza di un proprio statuto epistemico. Questo ha generato una disordinata ricerca di scientificità di derivazione extradisciplinare, nonostante negli ultimi anni la pedagogia stia recuperando un assetto epistemologico basato essenzialmente sul modo di operare, detto clinico, che fu sperimentato nel passato da pedagogisti come Itard[2], Seguin[3], Montessori[4], Decroly[5], Claparede[6].
Se la pedagogia è la scienza che si occupa di studiare i
processi formativi, essa ha a che vedere da una parte con lo sviluppo, la
maturazione, la crescita e il cambiamento del soggetto nel tempo, in un
determinato contesto sociale, dall'altro all'unicità del soggetto e
all'irripetibilità delle sue scelte, interpretazioni e percorsi di vita. La
pedagogia moderna intesa come scienza centrata sul soggetto in formazione,
sembra essere un ottimo connubio tra queste visioni solo apparentemente
antitetiche. La pedagogia è e si fa per la persona intesa come un’ unicità che
è sì destinataria di un suo privato percorso formativo ma allo stesso tempo
aperta alle realtà altre, incrociando persone, percorsi e tracciati diversi che
la vedono inserita sempre e comunque in un determinato contesto di vita.
Il Pedagogista si definisce tale in quanto il suo è un approccio di tipo individuale, basato sulla persona e la valenza del termine giustifica anche i paradigmi fondanti della pedagogia, che abbiamo visto essere fondamentali nel corso di pedagogia sociale: l’empiricità, l’individualità e l’ecologia.
La pedagogia ha come oggetto di studio il soggetto individuandone i bisogni formativi al fine di inquadrare un percorso educativo atto a favorire cambiamenti, intesi in termini di crescita, maturazione ed aiuto allo sviluppo.
Il Pedagogista si definisce tale in quanto il suo è un approccio di tipo individuale, basato sulla persona e la valenza del termine giustifica anche i paradigmi fondanti della pedagogia, che abbiamo visto essere fondamentali nel corso di pedagogia sociale: l’empiricità, l’individualità e l’ecologia.
La pedagogia ha come oggetto di studio il soggetto individuandone i bisogni formativi al fine di inquadrare un percorso educativo atto a favorire cambiamenti, intesi in termini di crescita, maturazione ed aiuto allo sviluppo.
Ormai la ricerca da più parti è impegnata su
questo fronte, già Massa[7] parlava di “clinica della
formazione” intendendo con questo termine la necessità di inquadrare il
discorso formativo centrandolo sul singolo, considerato nella propria unicità e inteso come portatore di bisogni particolari, dai quali occorre
partire per elaborare un progetto che abbia come obiettivo il cambiamento[8].
Come
insegnante di scuola primaria è stato importante riflettere sulla pedagogia
sociale, inquadrando le problematiche relative al processo educativo in termini
sia di relazione che di apprendimento.
Per favorire l’apprendimento abbiamo avuto bisogno però di metterci a
studiare i processi (e in questo ci ha aiutato la psicologia dello sviluppo e
la psicologia legata allo studio dei disturbi specifici di apprendimento), i
progetti e gli interventi che ci consentono di arrivare a dei risultati, intesi
in termini di cambiamento, che scaturiscono proprio dall’obiettivo di produrre
un apprendimento consapevole, cioè voluto e cercato, ossia razionale, come può
essere un corso intrapreso di propria spontanea volontà. La formazione, oggetto
di studio della pedagogia, si manifesta come processo, ossia come un
coinvolgimento allievo/docente, che fa scattare la molla dell’esigenza di
apprendere, ovvero di cambiare, o di qualcosa che porti comunque ad una
radicale trasformazione. Da questa premessa si procede all'identificazione del
bisogno, ossia all’individuazione del problema che si è manifestato e si
razionalizza, nel migliore dei casi, per vedere dove è necessario il
miglioramento o il cambiamento da promuovere. Si arriva così alla definizione
del problema che è la vera e propria diagnosi necessaria per risolvere la
situazione e dalla quale scaturirà una ipotesi di soluzione, ossia delle idee che possono aiutarci e guidare
verso la soluzione più ottimale del problema che, in questa sede, si
concretizza come domanda di formazione. Insomma, partendo dalle nozioni
maturate anche in ambito della psicologia generale e dello sviluppo del corso
di specializzazione, è possibile per il docente accogliere la domanda di formazione degli allievi e, da
questa presa di coscienza, pianificare e rispondere adeguatamente alle
specifiche richieste dei soggetti, selezionando strumenti adeguati e
focalizzando obiettivi mirati. Se perciò la Formazione, in generale, indica
qualunque pratica consapevole e intenzionale per l’apprendimento,
la pedagogia sociale intende cogliere il bisogno educativo di quella specifica
realtà sociale, come la scuola o una determinata comunità. La Formazione
attinge direttamente dal mondo della vita (Fenomenologia di Husserl), con la
sua materialità Educativa, attraverso
le dinamiche esterne e interne, similmente ad una reazione chimica, le quali,
rendono possibile il processo formativo. La pedagogia studiando i processi
formativi, va alla ricerca dei nessi, dei punti contatto, della
mediazione educativa possibile tra il mondo della vita e quello della
Formazione, agendo in modo intenzionale e facendo tesoro dei metodi elaborati
dalle discipline connesse alla Pedagogia: la Medicina, la Psicologia, la
Psicoanalisi, la sociologia, ecc. Si approda quindi su un terreno diverso da
quello abituale della pedagogia classica. Non si parte più da una teoria
generale in grado di comprendere tutte le situazioni problematiche pratiche ma
al contrario, le moderne scienze dell'educazione propongono sguardo empirico,
fondato cioè sull’esperienza. La pedagogia non si identifica mai comunque con
le discipline ad essa affini ma si differenzia da esse, facendo delle ricerche
sociologiche e psicologiche la base da cui partire per approfondire le
tematiche di natura educativa e cercare le soluzioni specifiche al caso.
Il pedagogista, così come l'insegnante e l'educatore,
interverrà allora in modo diverso da chi ha un approccio medico/sanitario, non
agirà come si fa con il malato per conoscere la patologia, ma anzi, andrà oltre
il disturbo o la difficoltà stessa per rilevare i punti di forza e aggirare
l'ostacolo. Il docente e chiunque lavori in ambito educativo, si trova in una
situazione diversa da quella di altri professionisti (psicologo, medico, ecc);
non ha da classificare una patologia e non ha la pretesa di debellare un
disturbo; non è sufficiente cercare di inquadrare la natura del problema di chi
si ha davanti perché bisogna entrare in situazioni più complesse
che hanno a che vedere con la relazione fra docente e allievo e fra allievo e
compagni. Occorre insomma capire la realtà in cui il soggetto si trova immerso
(famiglia) e far luce sui processi
e le dinamiche senza classificarle o
etichettarle. Significa, in poche parole, mettersi nei panni dell’altro e
considerare normali e naturali anche il malessere, il disagio e la malattia,
nel senso che i momenti di cambiamento e di crisi fanno parte del normale
andamento evolutivo dell'uomo. Il giusto atteggiamento pedagogico è sempre in
evoluzione perchè strettamente connesso all'apprendimento e alla relazione con
gli allievi; la conoscenza che il
docente deve maturare è quella connessa non alla sterile ripetizione di modelli
appresi ma alla volontà sincera di ricerca, oltrepassando quindi un sapere che
viene calato dall’alto come il medico che si china per diagnosticare un male,
arrivando invece ad un'autentica
complicità tra Formatore e Formando,
fondata sullo scoprire e imparare insieme.
L'insegnamento, fondato sui moderni principi pedagogici è un percorso legato al sottile filo della relazione che non può non essere di buona qualità; senza una forte relazione con gli allievi, fondata sul rispetto, la fiducia e l'empatia, non è possibile arrivare ad esplorare, ad approfondire la vita vissuta e ad attivare i meccanismi necessari per un apprendimento di qualità, ben oltre quindi la memorizzazione di sterili nozioni assimilate durante le ore di lezione. Durante il corso di specializzazione abbiamo avuto modo di approfondire i temi della psicologia e di esplorare i modelli derivanti dalla psicoanalisi; la pedagogia deve molto ai contributi di queste discipline come abbiamo ribadito più volte, tuttavia, è doveroso ricordare che il docente o l'educatore è chiamato ad insegnare, ad attivare i processi di apprendimento facendo attenzione però a non confondere i ruoli e chiarendo che non deve esistere la pretesa di fare gli psicologi o i terapeuti, perché, prima di tutto non c’è la preparazione adatta e poi perché il sapere preso in prestito dalla psicanalisi non viene utilizzato per interpretare il mondo interno dei soggetti, ma viene utilizzato come schema di lavoro e di interpretazione di quegli elementi impliciti non espressi direttamente dal soggetto in formazione. Il concetto di formazione qui espresso, comunque, non deve basarsi unicamente sull’adozione dell’impianto di analisi e decodificazione derivato dalla pratica psicoanalitica, anzi, occorre rielaborare tutto quanto per meglio adeguarlo al terreno incerto della realtà educativa, come quella scolastica, creando un setting specifico capace di supportare le variabili di ogni situazione con la quale occorre entrare in contatto per conoscerne i particolari e i processi dinamici che esigono una risposta concreta.
Lo spazio, o setting educativo non è uno soltanto uno spazio simbolico ma assume una vera e propria dimensione fisica; esso può coincidere con l’aula della classe o con il laboratorio per gli apprendimenti ed è il terreno sul quale nasce e si coltiva la relazione educativa insegnante/allievo, fondamento essenziale per ogni cambiamento. Dal gioco delle relazioni e dai rapporti che si vengono a costituire tra gli allievi e tra allievi e insegnanti, si viene a definire un clima che può favorire o meno gli apprendimenti, che è sempre in evoluzione (o involuzione), che richiede comunque continui ripensamenti e adattamenti per meglio rispondere alle diversificate esigenze di ognuno. Le regole e i ruoli possono essere discussi insieme all’interno dell’aula, possono cioè essere costantemente ridefiniti e messi sotto i riflettori dell’analisi, in modo da evitare ogni forma di inutile autoritarismo e di decisione unilaterale da parte del docente.
L’atteggiamento dell’insegnante deve perciò essere attento non soltanto ai singoli elementi del processo educativo ma deve essere sensibile anche allo spazio vissuto quotidianamente dai protagonisti dell’attività formativa, come appunto le aule, gli strumenti, gli oggetti utilizzati; non sono in gioco soltanto gli elementi rappresentazionali e le dinamiche relazionali ma vi è dietro, come una figura sfondo tutto un contesto materiale che non può essere lasciato al caso. Proprio per questo, nei percorsi di ricerca delle scienze dell’educazione sono presenti sia la dimensione esperienziale che quella sperimentale, cercando di donare importanza a tutti quegli elementi che entrano in gioco nella relazione educativa ma che talvolta rimangono in ombra, non vengono espressi, rimangono cioè impliciti; ecco allora la necessità di passarli al vaglio per meglio evidenziarli a capirne non solo la natura ma anche la posizione che assumono nell’essere in rapporto con gli altri elementi della dialettica formativa[9].
L’attività di ricerca dovrebbe, secondo me, essere svolta proprio all’interno della classe, dove l’insegnante, impegnato sul campo con gli allievi, attiva un processo circolare di teoria-prassi, ovvero un continuo confronto della ricerca con l’esperienza. Questo processo evolutivo ed interpretativo di tipo squisitamente ermeneutico, mette in risalto
L'insegnamento, fondato sui moderni principi pedagogici è un percorso legato al sottile filo della relazione che non può non essere di buona qualità; senza una forte relazione con gli allievi, fondata sul rispetto, la fiducia e l'empatia, non è possibile arrivare ad esplorare, ad approfondire la vita vissuta e ad attivare i meccanismi necessari per un apprendimento di qualità, ben oltre quindi la memorizzazione di sterili nozioni assimilate durante le ore di lezione. Durante il corso di specializzazione abbiamo avuto modo di approfondire i temi della psicologia e di esplorare i modelli derivanti dalla psicoanalisi; la pedagogia deve molto ai contributi di queste discipline come abbiamo ribadito più volte, tuttavia, è doveroso ricordare che il docente o l'educatore è chiamato ad insegnare, ad attivare i processi di apprendimento facendo attenzione però a non confondere i ruoli e chiarendo che non deve esistere la pretesa di fare gli psicologi o i terapeuti, perché, prima di tutto non c’è la preparazione adatta e poi perché il sapere preso in prestito dalla psicanalisi non viene utilizzato per interpretare il mondo interno dei soggetti, ma viene utilizzato come schema di lavoro e di interpretazione di quegli elementi impliciti non espressi direttamente dal soggetto in formazione. Il concetto di formazione qui espresso, comunque, non deve basarsi unicamente sull’adozione dell’impianto di analisi e decodificazione derivato dalla pratica psicoanalitica, anzi, occorre rielaborare tutto quanto per meglio adeguarlo al terreno incerto della realtà educativa, come quella scolastica, creando un setting specifico capace di supportare le variabili di ogni situazione con la quale occorre entrare in contatto per conoscerne i particolari e i processi dinamici che esigono una risposta concreta.
Lo spazio, o setting educativo non è uno soltanto uno spazio simbolico ma assume una vera e propria dimensione fisica; esso può coincidere con l’aula della classe o con il laboratorio per gli apprendimenti ed è il terreno sul quale nasce e si coltiva la relazione educativa insegnante/allievo, fondamento essenziale per ogni cambiamento. Dal gioco delle relazioni e dai rapporti che si vengono a costituire tra gli allievi e tra allievi e insegnanti, si viene a definire un clima che può favorire o meno gli apprendimenti, che è sempre in evoluzione (o involuzione), che richiede comunque continui ripensamenti e adattamenti per meglio rispondere alle diversificate esigenze di ognuno. Le regole e i ruoli possono essere discussi insieme all’interno dell’aula, possono cioè essere costantemente ridefiniti e messi sotto i riflettori dell’analisi, in modo da evitare ogni forma di inutile autoritarismo e di decisione unilaterale da parte del docente.
L’atteggiamento dell’insegnante deve perciò essere attento non soltanto ai singoli elementi del processo educativo ma deve essere sensibile anche allo spazio vissuto quotidianamente dai protagonisti dell’attività formativa, come appunto le aule, gli strumenti, gli oggetti utilizzati; non sono in gioco soltanto gli elementi rappresentazionali e le dinamiche relazionali ma vi è dietro, come una figura sfondo tutto un contesto materiale che non può essere lasciato al caso. Proprio per questo, nei percorsi di ricerca delle scienze dell’educazione sono presenti sia la dimensione esperienziale che quella sperimentale, cercando di donare importanza a tutti quegli elementi che entrano in gioco nella relazione educativa ma che talvolta rimangono in ombra, non vengono espressi, rimangono cioè impliciti; ecco allora la necessità di passarli al vaglio per meglio evidenziarli a capirne non solo la natura ma anche la posizione che assumono nell’essere in rapporto con gli altri elementi della dialettica formativa[9].
L’attività di ricerca dovrebbe, secondo me, essere svolta proprio all’interno della classe, dove l’insegnante, impegnato sul campo con gli allievi, attiva un processo circolare di teoria-prassi, ovvero un continuo confronto della ricerca con l’esperienza. Questo processo evolutivo ed interpretativo di tipo squisitamente ermeneutico, mette in risalto
l' aspetto fondamentale legato alla dimensione linguistica, infatti, non si
possono conoscere i bisogni degli allievi se non attraverso la comunicazione
linguistica.
La pedagogia moderna lavora proprio su ciò che viene espresso, ovvero sul modo in cui vengono esposti i problemi, sul modo di esprimersi e sul linguaggio usato dai soggetti che devono produrre dei testi scritti, basandosi molto sulle esperienze personali. Partendo da qui, si fa un’interpretazione per vedere come gli alunni percepiscono se stessi, il mondo che li circonda, la realtà in cui sono inseriti, la famiglia di appartenenza, ecc., in modo da valorizzare quello che emerge, così da aiutare i ragazzi o i bambini ad emanciparsi progressivamente nel modo di pensare e sentire.[10]
L’attività educativa svolta in aula, così come ogni percorso formativo assume un ruolo importante all’interno della riflessione pedagogica; abbiamo più volte affermato che nell’atto di insegnare/istruire però, non tutti gli elementi in gioco vengono espressi direttamente, anzi, molti di essi rimangono latenti, non verbalizzati e tuttavia gravano sulla qualità della relazione comunicativa stessa, rimanendo sempre in ombra.
Questi elementi non espressi, non verbalizzati, tutta la dimensione nascosta della relazione, determina un sentire negli attori, una percezione che però non ha un volto ben definito, non è espressa e che quindi rimane a livello di semplice sensazione. attriti latenza si riferisce ad aspetti della formazione meno percepiti e più impliciti. In educazione è sempre viva la metafora del rifugio, di un luogo protetto e appartato, una nicchia, che assume le sembianze di uno speciale spazio interiore, nel quale si possono decifrare e rielaborare le rappresentazioni mentali e i vissuti affettivi delle esperienze formative vissute, in modo da capire le dinamiche e i processi che li hanno generati cercando di decifrarli e di donargli un senso che abbiano un significato ed una risonanza interiore tale da consentire di accordarle con le precedenti esperienze personali.
In poche parole, possiamo dire che gli elementi fondanti della pedagogia moderna, sono da una parte la dimensione esperienziale che riguarda il fare di tutti i giorni, dall'altra la dimensione sperimentale che è la vera e propria ricerca, che è frutto dell’integrazione e della rielaborazione dei materiali forniti dalla sociologia, dalla psicanalisi, ecc., , fino ad arrivare alla dimensione linguistica, legata appunto al linguaggio parlato, il tutto, si realizza all'interno di una complessa dinamica, di un processo, appunto, circolare (ermeneutico) di teoria-prassi[11].
Anche Crispiani ha dedicato molte ricerche in favore della pedagogia, contribuendo con i suoi studi a definire meglio le competenze dell’insegnante/pedagogista, ipotizzando metodi, strumenti, lessico e ambiti di lavoro. Per Crispiani[12] si deve ad Itard, medico e pedagogista dei primi dell’Ottocento, la nascita della pedagogia, intesa come connubio tra scienze dello sviluppo e scienze dell’educazione che oggi è alla base della scientificità della pedagogia.
Per tutti i docenti di ogni ordine e grado credo sia importante approfondire lo studio condotto da Itard sul fanciullo selvaggio; questo perché da un lato ci aiuta ad apprezzare la specificità di ogni singolo alunno, al di là delle tendenze attuali di omologare tutto e tutti, assecondando una logica classista fondata sul rendimento, dall’altra perchè le ricerche emerse aiutano ad individuare le diverse fasi dello sviluppo dell’uomo utili per capire gli allievi nel processo di osservazione. E’ utile imparare quindi la distinzione tra condizioni organiche e funzionali, ponendo l’attenzione non solo sull’influenza che la situazione di vita esercita sul percorso formativo del soggetto, ma anche sul condizionamento esercitato dalla disabilità stessa, dai ritardi o deprivazioni ai quali gli alunni possono essere soggetti.
Nell’osservare il fanciullo selvaggio, Itard attuò una serie di atti importantissimi per la pedagogia: l’osservazione diretta ed empirica del fanciullo, l’osservazione sia in condizioni spontanee che provocate, la redazione di una diagnosi funzionale completa sulla funzione motoria, percettiva,emotiva, affettiva, intellettiva, linguistica e sociale, infine, l’elaborazione di un progetto educativo per mete, obiettivi ed ipotesi di lavoro.
Itard partì dalla considerazione che il fanciullo selvaggio, non potendo essere confrontato con nessun altro individuo, doveva essere studiato nella sua singolare unicità e doveva essere confrontato solo con se stesso . Per questo motivo, lo studio del medico pedagogista sul fanciullo procedette attraverso l’osservazione empirica e fenomenica dei comportamenti e attraverso il coinvolgimento delle funzione biologiche complete della persona.
Rilevando la stretta relazione tra l’educazione e lo sviluppo delle funzioni umane, Itard pone le basi professionali per la pedagogia moderna, dando vita all’impianto della nuova disciplina basandosi essenzialmente su diversi modelli di riferimento, come la distinzione organico-funzionale riguardante la duplice natura delle patologie e dei comportamenti umani, arrivando ad intuire se i deficit mentali sono congeniti o acquisiti ed applicando progetti educativi specifici e calibrati sul deficit riscontrato.
La pedagogia moderna lavora proprio su ciò che viene espresso, ovvero sul modo in cui vengono esposti i problemi, sul modo di esprimersi e sul linguaggio usato dai soggetti che devono produrre dei testi scritti, basandosi molto sulle esperienze personali. Partendo da qui, si fa un’interpretazione per vedere come gli alunni percepiscono se stessi, il mondo che li circonda, la realtà in cui sono inseriti, la famiglia di appartenenza, ecc., in modo da valorizzare quello che emerge, così da aiutare i ragazzi o i bambini ad emanciparsi progressivamente nel modo di pensare e sentire.[10]
L’attività educativa svolta in aula, così come ogni percorso formativo assume un ruolo importante all’interno della riflessione pedagogica; abbiamo più volte affermato che nell’atto di insegnare/istruire però, non tutti gli elementi in gioco vengono espressi direttamente, anzi, molti di essi rimangono latenti, non verbalizzati e tuttavia gravano sulla qualità della relazione comunicativa stessa, rimanendo sempre in ombra.
Questi elementi non espressi, non verbalizzati, tutta la dimensione nascosta della relazione, determina un sentire negli attori, una percezione che però non ha un volto ben definito, non è espressa e che quindi rimane a livello di semplice sensazione. attriti latenza si riferisce ad aspetti della formazione meno percepiti e più impliciti. In educazione è sempre viva la metafora del rifugio, di un luogo protetto e appartato, una nicchia, che assume le sembianze di uno speciale spazio interiore, nel quale si possono decifrare e rielaborare le rappresentazioni mentali e i vissuti affettivi delle esperienze formative vissute, in modo da capire le dinamiche e i processi che li hanno generati cercando di decifrarli e di donargli un senso che abbiano un significato ed una risonanza interiore tale da consentire di accordarle con le precedenti esperienze personali.
In poche parole, possiamo dire che gli elementi fondanti della pedagogia moderna, sono da una parte la dimensione esperienziale che riguarda il fare di tutti i giorni, dall'altra la dimensione sperimentale che è la vera e propria ricerca, che è frutto dell’integrazione e della rielaborazione dei materiali forniti dalla sociologia, dalla psicanalisi, ecc., , fino ad arrivare alla dimensione linguistica, legata appunto al linguaggio parlato, il tutto, si realizza all'interno di una complessa dinamica, di un processo, appunto, circolare (ermeneutico) di teoria-prassi[11].
Anche Crispiani ha dedicato molte ricerche in favore della pedagogia, contribuendo con i suoi studi a definire meglio le competenze dell’insegnante/pedagogista, ipotizzando metodi, strumenti, lessico e ambiti di lavoro. Per Crispiani[12] si deve ad Itard, medico e pedagogista dei primi dell’Ottocento, la nascita della pedagogia, intesa come connubio tra scienze dello sviluppo e scienze dell’educazione che oggi è alla base della scientificità della pedagogia.
Per tutti i docenti di ogni ordine e grado credo sia importante approfondire lo studio condotto da Itard sul fanciullo selvaggio; questo perché da un lato ci aiuta ad apprezzare la specificità di ogni singolo alunno, al di là delle tendenze attuali di omologare tutto e tutti, assecondando una logica classista fondata sul rendimento, dall’altra perchè le ricerche emerse aiutano ad individuare le diverse fasi dello sviluppo dell’uomo utili per capire gli allievi nel processo di osservazione. E’ utile imparare quindi la distinzione tra condizioni organiche e funzionali, ponendo l’attenzione non solo sull’influenza che la situazione di vita esercita sul percorso formativo del soggetto, ma anche sul condizionamento esercitato dalla disabilità stessa, dai ritardi o deprivazioni ai quali gli alunni possono essere soggetti.
Nell’osservare il fanciullo selvaggio, Itard attuò una serie di atti importantissimi per la pedagogia: l’osservazione diretta ed empirica del fanciullo, l’osservazione sia in condizioni spontanee che provocate, la redazione di una diagnosi funzionale completa sulla funzione motoria, percettiva,emotiva, affettiva, intellettiva, linguistica e sociale, infine, l’elaborazione di un progetto educativo per mete, obiettivi ed ipotesi di lavoro.
Itard partì dalla considerazione che il fanciullo selvaggio, non potendo essere confrontato con nessun altro individuo, doveva essere studiato nella sua singolare unicità e doveva essere confrontato solo con se stesso . Per questo motivo, lo studio del medico pedagogista sul fanciullo procedette attraverso l’osservazione empirica e fenomenica dei comportamenti e attraverso il coinvolgimento delle funzione biologiche complete della persona.
Rilevando la stretta relazione tra l’educazione e lo sviluppo delle funzioni umane, Itard pone le basi professionali per la pedagogia moderna, dando vita all’impianto della nuova disciplina basandosi essenzialmente su diversi modelli di riferimento, come la distinzione organico-funzionale riguardante la duplice natura delle patologie e dei comportamenti umani, arrivando ad intuire se i deficit mentali sono congeniti o acquisiti ed applicando progetti educativi specifici e calibrati sul deficit riscontrato.
Insomma, la via pedagogica negli anni si è rivelata
un’importante strada che ha consentito agli educatori e agli insegnanti di
conoscere gli allievi e le loro potenzialità attraverso l’osservazione diretta
all’interno dei diversi contesti. Per accettare tutto questo è necessario
però partire dal presupposto
dell'educabilità dell'uomo in qualsiasi momento delle a vita, infatti, partendo
dal concetto che il fanciullo selvaggio, sollecitato dagli interventi educativi
dello stesso medico, poteva pervenire ad uno sviluppo delle capacità
biopsichiche, si può affermare che tutti gli individui sono perfettibili e
quindi possono essere
sottoposti ad interventi educativi che ottimizzino le funzioni evolutive. La pedagogia è uno strumento fondamentale che non può essere trascurato dal docente, anche perché è l’unica disciplina che, superando l’idea di classificare, etichettare e categorizzare,
mette al centro del lavoro educativo l’osservazione con l'intento iniziale di lasciarsi coinvolgere emotivamente, cognitivamente ed affettivamente nella situazione di studio, ma distaccandosene alla fine per elevarsi al livello di interprete degli stati emotivi dell’individuo in osservazione.
Un altro importante punto cardinale dell’impianto pedagogico risiede nel primato corporeo e sensoriale, mettendo l’accento sul condizionamento che le condotte e gli stati psicologici delle persone subiscono dalla dimensione biologica e l’azione conoscitiva dell’insegnante deve pertanto cominciare dalla realtà corporea e sensoriale dell’allievo, tenendo conto dell'importanza di considerare il soggetto in senso “ecologico”, ovvero non come una sommatoria di parti a se stanti ma come una totalità integrata. Con il termine “ecologia”si intende una presa in carico totale, infatti, Itard voleva tentare un approccio globale all’intera personalità dell’individuo, cercando di valutare tutti gli aspetti dell’intera unità bio-psichica operante.
Questo approccio è fondamentale in pedagogia; per l’insegnante è importante considerare lo sviluppo intellettivo dell’allievo in relazione a quello lo fisico e motorio, dal momento che, come abbiamo detto, la maturazione avviene attraverso un percorso in cui i diversi fattori si influenzano a vicenda. Questa visione “globale” della pedagogia che tiene conto del soggetto nella sua complessità e unicità, nel rispetto quindi della persona intesa come unica e irripetibile è stato ben evidenziato da Itard e dalla sua capacità di mettere in pratica questa concezione , nel senso che, studiando il fanciullo selvaggio, questi ha adottato un atteggiamento empirico.
sottoposti ad interventi educativi che ottimizzino le funzioni evolutive. La pedagogia è uno strumento fondamentale che non può essere trascurato dal docente, anche perché è l’unica disciplina che, superando l’idea di classificare, etichettare e categorizzare,
mette al centro del lavoro educativo l’osservazione con l'intento iniziale di lasciarsi coinvolgere emotivamente, cognitivamente ed affettivamente nella situazione di studio, ma distaccandosene alla fine per elevarsi al livello di interprete degli stati emotivi dell’individuo in osservazione.
Un altro importante punto cardinale dell’impianto pedagogico risiede nel primato corporeo e sensoriale, mettendo l’accento sul condizionamento che le condotte e gli stati psicologici delle persone subiscono dalla dimensione biologica e l’azione conoscitiva dell’insegnante deve pertanto cominciare dalla realtà corporea e sensoriale dell’allievo, tenendo conto dell'importanza di considerare il soggetto in senso “ecologico”, ovvero non come una sommatoria di parti a se stanti ma come una totalità integrata. Con il termine “ecologia”si intende una presa in carico totale, infatti, Itard voleva tentare un approccio globale all’intera personalità dell’individuo, cercando di valutare tutti gli aspetti dell’intera unità bio-psichica operante.
Questo approccio è fondamentale in pedagogia; per l’insegnante è importante considerare lo sviluppo intellettivo dell’allievo in relazione a quello lo fisico e motorio, dal momento che, come abbiamo detto, la maturazione avviene attraverso un percorso in cui i diversi fattori si influenzano a vicenda. Questa visione “globale” della pedagogia che tiene conto del soggetto nella sua complessità e unicità, nel rispetto quindi della persona intesa come unica e irripetibile è stato ben evidenziato da Itard e dalla sua capacità di mettere in pratica questa concezione , nel senso che, studiando il fanciullo selvaggio, questi ha adottato un atteggiamento empirico.
L’atteggiamento empirico è necessario all’insegnante che
necessita sempre un confronto diretto e ravvicinato con gli allievi, osservando tutti gli aspetti della persona,
come la capacità di adattamento e
sperimentando modalità didattiche plurali e individualizzate, in modo da
rispondere efficacemente ai bisogni specifici di apprendimento.
Lo stimolo che ha dato e Itard e che tanto ha contribuito alla crescita della pedagogia moderna, riguarda anche l’utilizzo di materiali da inventare, modificare e perfezionare, che possono fungere da corredo per il lavoro pedagogico e didattico. Molti di questi strumenti sono stati messi a punto dallo stesso Itard ed utilizzati successivamente da Montessori, Decroly e Vigotskij[13]. Itard, come del resto i pedagogisti citati, hanno contribuito con le loro ricerche sul campo ad alimentare le moderne teorie educative, consentendo alla pedagogia di ergersi a pedagogia scientifica, veicolando l’idea della duplice funzione della formazione che deve muoversi entro i versanti dello sviluppo umano e dei processi educativi. La pedagogia moderna, infatti, attualmente concepita per certi versi “dissolta” all’interno delle scienze dell’educazione, valorizza l’idea di transdisciplinarità, mutuando le conoscenze delle altre scienze affini come la neurologia, la psicologia, la sociologia, la filosofia, per curvarle in ambito educativo ed adattarle sul campo, ribadendo in questo modo la fondamentale importanza dell’approccio ecologico alla persona. Il progetto in ambito educativo, viene concepito come un “guardare avanti” al fine di costruire un precorso evolutivo, dal quale l’insegnante insieme all’allievo devono partire per arrivare a degli obiettivi intermedi e finali. Dopo una prima fase di osservazione in aula, necessaria per rilevare non solo interessi e tendenze, ma anche lo specifico “funzionamento” di ciascuno in quel preciso contesto, occorre elaborare un progetto di lavoro basato sugli obiettivi da raggiungere e sulla verifica degli apprendimenti attesi e dei comportamenti manifestati[14].
Lo stimolo che ha dato e Itard e che tanto ha contribuito alla crescita della pedagogia moderna, riguarda anche l’utilizzo di materiali da inventare, modificare e perfezionare, che possono fungere da corredo per il lavoro pedagogico e didattico. Molti di questi strumenti sono stati messi a punto dallo stesso Itard ed utilizzati successivamente da Montessori, Decroly e Vigotskij[13]. Itard, come del resto i pedagogisti citati, hanno contribuito con le loro ricerche sul campo ad alimentare le moderne teorie educative, consentendo alla pedagogia di ergersi a pedagogia scientifica, veicolando l’idea della duplice funzione della formazione che deve muoversi entro i versanti dello sviluppo umano e dei processi educativi. La pedagogia moderna, infatti, attualmente concepita per certi versi “dissolta” all’interno delle scienze dell’educazione, valorizza l’idea di transdisciplinarità, mutuando le conoscenze delle altre scienze affini come la neurologia, la psicologia, la sociologia, la filosofia, per curvarle in ambito educativo ed adattarle sul campo, ribadendo in questo modo la fondamentale importanza dell’approccio ecologico alla persona. Il progetto in ambito educativo, viene concepito come un “guardare avanti” al fine di costruire un precorso evolutivo, dal quale l’insegnante insieme all’allievo devono partire per arrivare a degli obiettivi intermedi e finali. Dopo una prima fase di osservazione in aula, necessaria per rilevare non solo interessi e tendenze, ma anche lo specifico “funzionamento” di ciascuno in quel preciso contesto, occorre elaborare un progetto di lavoro basato sugli obiettivi da raggiungere e sulla verifica degli apprendimenti attesi e dei comportamenti manifestati[14].
Al centro della pedagogia moderna potremmo allora inserire a
pieno titolo la fenomenologia del cambiamento capace di influenzare e nutrire
l'agire pedagogico del docente stesso, in modo da aiutare l’allievo ad essere
protagonista della propria evoluzione. Per quanto riguarda l’allievo, invece,
occorre introdurre all'interno del
quadro concettuale della pedagogia professionale la variabile umana, ossia
l'elemento destrutturante che, se da una parte costringe l’insegnante a
rivedere i propri metodi educativi e didattici, dall’altra dona la possibilità
di utilizzare in maniera creativa gli elementi messi in gioco dal soggetto in
formazione, in modo da poter effettivamente intervenire in sintonia con i
cambiamenti e le necessità espresse.
L’agire pedagogico che
abbiamo messo in evidenza parte dal presupposto che ogni agire sia
intenzionale, ovvero educativo, che tenda in ogni momento a favorire il
cambiamento dell’allievo attraverso il continuo ripensamento del progetto
educativo e didattico, per meglio adattarsi alle nuove situazioni che si
presentano.
Il setting educativo è quindi ricco di variabili messi in
gioco dall’insegnante che ha il compito di educare e dal soggetto che, da una
parte cambia in quanto in fase di crescita e maturazione, dall’altra è chiamato
ad apprendere e ad essere sempre sotto la lente della valutazione formativa. A
questo gioco complesso e sottile partecipano anche altri elementi, come ad
esempio il tempo lasciato
all'educando per esprimersi e lo spazio necessario, affinché il processo
educativo possa effettivamente avvenire anche a livello emozionale, cogliendo
tutte le sfumature di quello che avviene all’interno dell’aula scolastica. Il
tema della libertà è anch’esso centrale nell’idea di pedagogia modernamente
intesa, infatti, oltre alle conoscenze, agli stili di vita e ai comportamenti
appresi, occorre tenere presente il concetto di reversibilità ovvero la possibilità per l’alunno di sentirsi libero
di scegliere se continuare o meno un determinato
cammino, oltre naturalmente alla direzione,
ossia gli atti messi in opera dall'educando e dall’insegnante che devono sempre
seguire necessariamente uno scopo ben definito. Il dubbio fondamentale della
relazione educativa, comunque, rimane sempre, nel senso che è difficile
chiarire se il successo o l’insuccesso del percorso formativo intrapreso o se
il cambiamento desiderato che si verifica, sia dovuto alla personalità
dell’insegnante, alla sua tenacia e quindi alle sue caratteristiche più umane anziché
professionali. In ambito pedagogico questo è un tema molto discusso e, forse, sarebbe il caso di sfatare attraverso
ricerche più mirate il mito che per l’insegnante sia sufficiente una buona dose
di volontà e di pazienza per raggiungere i risultati attesi. Molti illustri
pedagogisti italiani come ad esempio Demetrio[15],
affermano che modi di pensare del genere non possono che creare negli
insegnanti e negli educatori, atteggiamenti
assistenzialisti, mentre invece, seguendo un'ottica squisitamente pedagogica,
quello che interessa è modificare la situazione esistenziale dell’allievo,
nonostante le incertezze, le complesse situazioni soggettive, anche se
occasionali che costantemente si manifestano all'interno della relazione
educativa. Da sempre l’educazione si differenzia dall’assistenzialismo in
quanto la prima spinge il soggetto a far emergere le potenzialità che possiede,
accettando la sfida della instabilità e dell’incertezza della vita quotidiana.
Questo vuol dire andare oltre la condizione presente dell'individuo, superare
l’accettazione del soggetto così come si manifesta nel qui ed ora, per
proiettarsi invece nel pieno delle dinamiche formative, anche a costo di
rimettere sempre in discussione mezzi e finalità, in vista del traguardo da
raggiungere[16].
La sfida pedagogica, professionalmente intesa, non accetta di
adagiarsi in se stessi o su gli altri ma stimola a reagire costantemente,
aiutando a convogliare forze, risorse ed energie affinché il soggetto riesca ad
uscire dalla propria difficoltà. Aiutare a capire, a riflettere, a stare con
gli altri, ad accettarsi, significa proprio predisporre uno spazio (fisico e
relazionale insieme) affinché il cambiamento possa manifestarsi, mettendo il
soggetto nella condizione di poter utilizzare gli strumenti messi a
disposizione dalla relazione e cominciare così da rielaborare vecchi schemi per
proporre forme nuove, arricchite da pratiche e stili comunicativi diversi.
La pedagogia moderna orienta gli sforzi verso la possibilità
di costruire una relazione educativa
tale, da consentire al soggetto di ripensarsi e ricomprendersi
all'interno di una cornice formativa più ampia rispetto a quella vissuta fino
ad allora, così da collocarsi e riorientarsi in maniera funzionale, in armonia
con la propria natura più autentica.
La pedagogia di oggi gioca insomma le sue carte in un
preciso ambito, quello della cura di sé, tenendo conto della specificità di
ognuno e della particolare situazione (contesto) da affrontare. Insomma, il
nocciolo della questione sta nel riuscire a rilevare in ogni intervento
educativo l'unicità e l’ irripetibilità del soggetto con il quale entriamo in
relazione. La pedagogia si coagula all'interno di un contesto denso di
problematicità e di complessità, di incertezze e di equilibri instabili che necessitano
di continui ripensamenti ed aggiustamenti affinché le azioni educative non si
rivelino eccessivamente intrusive e quindi prive di una vera e propria caratura formativa, né
troppo lasciate al caso perché si corre altrimenti il rischio di lasciare il
soggetto sprovvisto di orientatori e di regolatori, necessari per prevenire
ogni forma di deriva esistenziale. Molti possono essere i fattori che
compongono una problematica pedagogica: le difficoltà delle relazioni
genitori-figli, gli svantaggi sociali, i conflitti culturali, l'inserimento
delle persone diversamente abili a scuola, i frequenti fenomeni di bullismo,
ecc.; tutti questi sono fattori che
devono essere oggetto di specifici interventi educativi, altrimenti il rischio
è quello di vivere la giornata aspettando che il tempo faccia la sua parte e
che l’insegnante lasci quindi tutto al caso. L’agire pedagogico prevede proprio
di mettere insieme tutti quegli elementi che si manifestano all’interno della
relazione, cercandone un senso al fine di preparare gli strumenti necessari in
vista di un fine comune da raggiungere. Come da sempre ci insegnano gli
antichi, educare significa "tirar fuori" ciò che è dentro alla
persona, che, detto in altri termini, vuol dire semplicemente valorizzare quanto di meglio ci sia
potenzialmente in un individuo; ora, siccome
l'educazione consiste in un rapporto tra due persone, un educatore ed un
educando, o un docente e la classe, occorre sempre adeguarsi (e di conseguenza
calibrare l'intervento educativo) al livello dell'educando, comprendendo i suoi
bisogni e incentivando le sue competenze[17].
2. Riflessioni sul corso di pedagogia sociale
Lo studio della pedagogia sociale
in questo corso di specializzazione mi ha consentito di maturare importanti
riflessioni nell'ambito metodologico e didattico, nonché sulla disciplina
pedagogica vera e propria. Per quanto concerne gli aspetti pedagogici, è
importante dire che senza una adeguata riflessione sui processi formativi non è
attuabile nessun intervento educativo adeguato perché verrebbe a mancare la
struttura concettuale necessaria per definire gli obiettivi da raggiungere e i
mezzi più idonei e funzionali da adottare.
La pedagogia sociale è la disciplina che,
prendendo le mosse dalla pedagogia generale, restringe il proprio campo di
studio e di intervento su specifiche realtà in modo da rilevare le
problematiche particolari, analizzarle e cercare metodi educativi adeguati per
risolverle.
Il lavoro che ne deriva non è semplice perché costringe a pensare in
termini di complessità, ovvero di ragionare a partire da una scansione delle
problematiche sociali, delle specificità psicologiche degli utenti (allievi,
ecc.), dall'idea di uomo-cittadino che vogliamo arrivare a determinare
(problematiche antropologiche).
Durante il corso abbiamo infatti visto come la sociologia sia
strettamente correlata con le problematiche pedagogiche e come aiuti alla
riflessioni pedagogica stessa, facendo chiarezza su quelli che sono i valori
determinanti di una specifica realtà e i pericoli delle derive formative,
dettate dai disvalori e dall'azione invasiva dei media.
Il corso affrontato ha infatti messo in evidenza le riflessioni sociologiche più importanti di questo secolo
e di quello scorso, centrando l'attenzione sulle dinamiche comunicative e sugli
aspetti fondamentali della relazione, arrivando a cogliere quelle specifiche
del rapporto maestro /allievo.
Se nella pedagogia dell’ottocento l’educazione è concepita come un processo
chiuso, modernamente invece, l’avventura formativa è vista come un percorso
continuo e mai concluso ed è per questo che spesso nella pedagogia sociale si
fa riferimento alla metafora del viaggio. La relazione educativa si prefigura
quindi come un viaggio verso l’altro, dove la comunicazione rappresenta un
veicolo fondamentale affinché si realizzi il processo di maturazione e di
crescita dell’allievo. La comunicazione in ambito educativo è stato oggetto di
studio di filosofi come Habermas, il quale, ha indagato a lungo sulle
problematiche legate alla comunicazione e alla relazione interpersonale,
inoltre, altri approfonditi studi hanno mostrato come sia importante per una
comunicazione di qualità la reciprocità del riconoscimento.
La pedagogia è stata inoltre inquadrata attraverso un confronto
dialettico con l’etologia, mostrando sia le ricerche di Lorenz basate sugli
istinti ereditati geneticamente, sia quelle di Eibsfeldt sulla socievolezza dell’essere umano con
tendenze all’aggressività e alla pulsione di fuga come reazione ad una
possibile minaccia.
Si arriva progressivamente a definire la relazione educativa come forma
di liberazione e miglioramento reciproco, in cui l’evoluzione del maestro e
dell’allievo è dettata dall’asimmetria della relazione stessa. Qui si giunge ad
inquadrare l’uomo e le sue dinamiche relazionali all’interno della comunità,
mostrando come barman, sociologo di fama
mondiale sia arrivato a distinguere tra comunità etiche e comunità estetiche,
dove modernamente si sta assistendo allo sgretolamento dell’etica a favore del
disimpegno, dell’individualismo e del sensazionalismo in tutti gli strati
sociali.
La globalizzazione è un altro fenomeno di importanza pedagogica che ci
aiuta a comprendere non soltanto il fenomeno dell’incessante cambiamento della
struttura sociale e dei rapporti tra i suoi membri ma anche del progressivo
annullamento delle distanze dovuto all’incremento dei mezzi di comunicazione
sempre più precisi e sofisticati.
Insomma, il percorso di pedagogia sociale affrontato, ha consentito di
riflettere sulla società e sulle dinamiche educative attivate, consentendo di
vagliare i diversi progetti formativi e i grandi cambiamenti ai quali occorre
far riferimento per metterne in evidenza anche i conflitti e i contrasti che
emergono continuamente. La scuola, principale agenzia educativa, ma anche i
media, la famiglia, ecc., propongono e spingono le nuove generazioni ad
intraprendere cammini educativi che devono essere necessariamente vagliati
dalla riflessione pedagogica attuale, soprattutto per mettere in luce rischi e
potenzialità che conseguono a determinate scelte. La pedagogia sociale,
insomma, dimostra di essere una disciplina interessata ad esaminare tipi e
modelli di intervento educativo, cercando di cogliere la valenza sociale
nell’atto di insegnare o di educare; da questa premessa si può quindi arrivare
ad ipotizzare la realizzazione di una teoria pedagogica che abbia per oggetto
la reale emancipazione dell’uomo nel senso di attuazione sia delle potenzialità
latenti, sia di perfezionamento del progetto educativo ipotizzato per la
costruzione dell’avvenire individuale.
La funzione delle istituzioni è quindi centrale affinché l’uomo non sia
lasciato solo in preda ai propri istinti ma riesca invece a manifestare la propria
umanità costruendola giorno dopo giorno attraverso la scuola e l’educazione.
L’educatore, come sostenevano anche Platone, Schopenhauer e Nietzsche,
rappresenta sempre una figura liberatrice, ovvero la persona in grado di
aiutare l’uomo dalle catene interiori, arrivando così a determinare un
cambiamento positivo.
La pedagogia non è, a differenza di altre discipline, un sapere
originario ma è concepita da sempre come una pratica che ha un carattere
derivato dall’esperienza, dalla pratica di chi, occupandosi giorno dopo giorno
dei problemi educativi, deve rispondere in modo consono ai bisogni e ai
problemi educativi degli utenti.
La pedagogia si interroga allora sui valori determinanti di quella
società in quel preciso frangente storico, andando alla ricerca e scandagliando
in modo meticoloso il fragile terreno dei vissuti individuali, così da poter
ricavare quegli indicatori necessari a fungere da orientatori, ovvero da
bussola dell’agire educativo stesso.
Da quanto detto si capisce allora
che la pedagogia sociale deve il proprio contributo non solo alla pedagogia
generale ma anche alla filosofia dell’educazione, in quanto scienza che si
occupa del linguaggio della pedagogia stessa e dei fini che l’atto educativo
deve conseguire, senza perdere mai contatti con scienze empiriche quali la
sociologia, l’antropologia, la psicologia, l’etologia, ecc.
Questo dialogo continuo con le discipline cugine, aiuta la pedagogia
sociale ad incrementare le conoscenze necessarie a dar corpo all’agire
educativo stesso, consentendo di concepire l’uomo come un qualcosa che è già in
potenza quello che deve divenire, in modo da assecondare sempre le diverse
potenzialità attraverso il proponimento di nuove occasioni esperienziali.
Educare è quindi realizzare se stessi aiutando gli altri a diventare
quello che sono, ovvero perfezionando gli altri; tutto questo è possibile
soltanto se l’educatore sente di perfezionare se stesso attraverso la volontà
ferrea di voler migliorare chi ha davanti a sé, coinvolto nella relazione
educativa.
Questa è stata la lezione fondamentale di Don Lorenzo Dilani che,
concependo la relazione educativa in maniera asimmetrica secondo il principio
educatore/discente, ha sempre sostenuto che il fine dell’agire educativo è
quello di rendere liberi gli allievi, autonomi pensatori, senza bisogno di
nessuna autorità o guida.
Il fine ultimo dell’intervento educativo è quello di riuscire a fare a
meno dell’educatore stesso. L’educazione assume gradualmente un volto diverso,
infatti, se anticamente si concepiva il rapporto educativo come il mezzo
necessario per travasare le conoscenze da chi sa a chi non conosce, più
modernamente questo rapporto si concepisce come la via privilegiata per aiutare
la persona a fare da sola, arrivando a far coincidere l’educazione con l’idea
stessa di autoeducazione.
Secondo la tradizione psicoanalitica, educare vuol dire in primo luogo
far chiarezza nel mondo emotivo di chi svolge questo compito, autoeducandosi a
sua volta, altrimenti, risulta impossibile innescare processi di questo tipo se
chi ha il compito di insegnare non si è a sua volta autoeducato e non ha
affrontato in modo diretto le difficoltà legate al faticoso cammino
dell’autoindagine.
Senza autoeducazione non è possibile quindi né insegnare né educare; non
è possibile cioè consentire di instaurare una relazione solida, basata sulla
fiducia, che consenta all’allievo di costruirsi una visione del mondo
specifica, frutto del proprio personale sentire
e pensare, simbolo dell’autonomia acquista.
Attraverso l’educazione l’allievo agisce, fa e nel fare apprende;
l’azione è indispensabile nel processo di apprendimento, infatti, non si può
apprendere se prima non si agisce.
Nell’espressione di matrice Montessoriana “aiutami a fare da solo” è
implicito l’innesco necessario sia all’atto del capire che a quello del
crecere; nessuno può imparare al posto di un altro, ecco perché nel fare scuola
si deve sempre coinvolgere non solo la mente, ma anche il corpo e soprattutto
il cuore di chi apprende. Un insegnante che riesce ad instaurare una relazione
educativa fondata sui principi dell’autoeducazione, ovvero al di là di ogni
intervento autoritario e dannosamente conformistico, riesce sicuramente a fare
appello all’impegno e alla partecipazione attiva del soggetto, mettendolo nelle
condizioni di esprimere le proprie inclinazioni ed attitudini.
Indottrinamento e plagio sono due termini in netto contrasto con il
naturale svolgersi del processo formativo, eppure, ancora oggi si assiste alla
continua volontà di piegare gli allievi alla volontà di far assumere forme
socialmente accettabili ma contrarie alle reali tendenze del soggetto in
questione. Obbedienza e sottomissione sono contrari alla realizzazione di una
educazione flessibile capace di realizzare il soggetto compiutamente, invece,
la libertà è l’unico valore in grado di aiutare gli allievi a scoprirsi
progressivamente nella loro unicità.
La libertà non va confusa però con il libero arbitrio, infatti, anche
l’indifferenza rappresenta un grosso ostacolo all’autentica attuazione del
delicato meccanismo formativo; è il legame educativo che consente di diventare
liberi perché anche se può sembrare un paradosso, senza legami non si sperimenta mai la
pienezza dell’autonomia e della libera espressone di sé.
Ora, la pedagogia ha conosciuto un
periodo parecchio fertile, soprattutto nel periodo del romanticismo, con il
romanzo di formazione e l’idea sempre presente che l’uomo potesse e avesse il
preciso compito di coltivare l’idea di umanità che custodisce dentro di sé,
infatti, ancora oggi sono attualissime la concezione della trasformazone della
personalità la crescita interiore, del far emergere le potenzialità latenti e,
soprattutto, del rischio (da accettare) di perdersi affrontando l’avventura
formativa. Queste idee, ancora oggi si sposano all’interno di una società, come
la nostra, dove educarsi significa accettare il rischio di smarrirsi
all’interno di un vortice di proposte e di sentieri da seguire, camminando
sempre su quel filo sottile e delicato che consente di incontrare il mondo e di
fare esperienza della realtà,
consentendo anche lo sradicamento dal terreno delle certezze e delle
abitudini, a favore invece del rischio e della fatica di cambiare.
Il tema dell’inquietudine sempre presente nei vissuti dei letterati
moderni sta sempre qui, nell’oltrepassare i confini della propria mente e delle
esperienze limitate e limitanti, rimettendo in gioco certezze magari acquisite
nel tempo e che ora si scoprono essere inadeguate a fermare il desiderio di
scoperta e di avventura.
Andare oltre i propri vissuti per riscoprirsi in qualcosa di diverso e di
strutturalmente diversificato, è alla base del cammino formativo,
dell’avventura esperienziale che aiuta a riflettere su se stessi e su ciò che
vogliamo diventare; da qui la metafora del viaggio, tanto cara a chi si occupa
di formazione, in quanto cosciente del fatto che senza la volontà di
cambiamento non si innesca nessun processo di automiglioramento.
Certo, oggi le cose stanno diversamente, oggi l’uomo deve affrontare una
complessità di situazioni e di mutamenti continui, deve affrontare delicati e
difficili temi come l’integrazione e la convivenza con persone di cultura
diversa, deve convivere con l’incertezza economica dettata dai mutamenti
economici di portata globale, deve per certi versi arrendersi all’evidenza di
un mondo ormai globalizzato dove le singole differenze tendono a scomparire e a
non essere più considerate un bene da difendere. Quale educazione allora? Quale
itinerario formativo risulta essere plausibile per educare il cittadino di domani
ad affrontare una società che tende a sgretolarsi, sempre in preda ad eccessi
individualistici, consapevoli che il crollo delle certezze passate, come la
religione, la politica e la comunità, non fanno altro che alimentare una
concezione della vita fondata sull’estetica, il godimento immediato ed il
denaro?
Ecco profilarsi all’orizzonte, allora, un altro grande tema tanto caro
alla riflessione pedagogica e che da diversi anni rappresenta il fulcro dei
dibattiti interni anche alla scuola stessa; il consumismo.
Questo termine, forse un po’ troppo abusato o comunque additato come un
male imperante, rappresenta la costante della nostra quotidianità. Da ogni
parte sentiamo dire che viviamo in una società materialista, dove tutto è
ridotto a merce, dove i rapporti sono ridotti a scambi di tipo commerciale,
tuttavia, poche sono state le alternative elaborate e deboli si sono rivelate
le risposte alternative dalle agenzie come la scuola.
Il consumismo fa parte della nostra vita, non possiamo debellarlo ma
dobbiamo imparare a controllarlo e a gestirlo in maniera critica e consapevole.
Questo fenomeno è stato ed è tutt’ oggi oggetto di studio di psicologi e
sociologi ed interessanti sono i meccanismi che emergono e vengono messi in
luce per far capire come sia possibile condizionare le scelte delle persone nei
consumi di tutti i giorni.
Per capire da un punto di vista pedagogico come affrontare il tema del
consumismo ed elaborare un atteggiamento educativo in grado di indurre gli
allievi a riflettere in modo critico e personale di fronte a questo fenomeno
omologante ed estremamente potente, occorre analizzarne la genesi e proporre
spunti di riflessione che abbiano per oggetto le mode e le tendenze moderne..
Il consumismo affonda le radici in un terreno dove abbondano valori post
materialisti, ovvero in un terreno che ha fatto dell’eccedenze il simbolo del
benessere e della realizzazione; in questo modo, spiega lo psicologo Inglehart,
tutta la nostra vita ruota intorno all’estetica dei consumi, soppiantando
l’etica del lavoro a favore della ricerca del piacere individuale[18].
Tutto questo rappresenta una sfida pedagogica importante; le analisi da
lui condotte consentono di spostare le problematiche esposte in ambito
psicologico e sociologico, traslandole sul piano educativo e didattico,
ponendosi la domanda fondamentale su quali possano essere le ripercussioni sul processo di crescita degli
allievi e su quali possano essere i mezzi che la scuola dispone per arginare i
danni delle moderne tendenze sociali disgreganti ed eccessivamente
individualiste.
3.
Le pratiche pedagogiche: riflessioni sui metodi e le tecniche che ho adottato.
Come insegnante e pedagogista,
più volte mi sono trovato in difficoltà nel dover organizzare le attività
educativa e didattiche, soprattutto quando avevo a che fare con bambini o
adolescenti problematici che manifestavano un forte disinteresse verso le
discipline scolastiche.
La difficoltà principale è
sempre stata quella di reperire il materiale necessario all’organizzazione
delle attività laboratoriale in vista degli obiettivi da raggiungere, inoltre,
anche il problema del riuscire a mantenere vivo l’interesse degli alunni ha
comunque più volte reso complicato il lavoro formativo da attuare. Insomma,
capita nel tempo di trovarsi in situazioni di lavoro in cui per una serie di
fattori si pone la domanda: cosa gli faccio fare, adesso a questi ragazzi? Come
impiego il tempo che ho a disposizione? In vista di quali obiettivi propongo
questa specifica attività?
La ricerca bibliografica mi ha
consentito in diverse occasioni di
costruirmi da solo gli strumenti necessari all’intervento educativo
prefisso e centrale è stata per me, in questi ultimi anni di lavoro, la
categoria della “cura” che è emersa dalla ricerca in ambito pedagogico da parte
delle facoltà di scienze della formazione. E’ proprio dalla riflessione sul
concetto di cura che sono emerse conseguentemente molte proposte didattiche che
sono servite per organizzare laboratori creativi e attività didattiche in aula.
La cura in pedagogia si discosta
molto da quella praticata in psicoterapia, in psichiatria o in psicoanalisi
perché è molto più polimorfa, capace di dipanare le potenzialità soggettive,
direttiva nel suo momento educativo e non direttiva nel momento più formativo,
determinandosi come processo continuo, sempre in cerca di nuovi equilibri (mai
definitivi), da cogliere nella sua problematicità e complessità.
Ho quindi cominciato a pensare
che il volto della cura pedagogica fosse dismorfico perché continuamente attraversato
da tensionalità e riflessività, tra dialetticità e dinamicità, in un continuo
gioco di sponda tra necessità di “tirar fuori” dal soggetto attraverso un atto
di guida ad un tempo e alla valorizzazione della sua autonomia e della sua
identità soggettiva, ad un altro. Insomma, per dirla con Cambi prendere in cura
il soggetto significa assumere su di sé l’onere della crescita che si realizza
nell’autonomia del soggetto da guidare e valorizzare nel suo cammino, tramite
comprensione e progettualità con dedizione, empatia, atto donativo e giudizio,
un insieme che trova nell’arte il suo traguardo[19].
E’ da queste premesse che sono
partito per cominciare a capire la logica da adottare per organizzare i
laboratori con bambini e adolescenti in difficoltà, cercando di abbracciare una
filosofia che mi consentisse di motivare le scelte formative da proporre:
letture, scritture di sé, narrazione di esperienze, ecc. Ho capito che la cura in pedagogia si lega molto di più
alle discipline umanistiche che non alla tecnica, discostandosi in questo modo
dalla cura medica che si articola maggiormente alla scienza e al suo metodo
sperimentale. Con questo non voglio affermare che il metodo pedagogico sia
quindi costruito in modo non di rigoroso, anzi, il suo specifico è proprio
quello di curare senza patologizzare, sostenendo il soggetto nella ricerca di
un equilibrio del sé e di una integrazione sociale. La cura si indirizza quindi
a soggetti di ogni età ed estrazione sociale, si rivolge ai disagi di natura
diversa che vanno dalla scuola, al lavoro, dalla famiglia al tempo libero,
consentendo il progressivo risveglio del sé attraverso il coinvolgimento in
progetti formativi nutriti di dialogo che ben si innestano all’interno di
questa società schizofrenica e priva di orientamenti stabili. Ho scelto
volutamente questo concetto/guida alle mie esperienze laboratoriali perché mi
sembra che la cura di stampo pedagogico non si conformi ma liberi e si realizzi
attraverso quel processo maieutico di cui Platone ci ha parlato, in
grado di stimolare una vera e propria educazione interiore[20]
intesa come capacità di coltivare e mettere al centro la propria umanità.
Ho cercato di proporre progetti
alle scuole di ogni ordine e grado per bambini ed adolescenti in situazione di
disagio, che avessero al centro il concetto di cura pedagogicamente inteso. Parlando con i
dirigenti volevo far emergere come nella
cura di sé emergesse sempre il concetto di autoriflessione in grado di rendere ogni individuo capitano
di se stesso in un processo che mira a dar corpo ad un equilibrio, se pur
temporaneo, instabile e dinamico, da dover continuamente monitorare e
aggiustare. Tutto ciò ho cercato di concretizzarlo proponendo azioni e
attività ben precise, calibrate sui soggetti
in formazione, che traessero il proprio nutrimento dalle discipline umanistiche
ed artistiche, distillando i diversi saperi in modo da accordarli e curvarli in
un’ottica di stampo squisitamente pedagogica, così da attivare spunti di riflessione tali, da condurre il
soggetto a divenire sempre più persona.
Ho provato a discutere con i docenti e i
dirigenti sulla funzione formativa della narrazione ad esempio, ossia,
sull’uso strumentale che si fa della narrazione per raggiungere fini
pedagogici, come ad esempio lo sviluppo delle capacità analitiche, riflessive,
attuabili anche attraverso il cinema e la sua critica, oppure mediante la
musica, partecipando così attivamente alla costruzione dei saperi e della
personalità. Anche i docenti con cui parlavo erano concordi sul fatto che attraverso
la narrazione si costruisce l’immaginario conferendogli ordine e senso, grazie
alla capacità del linguaggio di essere ad un tempo specchio di forme di vita e
gioco linguistico complesso, consentendo di tessere una rete di significati e
simboli capaci di interpretare e cogliere il valore e il senso della realtà.
Storie che, secondo me, il pedagogista può utilizzare e manipolare, oscillando
tra il mito e la fantascienza, tra la fiaba e il racconto, così da sintetizzare
significati simbolici profondi che possono servire anche per imparare il metodo
del narrare a se stessi, inteso come esperienza formativa che permette di
riflettere sugli stati d’animo soggettivi, esprimibili attraverso la poesia, la
forma del diario o la musica stessa, strumenti diversi che condividono il fine
comune del farsi uomini, fissando una identità per certi versi stabile e che
risponde al preciso bisogno di autoformazione[21].
Attraverso i laboratori
proposti, soprattutto con la scuola media, ho capito che il lavoro della
narrazione si lega fortemente (anche se non necessariamente) a quello della
lettura, altro potente strumento formativo che consente di prendere le distanze
dal proprio vissuto più immediato per tornare in contatto con se stessi,
lasciandosi per un momento alle spalle le distrazioni quotidiane; da queste
premesse si comincia a proiettarsi verso un mondo diverso da quello fino ad
oggi esperito, consentendo di confrontarsi con realtà altre, diverse da quelle
fino ad oggi pensate, facendosi trasportare dalla potenza evocatrice della
parola ed avvolgere dalla sua capacità particolare di costruzione e
ricostruzione di sensi[22]. La
scoperta di poter entrare dentro una storia, in un cumulo di esperienze dotate
di senso, attiva processi riflessivi sul racconto e sui concetti che sono la
materia prima del mio lavoro di pedagogista, sia con il bambino che con
l’adolescente, in quanto consente di capire come questi viva il proprio mondo e
come possa trasformarla facendo appello ai propri strumenti concettuali. I
bambini e i ragazzi dei laboratori proposti, piano piano capivano che la
lettura non aiuta solo a scoprire, a far emergere ma anche a dilatare, ad
ampliare i propri orizzonti, a trovare dentro di sé gli impulsi per crescere ed
affinarsi, consentendo al soggetto di travasare il passato nel presente e
viceversa, una pratica per coltivare se stessi attraverso l’esercizio della
libertà e della riflessività, un aprirsi al mondo che consente di vivere
l’avventura di un viaggio, dando forma alla propria mente[23].
Dentro la narrazione sta tutta
la complessità della costruzione del mondo interiore di questi ragazzi e questi
la vivevano da una parte come alimento pedagogico in grado di coltivare e
dilatare tale spazio “spirituale” , dall’altra come strumento in grado di
originare forme espressive individuali, frutto di personali elaborazioni che
contengono una forte carica comunicativa. Per me utilizzare lo strumento della
narrazione, ha significato porre l’individuo o il gruppo in una situazione di
raccoglimento interiore favorendo una sospensione del vivere immediato
attraverso un sottile dialogo stretto
tra sé e sé che si è realizzato nel rapporto col libro, sia esso un romanzo, un
testo di poesie o una raccolta di racconti.
Lavorare con la lettura ha
significato per me non far sclerotizzare l’ interiorità degli allievi, non
consentire cioè la distrofia della vita mentale, ecco perché è importante la
lettura, intesa come alimento culturale capace di far dilatare la
consapevolezza di se stessi, del mondo e delle proprie possibilità, al di là di
ogni tentativo di riduzione o di adeguamento ad una vita monocorde, opaca,
prestabilita e confezionata ad arte da altri, per noi[24].
Per me tutto questo si traduce
come possibilità di coltivare lo spazio di riflessione messo in atto
dall’attività di lettura mediante un continuo andirivieni di nozioni, storie,
inglobamenti, assimilazioni, costruzioni e rimessa in discussione, allenando il
soggetto a porsi domande, a formulare risposte, ad interrogarsi e a muoversi
con disinvoltura nel dubbio, nell’ipotetico, nel mondo moderno dell’incertezza,
dal quale si può uscirne più rinforzati attraverso l’esercizio stesso del
pensare.
Alla pratica della lettura ho
affiancato spesso anche quella della scrittura, dove, al di là dello strumento
utilizzato (penna o computer), ho potuto promuovere la scrittura di sé
come metodo di crescita e potenziamento, in grado di saldare il sentire del
soggetto con la propria esperienza di vita, esprimibile in modo creativo
attraverso il linguaggio scritto. Il vissuto soggettivo, materia importante di
lavoro pedagogico, si riflette nella scrittura in maniera incisiva e
amplificata, consentendo all’individuo di riappropriarsi della propria
esperienza attraverso una continua revisione delle azioni e degli accadimenti
trascorsi, distillando il materiale raccolto alla luce del presente.
Gli alunni che scrivevano in
modo autobiografico sperimentavano l’opportunità di cogliersi e ricollocarsi
nuovamente nell’oggi, nel qui ed ora, di individuare i punti e le zone
nevralgiche dei propri trascorsi per riattualizzarli, apprendendo dalle passate
esperienze in modo funzionale, così da riorientarsi nel sentiero della propria
esistenza, che, se realmente autentico, non è mai già tracciato ma tutto da
esplorare ed inventare. Il processo autobiografico si è rivelato uno strumento
formativo eccezionale che ha permesso a
questi ragazzi di riappropriarsi di se stessi, esigenza oggi sempre più
avvertita dato che la tendenza omologatrice della società moderna spinge un po’
tutti a disperdersi nel “si” quotidiano, nelle routine lavorative,
nell’abbassamento collettivo della soglia attentiva, lasciandoci soli in balia
degli eventi, spesso senza “briccole”[25] o punti di riferimento, con il rischio grosso
di andare alla deriva. Parlando con gli insegnanti, anche loro concordavano con
me sul fatto che se è vero che rispetto al passato le possibilità di decisione
sono aumentate in maniera esponenziale è anche vero che l’eccessiva
stimolazione e la percezione delle infinite modalità di scelta rendono non solo
incapaci di distinguere l’effimero dal sostanziale ma conferiscono un senso di
immobilità e impossibilità. Oggi per un giovane è facile navigare in acque
oscure senza un tracciato, senza riferimenti utili e questo può significare
anche decretare a se stessi una condanna a morte, ecco perché ad un mondo che
cambia repentinamente non si può rispondere con una metamorfosi acritica e
impulsiva; i momenti critici della vita non possono essere affrontati con un
adeguamento irriflessivo alle circostanze con il rischio di trasformarsi in tante banderuole al vento, privi di ogni
forma autolegislativa.
E’ vero che le difficoltà della
vita e i momenti di crisi inducono a rimettersi in discussione e a ricollocarsi
nel cammino esistenziale ma questo non significa che ciò debba avvenire senza
il consenso del volere personale, delegando altri nella decisione dei modi,
termini e aspetti del proprio esistere futuro.
Questo aspetto è emerso in modo dirompente all’interno dei diversi
laboratori proposti ed importante sottolinearlo perché il rischio è di
constatare l’incertezza o l’inconsistenza della realtà attuale e di adagiarsi
su questa riflessione rispondendo con la rinuncia o, peggio ancora, con
l’adeguamento acritico. L’autobiografia mi ha consentito, in ambito scolastico,
di superare tali rischi e di attivare importanti processi interpretativi ed auto riflessivi in grado di far uscire i
ragazzi da questo travaglio rinforzati e con un nuovo volto, frutto della
tessitura di un’ identità più matura che, seppur mai definitiva, è comunque per
adesso in grado di guidare verso orizzonti di senso attuali. Insomma, per dirla
con Cambi, la pratica autobiografica abbiamo consentito di interpretare
l’identità dei soggetti e il gioco stesso dei loro ruoli sociali, come assunzione
della <<cura di sé>> intesa sia come travaglio individuale, sia
come rielaborazione di una nuova traiettoria di senso. Lavorare con gli allievi
delle scuole medie ha significato riflettere sul concetto di ricostruzione e radicamento nel proprio statuto
problematico attraverso quel farsi carico di sé che altro non è se non
l’assumersi come <<esistenza ferita>> (Moravia), ovvero come
custodi del proprio Io, mettendo alla luce un sé più stabile, frutto
dell’interpretazione, della riflessività e della rielaborazione del processo
formativo individuale[26].
In definitiva, mi sembra di
poter affermare che la scrittura è
coltivazione pratica di sé ad un tempo ed un piacere ad un altro, infatti, la
valenza formativa si ha quando per chi scrive tale attività è volontaria e
fonte di soddisfazione ed è qui che è stata la mia difficoltà. Stando a
contatto con soggetti con difficoltà di tipo diverso, con trascorsi costellati
di rifiuti scolastici e quindi restii a molte attività che somigliano o
comunque richiamino alla memoria le
dolorose esperienze avvenute nelle aule, dovevo studiare le strategie più
idonee affinché chiunque potesse maturare la consapevolezza che solo
apprendendo si cresce, si cambia e si impara a divenire continuamente[27].
Il cuore del mio lavoro pedagogico
è stato allora quello aiutare a rileggere i percorsi esistenziali,
tratteggiando gli eventi costitutivi in modo da fissare una direzione di marcia
e risvegliando in questo modo il desiderio dell’avventura formativa intesa come
atto capace di far acquisire forma attraverso il riaccendere la memoria su
questioni e fatti, fissandone gli eventi-segni e procedendo via via nel senso
della direzione emergente, così da prenderne coscienza e cominciare con
l’avventura esplorativa del proprio essere stati e delle possibilità di
divenire. La scrittura di sé mi è servita
fondamentalmente nell’utilizza le competenze maturate per stimolare il
soggetto alla responsabilità di se stesso, de-dogmatizzandolo e rendendolo
capace di pensarsi liberamente perché
svincolato da pregiudizi, così da sperimentare il processo di
auto-costruzione che diviene un farsi sé a partire da se stessi.
Altra pratica pedagogica che ho adottato è
stata la riflessione sull’esperienza del viaggio, del cammino,
dell’attraversare spazi, in quanto ciascuno di noi essendo sempre soggetto
immerso nel tempo e nello spazio, è costantemente esposto alla necessità di
spostarsi in luoghi nuovi e diversi, accendendo quindi la possibilità di
riflessione e di affinare la sensibilità e l’identità soggettiva.
Ecco che per me si è aperta la
possibilità di affiancare il ragazzo nel suo personale cammino, iniziando a
guardare la realtà, spesso data per scontato, sotto una luce nuova, più
genuina, più immediata, dove la conoscenza non è data dall’atteggiamento
“prensile” tipico della società moderna, ma dall’interrogare luoghi, eventi ed
oggetti incontrati, rispettandone la collocazione e la natura. Si trattava per
me di aiutare a capire che conoscere non significa possedere, che apprendere
non vuol dire piegare la realtà alla volontà soggettiva snaturandola e
deformandola, ma più semplicemente si tratta di contemplare, indagare in
maniera non invasiva, attraversare il tutto con lo sguardo e con il passo,
cercando di comprendere, attivando continui processi investigativi di natura
mentale, fatti di domande, di possibili risposte, di interrogativi ulteriori[28].
Aiutare a conoscere camminando,
attraversando spazi come strade, sentieri o il semplice giardino della scuola,
rappresentava un momento importante per l’alunno in formazione che poteva
iniziare a comprendere la realtà quotidiana attraverso semplici esperienze
meditative, ben delineate da Demetrio[29] e
che prevede l’esercizio dei cinque sensi, ossia il tatto, il gusto, l’udito,
l’olfatto e la vista.
Ovviamente non si trattava di
apprendere tecniche o sequenze di esercizi da utilizzare in una sorta di
“palestra interiore” ma semplicemente di risvegliare la facoltà intuitiva da
una parte e il senso di appartenenza ad un tutto organizzato dall’altra,
ovvero, che si può dilatare l’orizzonte della
coscienza facendo appello alle proprie facoltà mentali e corporee. In
questo modo ci siamo da confrontati con la natura e resi partecipi dei suoi
ritmi, riscoprendo la possibilità di essere viaggiatori che procedono nel mondo
attraversando se stessi, arricchendosi con il continuo ruminare sulle proprie
riflessioni.
Si comprendeva attraverso
semplici passeggiate e dialoghi su quello che vedevamo, l’importanza di
riappropriarsi di uno spazio interiore, senza bisogno di strumenti particolari.
Abbiamo anche approfondito temi di natura più
spirituale, accorgendoci che non erano necessari né incensi, né rituali, che
non occorrono testi sacri e neppure ortodosse posture ma semplicemente
l’attitudine o la volontà di coltivare la dimensione profonda soggettiva
mediante l’esercizio dell’umiltà, della semplicità e della ricezione del mondo,
in un cammino silenzioso, dove i cinque sensi abbiano la possibilità di
percepire la realtà nel suo insieme.
Ecco che insieme abbiamo
lavorato su queste particolari esperienze, sulle idee che emergevano, sulle
sensazioni provate e lo facevamo attraverso il racconto, la scrittura di un
diario o di un taccuino, riportando anche schizzi, immagini abbozzate o
disegni, raccogliendo magari qualche traccia del proprio cammino, come una
foglia, un sasso o comunque tutto ciò sia ritenuto degno di indagine e di
riflessione.
Il lavoro del cammino proposto
si traduceva in sintesi in un attraversare che saldava insieme il momento
interiore dell’io con uno esteriore degli spazi/luoghi, decifrando i segni che
emergevano in modo da interpretarli e riportarli nella propria conoscenza. Si
riscopriva il significato autentico del
viaggio che si fa scoperta, avventura e un rivivere esperienze trascorse a cui
adesso si attribuiscono nuovi significati, relativi ad un senso di natura
psicologica, esistenziale e personale.
Un viaggio che spazia dal
sociale, al naturale, da simbolico all’immaginario, carico sempre di
suggestioni, comparazioni ed interrogazioni che ho potuto alimentare, facendo
emergere domande su cosa sia la natura, sul perché delle continue
trasformazioni dell’ambiente, sui motivi del degrado, ecc., il tutto al fine di
esaltare quelle componenti più vive e uniche del soggetto, così da far emergere
l’umanità, portandola oltre se stesso ed innalzandolo verso nuovi orizzonti.
Dal cammino interiore,
sollecitato dall’esperienza dell’attraversare luoghi e dal contemplare paesaggi
l’allievo veniva sollecitato al domandarsi, ossia ad indagare se stesso
attraverso l’esperienza del mondo, un’attrazione verso quel mistero
dell’esistere che avvicinava inevitabilmente ad una visione della vita meno
materialista.
Cercavamo insieme una filosofia
di vita che si facesse vocazione esistenziale esercitabile per le strade, in
cammino o in solitudine, animati desiderio di non rassegnarsi alla
disumanizzazione della società moderna e dalla volontà di cercare nel proprio
vagabondare la propria soggettiva dimensione spirituale. Ho cercato
insomma di esercitare e approfondire una
forma di riflessione e di dialogo, mossa dal dubbio anziché dal dogma, dove si
risvegliasse il bisogno umano di cercare e possibilmente di trovare un senso
profondo e personale alla vita quotidiana, mondana e collettiva, riscoprendo
così il soggettivo senso dell’esistenza e del mondo che abitiamo, fatto non
solo di razionalità ma anche di bisogni arcaici intimamente connessi con la
vita psichica, che possono essere educati e coltivati in modo da fornire un
significato alla realtà vissuta [30].
Anche l’arte ha
rappresentato un veicolo importante che ho potuti utilizzare per promuovere
l’evoluzione personale ed animare così la vita mentale dei ragazzi; i linguaggi
artistici, espressivi e simbolici, rappresentano un’esperienza estetica di
ampia portata in grado di sensibilizzare lo spettatore o il lettore e stimolare
la voglia di andare oltre, di indagare e di interrogare se stessi circa le
emozioni suscitate, la loro forma, natura e intensità. La letteratura, le belle
arti, la musica, il teatro e la poesia, sono universi che mettono a
disposizione i loro linguaggi. Io li ho adottati in modo da renderli comprensibili agli allievi con
difficoltà di adattamento, facendoli divenire parti di loro stessi, attraverso
architetture di espressioni e simboli che venendo reinterpretate sono entrate a
far parte del loro bagaglio culturale e personale. Tali linguaggi sono riusciti
ad assumere forme ed intensità notevoli,
in grado di risuonare nel soggetto in maniera creativa, aiutandolo ad integrare
le parti del proprio sé alla luce di questa particolare esperienza formativa.
Si capisce allora perché il teatro è spesso utilizzato con soggetti carcerati
da riabilitare o con persone che vivono situazioni di forte disagio; la
maschera e la capacità di rappresentare personaggi diversi, consentono di
recuperare in parte alcuni aspetti la propria identità, sopravvissuti alla
catastrofe, sommersi dalle macerie degli eventi e cominciare a costruire una
nuova identità, frutto di nuove elaborazioni, ricuciture, ripensamenti[31]. Dal
romanzo, alla poesia, dal teatro, alla musica, tutto ha concorso a collocare
gli alunni nel pluralismo dei linguaggi e a filtrarne significati e simboli in
modo analitico e dialettico, divenendo loro stessi partecipi di un’esperienza
ideale armonicamente legata al bello e al sublime. Ed ancora, dalla
contemplazione di un quadro alla meditazione poetica, dalla lettura
appassionata alla scrittura di sé, io e questo gruppo di ragazzi potevamo
spaziare dentro la storia della cultura e delle sue forme, assimilandone aspetti
salienti e decantandone forme capaci di arricchire e dilatare gli spazi
interiori, predisponendo all’ascolto e all’esaltazione del sé.
Insomma l’ arte, come esperienza
estetica, nella forma della poesia, della pittura o della musica ha assunto nei
vari laboratori proposti un valore ed una funzione fondativa dell’esperienza
soggettiva e della sua umanizzazione che, migrando dalle forme di cultura ai
linguaggi spirituali, ha consentito di esperire il fascino dell’inusuale, dello
stupore e della libertà di fronte ad un mondo incantato e privo di
condizionamenti. Con l’arte ho sostenuto i ragazzi nel delicato processo di
risveglio di se stessi e di enfatizzazione della propria sensibilità,
oscillando continuamente tra ricerca di un momento di solitudine (per
consentire un idoneo raccoglimento interiore) e l’evocazione interiore affinché
tutto potesse sigillarsi in quel medium linguistico, ossia in quella
radicazione del codice verbale che consente l’emergere dell’esperienza
eccezionale interiore e fondativa che è propria del dire artistico/poetico[32].
Posso quindi dire che l’abilità
consisteva proprio nel gestire il linguaggio o i linguaggi artistici al fine di
promuovere una viva sensibilità interiore, consentendo di fornire un senso
all’esperienza attraverso un contatto con la creatività personale. Tutto questo
si traduceva in un’occasione importante che, soprattutto oggi, è rara tanto
quanto necessaria, ovvero, aprirsi riflessivamente su se stessi per potenziarsi
ed evolvere, cogliendoci sotto forme che, altrimenti, rischieremmo di ignorare
per sempre. Si trattava allora di trovare attraverso l’arte un sentiero che,
seppur orientante, consentisse l’ebbrezza di qualche smarrimento, confermando
la natura “errante” della formazione che ha sempre il tratto costitutivo della
ricerca, anche se spesso i tracciati si affievoliscono e divengono ambigui.
Gli alunni del laboratorio hanno
maturato l’idea che la strada si fa camminando e da ogni sentiero lasciato ed
in seguito ripreso, si determina un percorso formativo rinnovato che cerca di
tracciare con nuovo sguardo l’orizzonte dell’esistenza. Le attività proposte si
arricchivano continuamente di gesti, pensieri e parole sintetizzati in un
continuum in grado di orientare nel cammino della vita. Spesso questi ragazzi si
sentivano smarriti e ponevano domande di
ricerca di senso, costringendo a fornire
risposte che non potevano esaurirsi nel solo linguaggio parlato; l’arte allora
interveniva prontamente perché abitua
all’apertura all’imprevedibile assumendo quel carattere di principio
metodologico in grado di cogliere la realtà stessa nei suoi aspetti inaspettati
ed originali, capaci di obnubilare
l’ovvio, il dato per scontato e le consuetudini mentali. Una pedagogia dello
sguardo che invita a cogliere la realtà
formativa nel suo manifestarsi instabile e mutevole assumendo però l’etica
della responsabilità come suo fondamento[33]. In sintesi, posso affermare che queste
esperienze consentono agli insegnanti di apprendere dai loro stessi allievi,
provando il senso di smarrimento dei loro alunni e assimilando le valenze
formative del camminare e del perdersi per poi ritrovarsi più potenziati,
attraverso il passeggiare, l’arte, la scrittura di sé e tutto ciò che
contribuisce a riflettere su se stessi e sul proprio agire.
4. Le funzioni del Pedagogista a
Scuola
Essendo
oltre che insegnante anche un pedagogista, ho sfruttato le conoscenze maturate
al corso di specializzazione per riflettere sulla figura del pedagogista in
generale e su un progetto pedagogico realizzato da alcuni anni fa in una scuola
di Fucecchio.
L'introduzione
del Pedagogista nella scuola, nonostante l'importanza della sua presenza
all'interno della classe, risente ancora oggi di alcune difficoltà relative al proprio ruolo,
soffrendo talvolta le ambiguità e le contraddizioni dovute alla sua incerta
definizione (il segreto professionale del medico e la possibilità di stendere
una diagnosi funzionale) e delle sue applicazioni, oltre ad una poco
riconosciuta qualità professionale.
Lavorando
all’interno della classe come pedagogista dovevo comunque attenermi ad alcuni
principi guida:
1)
l'impegno a collaborare con i colleghi del Consiglio di classe e con il
Gruppo di lavoro nell'impostazione e nella realizzazione del progetto
educativo-didattico riferito all'alunno disabile; 2) la competenza correlata
alla specializzazione didattica, a predisporre i relativi percorsi e strumenti;
3) la corresponsabilità dell'attività educativa e didattica
complessiva del modulo o della classe; 4) compiti di collaborazione con
le famiglie e le strutture sanitarie[34].
Solo
negli ultimi anni si è ritenuto necessario valorizzare la formazione del
Pedagogista riproponendo la dicitura “Pedagogia” nei diversi corsi di laurea
magistrale, al posto delle troppo generiche “Scienze dell’Educazione”, cercando
di fornire a questa figura professionale strumenti concettuali ed operativi
meno dispersivi e più idonei al proprio ruolo lavorativo. Un traguardo
importante questo, che mi ha consentito di godere di una formazione
professionale al pari di tutti gli altri professionisti, vedendo riconosciuto,
anche da parte di alcune istituzioni pubbliche, uno specifico ruolo all'interno
della scuola.
Oggi
al Pedagogista sono richieste competenze ben definite, tra cui:
.
progettare e programmare gli interventi educativi
.
costruire moduli didattico-educativi integrati
.
costruire una documentazione
.
promuovere incontri per favorire la collegialità
.
realizzare strategie specifiche per l'apprendimento
Le
conoscenze che un Pedagogista deve possedere riguardano:
.
capacità di assumere conoscenza dell'alunno e della classe
.
la conoscenza dello sviluppo, dei processi di apprendimento, delle dinamiche
relazionali
.
conoscenza delle difficoltà di apprendimento nelle varie situazioni di
minorazione (in particolare nella relazione, comunicazione, autonomia)
.
sussidi protesici, risorse tecnologiche
.
processi interattivi tra scuola ed extrascuola
.
modalità operative interdisciplinari con particolare riguardo al settore
terapeutico-riabilitativo e sociale
Le
abilità, invece, possono essere così sintetizzate:
.
saper condurre un'osservazione sistematica
.
saper raccogliere dati e analizzarli (finalizzati al progetto educativo e alla
verifica)
.
saper costruire un curriculum didattico specifico in rapporto alle potenzialità
dell'alunno
.
saper individuare le esperienze educative e didattiche
.
saper usare metodiche e tecniche specifiche adeguate alla minorazione
.
saper costruire modelli di integrazione tenuto conto delle risorse disponibili.
Infine
gli atteggiamenti:
.
capacità di interagire all'interno della situazione scolastica;
.
capacità di interagire nella situazione extrascolastica[35]
L'attività
che ho proposto nelle scuole prevedeva sempre il sapersi orientare nella
descrizione, nella valutazione e nel trattamento di un alunno disabile, con
particolare attenzione all'individuazione e valorizzazione delle abilità del
bambino ed alle caratteristiche del contesto di integrazione.
L'obiettivo generale era quello di acquisire
modalità di osservazione relative a singole tipologie di disabilità ed al
contesto di integrazione.
Gli
obiettivi specifici, invece, riguardavano il saper osservare e descrivere un
bambino disabile, oltre naturalmente al contesto di integrazione.
Dopo
una prima fase di osservazione e raccolta di dati, iniziavo generalmente il
percorso di progettazione, con interventi adeguati rivolti al bambino disabile
ed al contesto di integrazione.
Il
lavoro ho sempre cercato di articolarlo in diverse fasi operative, che di
seguito riporto.
Accoglienza:
questa fase prevedeva la formazione del nuovo gruppo costituito dal pedagogista
e gli insegnanti; la creazione di un clima di conoscenza, scambio e
condivisione, oltre che alla presentazione dell'articolazione di progetto.
Orientamento:
in questa fase veniva discusso l’inquadramento storico-normativo, i modelli di
integrazione in Italia e in Europa, approfondendo i significati di menomazione,
disabilità, handicap, al fine di accordarsi
sulla terminologia in uso a livello internazionale.
Progettazione:
era il cuore del lavoro di gruppo dove si ricercavano sia gli strumenti per
l'osservazione, sia quelli necessari alla raccolta dei dati, all’intervento
didattico ed alla descrizione del bambino nel contesto della classe. Venivano
definiti l’ambito di lavoro, gli strumenti da utilizzare, gli obiettivi a medio
e lungo termine e le modalità di verifica finale.
Verifica:
con i docenti venivano discussi i risultati raggiunti, confrontando i dati
iniziali con quelli finali (dopo l’attuazione del progetto); in seguito
venivano tracciate le linee di forza ed i punti deboli dell’ esperienza di
lavoro, mettendo in evidenza i traguardi raggiunti e non, rimettendo in
discussione l’impianto teorico del progetto, gli strumenti e le fasi attuate.
Per
svolgere in maniera adeguata il proprio lavoro, occorreva inoltre conoscere il
bambino ricostruendone:
-
la storia personale
-
l’evoluzione dei processi di sviluppo
-
il livello scolastico raggiunto
Conoscere il contesto familiare in relazione
a:
-
il livello socio-economico-culturale
-
le caratteristiche del nucleo familiare
-
le dinamiche affettivo-relazionali
-
le modalità educative attuate
-
la percezione del problema
-
la disponibilità al cambiamento.
Acquisire informazioni relative al contesto
scolastico per quanto riguarda:
-
la conoscenza-comprensione delle problematiche
del bambino
-
la situazione della classe e le dinamiche di
gruppo
-
la percezione del bambino in questione
Per
svolgere adeguatamente queste funzioni dovevo adottare stili relazionali
adeguati, superando la tendenze maggiormente in uso in ambito scolastico, che
sembravano essere quella di identificare i bambini disabili con la loro
patologia. Molti insegnanti, infatti, leggendo le diagnosi stilate dalle ASL,
rischiano di assumere un atteggiamento di tipo sanitario che non si addice a
chi si occupa di pedagogia. Se in ambito medico occorre focalizzare
l’attenzione sulla patologia, in ambito educativo didattico occorre invece
prestare attenzione alle abilità residue e preoccuparsi di alimentarle per far
sì che emergano compiutamente. Invece, spesso accade di identificare proprio la
patologia con il soggetto, facendo diventare Tizio un ritardato, un tetraplegico o un autistico. Questo vale
anche per i bambini con disturbi di tipo cognitivo, dove si tende a considerare
soltanto la dimensione intellettiva danneggiata, come fosse separata dalle altre funzioni,
altrettanto importanti, come la capacità di sentire, di immaginare,ecc., che
insieme contribuiscono a definire l'assetto globale della persona. La
concezione olistica, pilastro fondamentale della pedagogia attuale, mi ha
aiutato a considerare il soggetto come una totalità integrata e specifica, non
assimilabile ad altre individualità ed anche l'intelligenza non la considero
più una realtà monolitica, un blocco unico non scomponibile nei suoi tratti
costitutivi.
Un
bambino con ritardo mentale non può essere considerato dai docenti
semplicemente un disabile perché gli aspetti cognitivi, anche se rappresentano
l'asse intorno al quale si determina il modo di essere del soggetto, non
esauriscono mai la totalità dell’individuo che è sempre comunque qualcosa di
più e di complesso rispetto alla sommatoria dei suoi tratti costitutivi.
L’alunno, così come ogni individuo, si
caratterizza non soltanto per la particolare dimensione intellettiva, ma
anche per gli aspetti senso-percettivi, affettivi, relazionali, ecc. ed è da
qui che l’insegnante deve partire per cominciare a trovare le risorse, le
capacità e tutte quelle attitudini che esistono, anche se soffocate dal peso
della disabilità. Il soggetto con un disturbo cognitivo, quindi, manifesta una
struttura della personalità che è anche frutto (ma non solo) della disabilità e
del suo personale modo di adattarsi all’ambiente e di rispondere agli stimoli
esterni. Per molto tempo questo tipo di patologia in età evolutiva è stata
considerata come un problema legato alle quantità di competenze acquisite e,
quindi, come il risultato del rallentamento rispetto al loro normale ritmo di
acquisizione.
Quasi
tutti gli studi più recenti, in realtà, concordano nell'identificare la natura
del disturbo cognitivo non più come un semplice ritardo nell'acquisire
specifiche abilità, bensì come il risultato di interrelazioni anomale dei
diversi aspetti che strutturano l'intelligenza.
Con
i bambini con i quali ho lavorato, presentavano spesso un disturbo di tipo
cognitivo; occorreva allora affrontare una progettazione didattica che tenesse
conto, non tanto della distanza che esiste tra la sua età anagrafica e quella
cognitiva, bensì al modo in cui l’alunno “funziona” in quel preciso contesto,
quali strategie adotta di fronte ad una situazione problematica, come si
rivolge ai compagni e agli insegnanti, che tipi di giochi propone, come
reagisce di fronte ad una situazione nuova, ecc.
Quali
sono i modi e le dinamiche, anche di natura emotiva, che si mettono in gioco
quando al soggetto sono richieste prestazioni di natura intellettiva?
L'esperienza che si ripete nell'insuccesso, nel fallire sistematicamente le
diverse prove scolastiche a cui il bambino viene sottoposto, non può che
determinare lentamente, un atteggiamento di rifiuto verso l'attività
didattica [38].
Per
me era importante, allora, cercare di essere un educatore incoraggiante, che
sapesse far forza su ciò che il bambino sapeva fare realmente, in modo da
stimolarlo in maniera costruttiva e motivante.
Motivare
un bambino significava, per me, aiutarlo a prendere coscienza di ciò che
realmente sapeva fare e da lì progredire, gradualmente, in sintonia con i ritmi
ed i tempi della classe.
L'approccio
iniziale con il bambino disabile è fondamentale per quanto riguarda il suo
successo scolastico futuro e la qualità della relazione con l'insegnante e la
classe stessa.
Fin
dall'inizio, il bambino disabile deve avere la percezione che l’insegnante o il
pedagogista non è lì per lui ma per la classe intera e che il suo compito sia
quello di favorire il più possibile la realizzazione di un clima scolastico
sereno, equilibrato, dove tutti possano cooperare per il raggiungimento di
obiettivi comuni.
In
relazione a questo è stato fondamentale, allora, che i bambini svantaggiati
avessero un programma didattico da
seguire che fosse, da una parte in sintonia con i loro ritmi di apprendimento,
dall'altra, il più possibile vicino al tipo di lavoro svolto dagli altri
bambini. L'allievo disabile, in poche parole, deve maturare la percezione che
il suo programma da svolgere segue, anche se con contenuti modificati, quello
della classe, così da sentirsi realmente parte del gruppo e non un elemento
estraneo che non ha niente da condividere con gli altri bambini.
L'atteggiamento
che dovevo mantenere era quello maturato
sulla consapevolezza che non avevo a che fare con un disabile ma principalmente
con un bambino e, come tutti bambini, con i suoi interessi, le sue esperienze
ed il suo bagaglio di conoscenze. Questo concetto è fondamentale per chiunque
svolga attività educative, infatti, credo sia importante identificare sin dai
primi incontri le abilità residue dell'alunno per poterle far emergere e
nutrire, pur essendo consapevole dei limiti imposti dalla patologia.
5 Il
progetto pedagogico: alcune riflessioni
E’
stato importante per me mantenere una visione dell’alunno o degli alunni con i
quali lavoravo, non centrata sulle
condizioni di disabilità ma guardando invece a valorizzare sempre le specifiche
differenze soggettive e le caratteristiche personali.
Occorreva
in poche parole tenere sotto controllo l'inadeguato adattamento al contesto o
lo specifico ambito di azione dell’alunno, in modo da impostare una buona didattica fondata sul presupposto che,
modificando l’ambiente circostante, fosse possibile aiutare l’allievo a
superare le situazioni di difficoltà.
Mi interessava realizzare un insegnamento che
favorisse un'affidabile integrazione del soggetto nei diversi contesti,
consentendo di far leva sulla conoscenza dei bisogni, delle differenze
individuali, sulla creazione di un clima relazionale e culturale vivo e sull'attivazione
delle risorse.
Attualmente
si parla molto di didattica inclusiva, cercando di rendere l'insegnamento
sempre meno “speciale” per ridurre le differenze e allo stesso tempo rendere
normale all'interno della classe le differenze che connotano ciascun allievo.
L'ICF[39],
la classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della
salute, non considera l'individuo a partire dalle malattie o menomazioni, ma
evidenzia piuttosto le situazioni di vita quotidiana (sociali, familiari,
lavorative) che possono causare disabilità.
Nella
scuola, così come nelle diverse realtà sociali, il problema della disabilità è
sempre presente perché coinvolge aspetti politici, psicologici e strutturali
insieme; da questa complessa interazione scaturiscono resistenze al cambiamento
o atteggiamenti assistenzialistici non sempre costruttivi, che spingono ad
isolare o ad introdurre in maniera acritica un soggetto con disabilità
all’interno di un contesto senza nessuna prospettiva di reale integrazione,
senza cioè un progetto concreto da attuare. Quello che ne deriva è una
situazione delicata e complessa allo stesso tempo che coinvolge le condizioni
ambientali, lo stato di salute del bambino ed i fattori personali, dove
anche l’ ambiente gioca un ruolo
fondamentale, infatti, la presenza di barriere architettoniche e la mancanza di
facilitatori, limita le possibilità di azione di un soggetto.
Uno
degli obiettivi dei progetti pedagogici da me ideati è
proprio quello di maturare la consapevolezza che lo scopo dell’insegnante
è quello di attuare una didattica che consenta al bambino disabile, non tanto
di ottenere un'esistenza che sia il più possibile vicino alla normalità, quanto
piuttosto a garantire, attraverso l'integrazione sociale, di poter essere come
tutti a partire dal poter essere con tutti. Molti sono i ricercatori concordi
su quanto espresso finora; Ianes[40]
ad esempio parla di speciale normalità, nel senso che occorre fare riferimento
non soltanto agli alunni disabili ma a tutti gli allievi; i bisogni educativi
speciali sono infatti presenti anche in persone non certificate, nel senso che
chiunque, in un dato momento della propria vita può presentare un abbassamento
di autostima, una mancanza di motivazione, una difficoltà di apprendimento ed
altro. Occorreva insomma maturare la consapevolezza della specialità e
singolarità degli alunni che chiedono differenziazioni ed individualizzazioni
nei programmi di studio e di apprendimento. Se i docenti, così come i
pedagogisti non cominciano ad impostare il proprio lavoro a partire dalle
differenze soggettive degli alunni, nel pieno rispetto delle specifiche
modalità di apprendimento, nella diversa capacità di elaborazione delle
informazioni e nell’ accettazione delle pluralità delle intelligenze intese
come diversità di stili di pensiero, difficilmente avremo una scuola che sappia
rispondere in modo costruttivo alle esigenze di crescita degli utenti.
La
scuola è l’agenzia che consente di crescere insieme partendo dal condividere le
esperienze nel rispetto delle diversità soggettive; tutto questo però rischia
di rimanere una formula discorsiva vuota se non si accetta il fatto che
l'obiettivo primario da raggiungere è quello di una reale integrazione. Il
compito reale delle attività educativa da me proposte, stavano sempre nel
riuscire di rendere tutti partecipi, nel senso di non confondere il fare
presenza in un’aula con il coinvolgimento attivo degli alunni; il problema
principale è sempre stato quello di far acquisire alle scuole le
caratteristiche di un ambiente realmente inclusivo nei confronti di tutte le
diversità, in modo da farlo diventare il vero volano per consentire a chiunque
di partecipare in modo attivo in tutti i contesti sociali[41].
Naturalmente
per raggiungere traguardi così importanti e ideare un progetto pedagogico ad hoc, occorre che sapessi adottare
didattiche precise, oltre a definire obiettivi specifici relativi alle
principali abilità di base che possiamo così sintetizzare:
Abilità
motorie[42]
Schema corporeo
-
riconoscere e denominare segmenti corporei
-
riconoscere la destra e la sinistra
-
assumere posizioni su imitazione
-
assumere posizioni seguendo indicazioni verbali
-
verbalizzare posizioni
-
rappresentare correttamente la figura umana
-
aver acquisito la dominanza laterale
Coordinazione dinamica generale
-
possedere un adeguato equilibrio statico e
dinamico
-
variare correttamente i propri movimenti in
relazione alle caratteristiche dell’ambiente
-
eseguire i movimenti in sequenza
-
eseguire percorsi motori
Abilità
percettive
Percezione visiva
-
riconoscere e denominare colori, forme e
dimensioni
-
abbinare immagini uguali
-
individuare somiglianze e differenze
-
riconoscere forme diversamente orientate nello
spazio
Percezione uditiva
-
riconoscere suoni e rumori
-
discriminare suoni e rumori simili
Abilità
percettivo-motorie[43]
Coordinazione oculo-manuale
-
eseguire percorsi grafici
-
ripassare linee curve e spezzate
-
rispettare, con il gesto grafico, le direzioni
alto-basso, sinistra-destra
-
riprodurre correttamente figure geometriche e
segni alfabetici
Integrazione spazio-temporale
-
riprodurre ritmi
-
leggere e rappresentare ritmi
-
riordinare in sequenza
Orientamento spaziale e temporale
-
individuare e denominare relazioni spaziali
nell’ambiente e nelle immagini
-
eseguire consegne con indicazioni di tipo
spaziale
-
disegnare rispettando le relazioni spaziali fra
gli elementi
-
riprodurre segni rispettando le relazioni
temporali
-
riprodurre una serie di elementi mantenendo la
sequenza spaziale data
-
individuare relazioni temporali nelle esperienze
temporali
-
orientarsi nel tempo usando simboli
convenzionali
-
ordinare immagini in sequenze logico-temporale
Abilità
linguistiche[44]
Comprensione
-
comprendere messaggi verbali sempre più
complessi
-
comprendere storie narrate dall’adulto
-
comprendere narrazioni di semplici esperienze
Funzionalità e produzione
-
pronunciare correttamente i vari fonemi
-
pronunciare correttamente parole
-
formulare correttamente frasi
-
riferire esperienze personali e collettive
-
possedere un patrimonio lessicale adeguato
-
usare correttamente e comprendere semplici nessi
logico-linguistici
-
usare il linguaggio verbale per stabilire
relazioni logiche fra oggetti e avvenimenti
Abilità
cognitive di base[45]
Attenzione e autonomia operativa
-
portare a termine brevi consegne
-
mantenere l’attenzione durante esperienze
collettive
-
portare a termine un’attività
-
ascoltare con attenzione brevi spiegazioni
-
ascoltare con attenzione la narrazione o la
lettura di una storia
Memoria uditivo-verbale
-
memorizzare stimoli visivi
-
memorizzare stimoli uditivi
-
memorizzare e riferire esperienze
-
memorizzare e rievocare storie
Logica e simbolizzazione
-
classificare in base a uno o più attributi
-
definire insiemi
-
completare insiemi
-
stabilire relazioni fra insiemi
-
seriare oggetti, immagini e simboli
-
rappresentare simbolicamente un’esperienza
-
riconoscere simboli visivi e uditivi
convenzionali
Attività scolastiche
-
Lettura: riconoscimento dei singoli grafemi,
analisi e sintesi di sillabe, parole e frasi, comprensione della lettura
-
Scrittura: padronanza del gesto grafico,
acquisire consapevolezza ortografica, comprendere, discriminare, associare grafemi e fonemi.
-
Calcolo: lettura e scrittura dei simboli
numerici, esecuzione delle operazioni di calcolo, comprensione e risoluzione di
situazioni problematiche[46]
-
Saperi disciplinari: comprensione della materia,
capacità di analisi e di sintesi del testo, abilità nell’effettuare
collegamenti fra discipline diverse, schematizzare e saper ripetere con parole
proprie un brano studiato.
Lo
scopo del lavoro progettuale, unitamente alla fase di osservazione e di
valutazione delle abilità di base, doveva servire a me e ai docenti per agire
sulle prestazioni compromesse di uno o più allievi con attività specifiche,
mirate al recupero delle abilità residue e al potenziamento di quelle già
possedute.
Lavorare
con i bambini disabili, comunque, significava anche rendersi conto di non
essere né io né gli altri docenti i loro tutori
né una loro protesi esclusiva; il nostro compito non era quello di
“sostenere” l'allievo ma quello di fornire un valido aiuto a tutta la classe,
cercando di creare, mantenere o ripristinare all'interno del gruppo-classe gli
equilibri, eliminando allo stesso tempo tutti gli elementi destabilizzanti, che
possono creare ostacoli o blocchi di natura emotiva e cognitiva.
Io
e i docenti dovevamo quindi lavorare sul sistema, sulla relazione educativa,
fungendo da ponte tra il bambino problematico e la classe, cercando di creare
dei compromessi fra le parti.
Il
mio intervento però non era di presa in carico del bambino in maniera
esclusiva; io ero una figura che operava
all'interno di un gruppo multidisciplinare,
l'elemento di raccordo tra i vari saperi
e le competenze di natura medica, pedagogica, psicologica e didattica[47].
Era
chiaro che noi adulti eravamo chiamati ad interpretare i bisogni formativi di chi deve maturarsi culturalmente e
socialmente; gli interventi educativi promossi sono diversi e vengono
considerati un'attività di recupero e di riabilitazione di alterazioni e
disturbi dell'apprendimento.
La
specificità della nostra professione è la didattica; occorre essere in grado,
attraverso la lettura della diagnosi redatta dal medico specialista o dallo
psicologo clinico ed i colloqui con le diverse figure sanitarie (logopedisti,
psicomotricisti della riabilitazione, educatori sanitari), di redigere un piano
educativo e didattico ben definito che sappia far fronte ai bisogni formativi
del bambino disabile.[48]
L'inserimento
del bambino problematico non doveva ridursi ad un semplice inserimento nelle
classi della scuola comune; occorreva infatti che alla certificazione medica si
accompagnasse una diagnosi funzionale in senso educativo-scolastico, nella
quale si ponessero in evidenza le principali aree di efficienza e di
inefficienza presenti nella fase di sviluppo osservata, al fine di progettare
gli interventi educativi e didattici più idonei a corrispondere ai bisogni e
alle potenzialità individuali.
A
meno che il bambino non si presenti a scuola già con una certificazione, la
prima fase consisteva di solito nell' individuazione del problema, da
parte del Consiglio di classe che lo segnala al Capo di Istituto, il quale, a
sua volta, lo segnala al medico della ASL.
Il
primo documento che veniva rilasciato dalle strutture sanitarie pubbliche era
la certificazione che definisce clinicamente la tipologia della disabilità;
al suo interno trovavamo la diagnosi funzionale, caratterizzata da una
serie di livelli di capacità del bambino disabile, permettendo di
giungere ad una conoscenza più approfondita delle potenzialità residue.
Potevamo così programmare un intervento didattico adeguandolo alle possibilità
dell'allievo.
Il
terzo documento era il profilo dinamico funzionale(PDF). Si tratta di un
documento che riprende la conoscenza dell'alunno dal punto di vista
sanitario-riabilitativo e lo trasferisce sul piano didattico. Nella stesura del
PDF veniva coinvolta, oltre alle componenti scolastiche, anche la famiglia.
Il
quarto documento era il piano educativo individualizzato (PEI). Si
tratta di uno strumento che l'insegnante utilizza nella programmazione del
lavoro quotidiano ed in cui si ipotizzano gli obiettivi, gli interventi, le
verifiche e le valutazioni in relazione ai bisogni dell'alunno. Il PEI rendeva
operativi i dati del profilo dinamico funzionale, utilizzando, per quanto
possibile, quelli forniti dalla diagnosi funzionale[49].
Nello
specifico, è importante sottolineare che:
la
diagnosi funzionale è un
documento che consta di una anamnesi fisiologica e patologica prossima e remota
del soggetto, dove sono indicate le varie fasi dello sviluppo neuro-psicologico
da zero a sedici anni; la diagnosi clinica redatta dal medico
specialista nella patologia segnalata, infine, sono indicate le aree entro le
quali registrare le diverse competenze, tra cui quella cognitiva, quella
affettivo-relazionale, linguistica, sensoriale, motorio-prassica,
neuropsicologica e della autonomia. Il profilo dinamico funzionale,
redatto dai docenti curricolari, dagli insegnanti specializzati della scuola,
in collaborazione con i familiari dell'alunno, comprende diversi assi, fra cui
la descrizione funzionale dell'alunno in relazione alle difficoltà che egli
dimostra di incontrare in settori diversi
e l'analisi dello sviluppo potenziale dell'alunno a breve e a medio
termine, desunto dall'esame dei parametri che abbiamo elencato precedentemente.
Il
Piano educativo individualizzato ha una durata annuale e va steso entro il secondo mese dell'anno
scolastico, dopo il relativo periodo di osservazione. La stesura del PEI spetta
al gruppo di lavoro della scuola, agli operatori sociali, al personale curricolare
e di sostegno della scuola. Sono inoltre chiamati ad intervenire i genitori ed
eventualmente il Pedagogista. Il documento redatto è soggetto a periodiche
revisioni da parte dello stesso gruppo operativo. Il PEI è in sintesi un
documento in cui sono descritti gli interventi integrati ed equilibrati tra di
loro, predisposti per l'alunno disabile, in un determinato periodo di tempo. E'
dunque un progetto globale di integrazione nel quale vanno a confluire progetti
di carattere didattico, riabilitativo e sociale. Occorre sottolineare che se
compete alla scuola la parte educativa e didattica del progetto connessa più specificamente con
l'aspetto dell'apprendimento, non può essere ignorata la necessità di una
stretta correlazione con i progetti riabilitativi e sociali. Occorre infine
ricordare che non esiste un modello standard per redigere il PEI anche se
pubblicazioni specialistiche hanno messo in circolazione alcuni moduli che si
differenziano pochissimo tra loro[50].
In via del tutto indicativa, possiamo dire che, generalmente, le voci
maggiormente ricorrenti nel documento del PEI sono: dati conoscitivi
sull'alunno (diagnosi, tipologia della disabilità e competenze
disciplinari, comportamenti, autonomia ed abilità relazionali); dati
conoscitivi sulla famiglia (composizione, situazione ambientale, rapporto
fra i componenti, atteggiamenti educativi, ecc.); dati conoscitivi
sull'organizzazione scolastica (tempo scuola, presenza o assenza di sussidi
didattici, percorso di apprendimento scolastico effettuabile, strategie di
intervento, forme di collaborazione fra insegnante specializzato ed altre
figure impegnate nell'integrazione, modalità e periodicità di verifica e di
valutazione, modalità di coinvolgimento della famiglia); interventi esterni (interventi
riabilitativi, psicologici, fisioterapici).[51]
Il
mio lavoro all’interno della scuola consisteva allora, prevalentemente, nella
stesura di un progetto centrato sul soggetto, che consentisse di adottare
approcci psicopedagogici idonei all’individuo in questione e alle competenze
(abilità) che si intendevano incrementare o sviluppare. Come più volte
specificato, quando si lavora con bambini certificati occorre tenere presente
la patologia, individuando anche, in relazione ad essa, un intervento
psicopedagogico ben strutturato[52].
Naturalmente,
non sempre mi trovavo a lavorare con bambini certificati ma semplicemente,
anzi, in più occasioni operavo in contesti particolari dove erano presenti
soggetti che manifestavano disagi o difficoltà di apprendimento, quindi, sarebbe
stato assurdo pensare che fosse sufficiente avere a disposizione un ricettario di interventi che obbedisca
alla logica: “se il bambino ha questo
disturbo o si comporta così allora si risponde in questo modo e si adotta
questo strumento”. Se così fosse, saremmo costretti ad ammettere che il
pedagogista svolge una mera funzione tecnica e che la pedagogia stessa sia una
semplice disciplina applicativa, uno metodo per istruire e basta, situazione
che, come abbiamo cercato di spiegare precedentemente, non sta affatto in
questi termini[53]. La pedagogia è infatti una scienza libera che
studia la formazione e l’educazione dell’uomo, rimanendo sempre del tutto
estranea a nozioni di ammaestramento
o di condizionamento, caratteristici delle pratiche trasmissive e coercitive[54].
Gli
strumenti esistenti sul mercato da utilizzare mi hanno consentito di
intervenire in maniera efficace nel recupero delle potenzialità e delle abilità
sommerse, per favorire il processo di integrazione o per diminuire le
condizioni di svantaggio. Questi materiali erano diversi e spaziavano dagli
strumenti didattici veri e propri (matematica, lettura e scrittura, materiali
per la dislessia, discalculia, schede per facilitare l’apprendimento delle
singole discipline come storia, geografia, scienze e lingue straniere ), alle
abilità cognitive (memoria, motivazione, abilità di studio, ecc.), dai
laboratori e conduzione di gruppi (teatro, arte, musica, autoconoscenza,
esercizio dei cinque sensi), alle metodologie educative vere e proprie
(orientamento e piano educativo individualizzato).
Ho
potuto inoltre utilizzare testi per le tecnologie e la media education,[55] per l’educazione emotiva e socioaffettiva
(relazioni, sessualità, autostima, emozioni), strumenti specifici per ADHD/DDAI
e per il linguaggio, comprese le difficoltà di letto-scrittura. Esistono,
ancora, strumenti adottabili dai docenti riguardanti l’autismo e le disabilità
(motricità, integrazione sociale, autonomia e ausili, ecc.) e quelli pertinenti
alle relazioni di cura[56].
Molti
dei materiali qui citati sono costituiti da parti fotocopiabili per agevolare
il nostro lavoro sia individualmente che in gruppo, soprattutto per quanto
riguarda il recupero delle difficoltà scolastiche, come disgrafie,
disortografie e discalculie. E’ importante comunque ribadire, un’ultima volta,
che le competenze dell’operatore non si basano su un uso acritico dei
materiali, non si fonda cioè, sull’uso indiscriminato dei test di valutazione
ma sulla capacità di individuare ciò che è più utile adottare, momento per
momento, in quella situazione con quel soggetto specifico, avendo sempre ben
chiaro cosa si intenda misurare, quale comportamento si voglia stimolare e come
si intenda valutare la prestazione manifestata[57].
6. Un esempio di intervento del Pedagogista
a scuola
Il
corso di specializzazione biennale in “il contributo della psicologia dello
sviluppo al successo dell’apprendimento scolastico”, mi ha consentito di
riflettere, come insegnante di scuola primaria e come Pedagogista libero
professionista, sulle diverse situazioni di disagio e di difficoltà di
apprendimento in cui mi imbatto ogni giorno a scuola con i bambini e nel mio
studio. Rielaborare alcune esperienze pedagogiche maturate in questi anni
attraverso le linee guida apprese dal corso di specializzazione, può essere
utile per riflettere ed approfondire concettualmente i passaggi salienti dei
progetti didattici e formativi che sono stati attuati a scuola.
Interessante
è la situazione di Giulio[58]
, un bambino di sette anni, che frequenta la seconda ed è inserito all'interno
di una classe di undici bambini, di cui due certificati.
E'
stato certificato dal neuropsichiatra della ASL
perché fin dalla nascita presenta, dagli esami clinici svolti, una
riduzione del corpo calloso, la struttura che separa ed allo stesso tempo mette
in connessione i due emisferi cerebrali.
Questo
problema comporta un danno generalizzato nelle seguenti aree:
.
cognitiva: insufficienza mentale media
.
affettivo relazionale: basso livello di autostima, scarsa motivazione al rapporto
con gli altri
.
linguistica: livello di comprensione, produzione e di utilizzo dei linguaggi
alternativi o integrati, basso
.
sensoriale: bassa funzionalità visiva ed uditiva (ma non necessita di protesi)
.
motorio-prassica: motricità globale impacciata, scarsa motricità fine, prassie
semplici e complesse estremamente compromesse
.
neuropsicologico: capacità mnestiche, attentive e di organizzazione
spazio-temporali molto ridotte
.
autonomia: personale e sociale piuttosto bassa
.
asse dell'apprendimento: gioco e grafismo, lettura e scrittura, uso spontaneo
delle competenze acquisite, tutte leggermente carenti.[59]
Giulio
fin dalla prima classe, ha la necessità di essere seguito da un insegnante
specializzato che rimane in classe insieme a lui per tre ore al giorno. Nelle
ore rimanenti non è prevista la presenza di nessuna altra figura (educatori,
operatori sociali, ecc.).
Giulio
frequenta la Scuola Primaria a Fucecchio; la sua permanenza all'interno della
struttura si prolunga anche durante le ore del pomeriggio, dal momento che,
come tutti i bambini della scuola, fa il tempo pieno.
I
genitori del bambino sono molto collaborativi ed accettano di aderire al
progetto da noi proposto, per aiutare il bambino a superare alcune difficoltà
di carattere relazionale e motorie.
Il
bambino nonostante le difficoltà legate alla sua patologia è estremamente
tranquillo, sereno e riesce a legare con tutti i componenti della classe, anche
se in maniera molto superficiale. Le sue difficoltà sensoriali, prassiche ed
intellettive non gli consentono, infatti, di vivere a pieno ed in maniera
gratificante le relazioni con gli altri bambini, essendo limitate le funzioni
motorie e del linguaggio.
Il lavoro dell’Insegnante/pedagogista nel
progetto da me ideato
Il
mio progetto all'interno della classe si è svolto a fianco dell'insegnante
curricolare; parlando con lei è emerso che ha effettuato il corso di
specializzazione polivalente, agevolando di molto, quindi, il lavoro da
svolgere con Giulio, sia nella fase di progettazione che di attuazione.
Il
bambino non segue un percorso didattico individualizzato, essendo capace di
seguire le lezioni della classe nella quale è inserito, sia nelle attività
logico-matematiche che in quelle di lettura e scrittura. I sussidi didattici
utilizzati sono prevalentemente giochi che possono aiutare a perfezionare
l'attività prassica, data la grande difficoltà del bambino a compiere i
movimenti fini-motori e a memorizzare le diverse sequenze operative. Sono stati
utilizzati giochi con materiali ad incastro, le costruzioni con i cubi,
infilare lacci in una serie di fori, copiare figure geometriche, comporre
figure con piccoli puzzle, disegnare.
Anche
per quanto riguarda la scrittura, spesso sono stati utilizzati materiali ad
incastro, dove occorreva inserire le giuste lettere della parola all'interno di
un riquadro con la relativa immagine stampata.
Ogni
attività di questo tipo che veniva proposta, offriva la possibilità di
osservare l'attività prassica ed ideativa da tre diversi punti di vista e cioè:
a)
l'imitazione: il bambino eseguiva
l'attività di incastro partendo da quella più semplice con la possibilità di
imitare ogni singolo movimento del docente, attraverso l'uso delle diverse
tessere.
b)
la copia: dopo aver appreso i movimenti necessari alla costruzione del
modello, il bambino doveva dimostrare di saper ricostruire l'oggetto, avendo
davanti a sé il prodotto finito.
c)
la riproduzione: il bambino veniva messo nella condizione di tenere a mente
le caratteristiche e ricostruire il modello a memoria. In pratica prima
l'insegnante costruisce il modello e poi l'abbatte, proprio davanti
all'allievo, sia per mostrare come è stato costruito, sia per sollecitarne la
ricostruzione.
Le
difficoltà emergevano soprattutto nel momento in cui occorreva trasferire le
competenze acquisite da un settore ad un altro; ad esempio, quando al bambino
veniva chiesto di riprodurre graficamente le lettere, anziché comporle con le
tessere ad incastro.
La
scrittura infatti, risulta essere un'attività molto difficoltosa, sia per
l'impaccio motorio, sia per l'impossibilità del bambino di poter mantenere
l'immagine mentale della lettera ed in seguito di riprodurla. Non solo. Per il
bambino spesso non era possibile neppure abbinare il suono della lettera alla
sua produzione grafica, tolto che per alcune vocali.
Le
attività logico-matematiche sono risultate anche esse di difficile attuazione;
al bambino mancava completamente il concetto di numero e non riusciva per
questo ad associare il simbolo grafico alla relativa quantità.
L'unico
modo per lavorare sulle quantità è stato con l'utilizzo di un sussidio
didattico specifico, costituito da una valigetta con all'interno molti orsetti
colorati in modo vario e di diversa grandezza. Grazie a questo gioco, tra
l'altro molto interessante per il bambino, è stato possibile lavorare su:
. i
raggruppamenti per colore e forma
. la
seriazione per dimensione ed altezza (dal più alto al più basso, dal più
scuro al più chiaro, ecc.)
. le
quantità per prendere coscienza che le quantità di un insieme non dipendono
dalla dimensione dei singoli elementi ma dal loro numero complessivo.
Abbiamo
lavorato partendo da un'esperienza concreta della quantità per poi arrivare al
numero, passando attraverso i concetti di appartenenza, disuguaglianza, classificazione,
consapevoli del fatto che il numero, dal quale spesso si usa partire, è
un'astrazione che all'inizio confonde le idee anziché chiarirle. Il punto di
partenza, visto il fallimento delle precedenti didattiche, è stato il concetto
di quantità, che fosse visibile, manipolabile e misurabile, anche attraverso
l'uso del linguaggio. La quantità, in poche parole, precede il numero, dato che
il numero non è una quantità ma è un segno che corrisponde ad una quantità.
Anche
attraverso l'uso dei regoli colorati, il bambino ha avuto modo di acquisire
nuove competenze procedendo in modo costruttivo e significativo, grazie ad una
adeguata base manipolatoria e rappresentativa. Pensare e rappresentarsi
mentalmente la quantità significa costruirsi i modelli base per una successiva
classificazione gerarchica del concetto di numero. I materiali come i regoli e
gli orsetti, sono serviti al bambino per costruirsi, anche se in maniera
approssimata, adeguati modelli dei concetti matematici implicati nelle varie
procedure operative. Il bambino non è comunque riuscito in maniera completa,
almeno durante il mio periodo di tirocinio, a distaccarsi dalla manipolazione
dei materiali per arrivare ad utilizzare soltanto le relative rappresentazioni
mentali nell'esecuzione e nella interpretazione dei compiti a lui
assegnati.
Per
quanto riguarda il linguaggio, invece, il programma didattico si è svolto
utilizzando specifici materiali come figure, letture, espressioni linguistiche,
ecc., cercando di dare al bambino una certa consapevolezza delle qualità
convenzionali e sociali del mezzo verbale.
Anagrammi,
giochi da tavolo come lo scarabeo ed i giochi verbali di gruppo, sono serviti
per rinforzare la motivazione ed i contenuti della comunicazione stessa. Il
primo passo da fare riguardava il rinforzo della fiducia che si costruisce nel
rapporto con l'ambiente. La fiducia
nella realtà è il fondamento di ogni rapporto oggettuale ed interpersonale; la
sua carenza rende insicuri e porta alla chiusura sociale. Sia per le insegnanti
che per i genitori è stato difficile cercare di promuovere e stimolare il
bambino all'autonomia, date le sue compromissioni non solo intellettive, ma
soprattutto motorie e sensoriali, che non lo mettevano in grado di relazionarsi
in maniera sicura con l'ambiente circostante. Da qui è nata l'idea di un
progetto educativo che avesse come base l'Educazione Psicomotoria, ossia quella
pratica che parte dal presupposto che l'atto motorio sia regolato dallo
psichismo, nel momento in cui esce dalla sfera degli istinti e diventa azione
volontaria ed intenzionale. Lo stretto legame tra la psiche e l'atto motorio fa
sì che l'educazione psicomotoria divenga una tecnica per facilitare la
partecipazione motoria ed emotiva del bambino, al fine di creare un atto
motorio nuovo. E' in sintesi un'attività pedagogica e psicologica che utilizza
le tecniche dell'educazione fisica al fine di migliorare il comportamento del
soggetto. In pratica non è il movimento in sé ad avere valore, ma tutta
l'attività motoria, purché sia volontaria, intenzionale e controllata. Al
centro di questa pratica c'è la motivazione del soggetto e non il risultato
ottenuto dall'esercizio fisico svolto; da qui nasce la profonda differenza e la
polemica con gli esercizi tradizionali dell'educazione fisica classica[60].
Il
progetto di Pedagogia Motoria
L’attività formativa da me proposta, prevede la possibilità
di realizzare un progetto che ha come protagonista l’attività motoria,
concepita in maniera diversa da quella classica, dando maggior rilievo ad
aspetti più fantasiosi e di gioco, così da coinvolgere realmente il bambino
disabile.
Il progetto prevede una sintesi fra l’educazione
psicomotoria classica ed il Metodo di Moshe Feldenkrais[61], lavorando sia sull’immagine
di sé, sull’equilibrio, la postura, la coordinazione globale e la respirazione,
sia sull’imitazione dei movimenti degli animali e le loro caratteristiche
comportamentali.
Il lavoro del progetto consisteva nel modificare alcune
parti dell’educazione motoria classica, togliendo quelle troppo meccaniche e
complesse, sostituendole con alcuni esercizi posturali, molto più rilassanti e
semplici.
La nascita del
Progetto
L’idea del progetto nasce dalle difficoltà motorie del
bambino che lo limitano sotto molti punti di vista; in pratica abbiamo pensato
che, realizzando attività di gioco e di psicomotricità fosse possibile
risvegliare l’interesse per l’attività fisica, aiutandolo a coinvolgersi
maggiormente con il gruppo della classe.
La difficoltà motoria, infatti, è accentuata dalla mancanza
di volontà e di entusiasmo da parte del bambino per qualunque forma di attività
fisica. Le disabilità sensoriali, l’equilibrio precario e la difficoltà di
coordinare i movimenti hanno indotto il bambino a ritirarsi da molte attività
di gioco con i compagni e ad aver scarsa fiducia nelle proprie capacità. Il
bambino ha paura a muoversi, a scendere le scale e a correre. Ecco perché
abbiamo preferito dare priorità ad un’attività psico-corporea anziché a
progetti di altra natura.
Quando
L’attività è svolta settimanalmente per un’ora e mezza ad
incontro, facendola coincidere con l’attività prevista dal progetto di
educazione psicomotoria. In questo modo il bambino può lavorare all’interno
della propria classe e si creano le premesse affinché l’alunno possa misurarsi
con gli altri e confrontarsi con le proprie capacità.
I modelli di riferimento
Nei testi di educazione psicomotoria, soprattutto quelli di
Vayer[62], Lapierre e Picq[63], è possibile
reperire numerosi suggerimenti di giochi e di attività idonee a svolgere una
didattica psicomotoria. La scelta delle attività dipende dai prerequisiti dei
bambini, ossia dalle caratteristiche tipologiche del danno, dalla gravità dello
stesso e dalle capacità residue che possono venir impiegate negli esercizi;
infine, dalla capacità dell'insegnante e dell'ambiente a creare l'atmosfera
motivante. Nella pratica psicomotoria si aiuta il bambino ad abbinare andature
a ritmi diversi, ad interrompere un movimento per iniziarne un altro, seguendo
indicazioni visive o segnali acustici: un lavoro sul
corpo che mira a una migliore conoscenza di sé, prendendo coscienza sia dei
movimenti che questo compie, sia di ogni singola parte che lo compone. Questo è
in sintesi l'educazione psicomotoria: non una forma di terapia o di
riabilitazione, quindi, eppure molto più di una ginnastica dolce. Si tratta di
una tecnica che si rivolge all'uomo nella sua globalità, dallo scheletro ai
muscoli, dal sistema nervoso alla psiche. Parte dal presupposto che gli esseri
umani hanno un potenziale innato, che si esprime con la capacità di
apprendimento, e si propone di fornire gli strumenti di auto-miglioramento per
aumentare la qualità della vita. Vuole cioè rendere più armonico ed efficiente
il modo in cui si compiono le attività, sia nel tempo libero sia in ambito
professionale. È un metodo che permette di rendere ciascuno più consapevole
delle proprie azioni e liberarlo dagli schemi abituali che causano stress e
altre patologie.
Due sono gli approcci: la
Consapevolezza attraverso il movimento (Cam) e l'Integrazione funzionale (If).
Nel primo, che si svolge in gruppo, l’insegnante guida gli allievi a eseguire
esercizi facili e confortevoli che insegnano a prestare attenzione a come ci si
muove. Si lavora sui movimenti base dell'agire umano: il flettersi,
l'estendersi, il ruotare, il camminare ecc. Gli allievi imparano a usare le
parti del corpo in armonia, in modo che ognuna si metta in relazione con le
altre a seconda della funzione motoria che si vuole eseguire. L'integrazione
funzionale, invece, si svolge in sedute individuali e prevede che l'esperto
interagisca con l'allievo attraverso una comunicazione non verbale.
L'insegnante, toccandolo delicatamente, indica a quest'ultimo come muoversi
secondo schemi motori più ampi, facendo sciogliere le tensioni e sperimentando
nuove sensazioni. Anche se diversi, i due approcci hanno lo stesso scopo:
prendere coscienza del proprio corpo nello spazio e intrecciare relazioni meno
conflittuali con questo.
Gli incontri
Ogni incontro consiste nell'eseguire seduti, sdraiati o in
piedi esercizi mai impegnativi, talvolta persino divertenti, riguardanti una
funzione corporea precisa ("imparare" correttamente a camminare, a
stare seduti, a passare da una posizione all'altra o a strisciare...) e nel
prestare attenzione alle parti dello scheletro a questa collegate. L'educazione
psicomotoria aiuta tutti coloro che desiderano conoscere meglio il proprio
potenziale psico-corporeo. Offre benefici anche nel campo della rieducazione e
aiuta le persone che soffrono di dolori vertebrali, muscolari e i cardiopatici
(educando la respirazione).
I principi fondamentali della pratica
psicomotoria sono[64]:
ldistribuire in modo efficiente il carico
della gravità sullo scheletro, per dare al tessuto osseo la sollecitazione più
funzionale
lmigliorare la propria postura
lacquisire un'armonia nel cammino
lmigliorare l'equilibrio per prevenire le
cadute
Finalità del progetto
- Valorizzare
le abilità del bambino disabile aiutandolo ad avere maggior fiducia in se
stesso.
- Presa in
carico dell'alunno disabile come parte integrante dell'istituzione scolastica.
- Utilizzo
delle competenze professionali come risorse.
- Creare un
raccordo sistemico tra docenti, operatori, famiglie e alunni.
- Rafforzare il potenziale emotivo e cognitivo
dell'alunno.
OBIETTIVI
SPECIFICI
-
Sviluppare la consapevolezza del proprio corpo come unità globale
-
Eseguire spinte e trazioni in maniera rilassata
-
Sviluppare la capacità di ascoltare e riconoscere la propria respirazione
-
Sviluppare la capacità di concentrazione e di ascolto
-
Percepire i movimenti ritmici del corpo
-
Sviluppare la capacità di coordinazione e concentrazione
-
Esercitare la capacità di eseguire in modo coordinato una serie di istruzioni
-
Accettare e affrontare la resistenza fisica e mentale per rafforzare il proprio
senso di identità
SPAZI
L'educazione
psicomotoria, come ogni attività, necessita di uno spazio che consenta di
esercitarla in un modo che sia il più possibile proficuo ed ottimale. A questo
scopo viene utilizzata una sala di oltre 50 metri quadrati, considerando
necessario un certo isolamento da e verso l’esterno. L’attività è svolta nel
laboratorio appositamente strutturato.
Aspetti metodologici
La
presenza dell’insegnante specializzato, una reale collaborazione dei docenti
curricolari e non, il coinvolgimento delle famiglie e del personale ausiliario,
ha creato opportunità diverse di lavoro e risposte concrete agli effettivi
bisogni degli alunni.
Questo
progetto ha promosso ed accolto, quindi, iniziative di cooperazione;gli alunni
coinvolti in questa attività sono stati stimolati all'uso appropriato di alcuni
canali di comunicazione alternativa e allo scambio finale delle esperienze
vissute. E’ stato importante lavorare molto sugli scambi tra bambini, dove
ciascuno con le proprie potenzialità e competenze, è servito da veicolo per
colmare e per consolidare le esperienze del gruppo[65].
In
particolare è stata posta attenzione a:
-
il metodo della ricerca e scoperta guidata;
-
attività proposte in forma ludica;
-
uso dei vari linguaggi;
-
compiti graduati per difficoltà;
-
variare il tipo di lavoro quando viene meno l'attenzione;
-
esercizi semplici e fantasiosi tipici dell'educazione psicomotoria;
-
flessibilità e dinamismo;
-
lavori di gruppo.
La Tecnica
Il Pedagogista, così come l’insegnante di sostegno o il docente
curricolare, è parte di una interazione che lo mette in discussione e lo porta
a modificare alcuni atteggiamenti.
L’ottica
dell'educazione psicomotoria è, prima di tutto, un coinvolgimento del docente
nell’azione educativa, più ancora a livello emotivo e motorio che verbale.
L’operatore
deve essere sempre l’animatore “all’interno” e mai un semplice ripetitore -
proponente in situazioni di “gioco - motorio” e di dinamiche in gruppo. Occorre
allora prestare la massima attenzione alla comunicazione verbale, ampliandola,
motivandola, rendendola sempre più precisa e complessa.L’intervento di
Pedagogia motoria ha quindi operato sempre sulla globalità della persona a
livello:
a) riabilitativo – funzionale
b) cognitivo
c) relazionale – comunicativo
d) ludico – espressivo
Gli esercizi
proposti sono pensati per bambini ed alunni normodotati e diversamente abili.
Passaggi evolutivi, previsti metodologicamente, assumono più spontaneità se il
sussidio viene sfruttato creativamente.
Le aree di intervento come ipotesi di lavoro sono state le seguenti[66]:
A) Schema corporeo
B) Lateralizzazione
C) Coordinamento
D) Orientamento spazio – temporale
E) Equilibrio
F) Tono
G) Ritmo
Strumenti
Gli
strumenti specifici usati per la realizzazione del progetto, riguardano
prevalentemente l’uso di materiali semplici come cerchi, bastoni, travi e sfere
di varia dimensione e peso.
Verifica e valutazione
La
verifica e la valutazione sono attuate secondo i seguenti parametri :
a)
Alunno
-
socializzazione
- interazione
comunicativa
-
apprendimento
- reali abilità motorie acquisite
- fiducia in se stesso e coinvolgimento
b) Docenti
-
pianificazione del lavoro
- confronto
all'interno del gruppo docente[67]
Parametri di Valutazione adottati
. non può, non ce la fa a correre, ha problemi
motori
.
si blocca per difficoltà emotive
.
ha difficoltà a riprodurre ritmi diversi
.
riconosce e riproduce ritmi diversi, ma non riesce a collegare e ad integrare,
anche a ritmi semplici, andature adeguate
.
abbina andature diverse a ritmi musicali diversi solo dietro indicazioni
precise da parte dell'insegnante
.
inventa andature e ritmi, elaborando creativamente possibilità di abbinamenti
.
sa riprodurre graficamente quanto fatto a livello motorio, riuscendo sia a dare
nel disegno il senso del movimento, sia a segnare con un codice convenzionale
il ritmo segnato.
Tempi per la valutazione
- In itinere
e alla fine del progetto;
- Incontri
settimanali dei gruppi docenti interessati
Sintesi Finale
Questo
lavoro è stato utile soprattutto per prendere coscienza delle difficoltà che un
Pedagogista incontra, attraverso il confronto diretto con gli insegnanti ed il gruppo classe con cui lavorare,
ciascuno nel proprio ruolo. Affrontando le problematiche di ognuno e
confrontando i diversi punti di vista, è
stato possibile trarre conclusioni operative ed arrivare così a soluzioni da
sperimentare sul campo.
Non
solo. Grazie al corso di specializzazione è stato possibile analizzare le
normative relative all’integrazione e chiarire in sede collegiale il ruolo del
Pedagogista nella scuola, così da dissipare ambiguità ed incertezze o
sovrapposizioni di ruolo. Dal punto di vista prettamente tecnico, invece,
particolarmente utile è stato acquisire dimestichezza con strumenti per
l'osservazione e la valutazione delle abilità, così da orientare meglio le
energie e limitare interventi improvvisati e privi di qualunque fondamento
scientifico.
Condividere
con gli insegnanti le proprie esperienze formative è servito anche per
migliorare e rimettere in discussioni le conoscenze acquisite e date per
scontate e per imparare a guardare le situazioni da punti di vista diversi. In
sintesi, grazie al percorso di tirocinio è stato possibile migliorare la
capacità di individuare il fabbisogno di risorse per l'individualizzazione e
l'abilità nel progettare interventi didattici personalizzati nell'ottica della speciale
normalità, riconoscendo i bisogni primari del bambino così da trovare i
punti di contatto tra l'attività della classe e quella del soggetto disabile.
La
riflessione su questa esperienza è
servito come banco di prova con cui
confrontarsi, al fine di verificare le competenze ed abilità maturate durante
il percorso formativo universitario, inoltre, è stato possibile affinare gli
strumenti a disposizione e le capacità di osservazione, metodologiche,
didattiche e relazionali[68].
A
questo proposito, il lavoro svolto con Giulio è stato proficuo sotto diversi
aspetti, soprattutto per quanto riguarda l'attività didattica all'interno della
classe. Il bambino ha gradito molto la presenza di una figura maschile,
rendendosi più disponibile allo svolgimento delle diverse attività scolastiche.
Giulio a questo proposito, ha manifestato un maggiore interesse verso le attività
logico-matematiche e letterarie, compilando le schede, appositamente
selezionate per lui, cercando di coinvolgere anche gli altri bambini.
Una
nota interessante da prendere in considerazione riguardava il fatto che,
soprattutto negli ultimi mesi, era Giulio stesso che ricercava l'attenzione
degli altri bambini, per mostrare loro come fosse bravo nei giochi di incastro
e di manipolazione. Anche la classe rispondeva positivamente alle richieste di
Giulio, dimostrandosi disponibile a collaborare con lui e ad accettare le
diverse proposte.
E'
per merito della collaborazione degli insegnanti, dei materiali educativi nuovi
e della volontà degli altri bambini di “stare con Giulio”, che l'alunno ha
potuto sperimentare la gratificazione che si riceve nel fare e fare bene il
proprio lavoro. Sono diminuiti gli atteggiamenti legati alla distrazione ed al
disinteresse, semplicemente facendo leva sulla motivazione e sulla
gratificazione. Grazie all'atteggiamento incoraggiante degli insegnanti, con il
pretesto della mia presenza in classe, il bambino ha potuto vivere la novità in
maniera costruttiva, innescando nuovi comportamenti ed un atteggiamento
sicuramente più positivo verso la scuola.
I
problemi maggiori sono rimasti quelli riguardanti la sfera motoria, dell'orientamento
e della coordinazione dei movimenti in generale, che sono stati superati grazie
alla motivazione e alla collaborazione di tutti coloro che hanno partecipato
attivamente al progetto. Talvolta però, nonostante il forte impegno da parte
dei docenti nel programmare questo
importante percorso per la classe, non c'è stato modo di attivare il progetto
in maniera completa. Gli impegni dei bambini con il teatro, con le lezioni di
musica, con i progetti di educazione ambientale, hanno tolto alcune volte il
tempo necessario all'attuazione del percorso di psicomotricità, creando
difficoltà e momenti di disorganizzazione che, tuttavia, non hanno impedito ai
bambini di impegnarsi realmente e di esprimersi in maniera costruttiva durante
le ore di laboratorio.
Conclusioni
E’
stato soltanto un viaggio, un cammino importante, per certi versi
autobiografico e per altri occasione di incontri, di nuovi apprendimenti e di
esperienze professionali proficue. Questa tesina mi ha aiutato a coniugare
l’idea che avevo e mi ero costruito sulla figura del pedagogista, maturata attraverso le precedenti esperienze
universitarie, con i nuovi saperi frutto dell’attività di ricerca svolta dal
corso di specializzazione Unimarconi. Oltre ad alimentare le mie conoscenze,
questo percorso universitario è servito ad ampliare il concetto relativo alla
figura pedagogista che avevo maturato con il lavoro, consentendomi di
innervarlo e di nutrirlo con nuovi apprendimenti, così da rivalutarne il volto
operativo che altrimenti rischiava di svalutarsi e di sbiadirsi, annegando
nelle solite routine lavorative quotidiane.
E’
stato grazie al lavoro a contatto con i bambini e all’esperienza formativa, che
mi ha visto impegnato accanto a soggetti svantaggiati culturalmente e in
situazione di handicap, che ho potuto constatare con mano come spesso le
persone non possiedano la forza sufficiente per credere in se stesse e tendano
a delegare tutto ai docenti, alla
società o comunque agli adulti, finendo per credere di più in ciò che gli altri
dicono che in quello che riescono a sperimentare da soli. Tutto questo è frutto
da una parte delle difficoltà soggettive in cui molte persone riversano e alle
quali il pedagogista clinico deve offrire il proprio aiuto e contributo, dall’altra
dalla mancanza di capacità (anche nostra) di incrementare l’autonomia e la
libera espressione dei soggetti, favorendo invece l’omologazione e la
ripetizione continua dell’uguale, senza mai operare al fine di mettere a nudo
le reali potenzialità dei bambini, le uniche in grado di attivare il processo
creativo che nasce e si sviluppa dal talento, dalle doti soggettive e dalla
volontà di affermazione. Il significato della pedagogia clinica forse risiede
proprio nel fatto che, per riuscire a capire gli altri prima dobbiamo fare
chiarezza in noi stessi e per raggiungere questa meta occorre conquistare
l’autoconoscenza. La pedagogia come scienza della formazione, aiuta a
riflettere sulla propria educazione in maniera profonda e sistematica,
innescando un cammino autobiografico che culmina con la conoscenza di se stessi
e dei propri limiti. La pedagogia diviene allora un mezzo di autoindagine, la
via che consente di autoesplorarsi e comprendersi in maniera profonda. Non
importa sapere se nell’intervento pedagogico ideato si stia dando maggiormente peso al percorso di
scrittura rispetto a quello di pittura o di calcolo; se sia maggiore
l’interesse rivolto verso gli aspetti relazionali rispetto agli intervenenti
tesi a ridurre una situazione di svantaggio; la tecnica adottata non è
essenziale perché le uniche cose che realmente contano (e questo l’ho appreso
nel percorso universitario) sono la sincerità nei confronti di se stessi e la
volontà di migliorarsi.
La
pedagogia, a conclusione di questo lavoro, è paragonabile ad un viaggio che
altro non è se non un percorso formativo, un itinerario spesso accidentato,
irto di rischi e pericoli. Un cammino difficile che conduce alla consapevolezza
di sé e, allo stesso tempo, ad una radicale trasformazione della propria
identità, percorrendo sentieri avventurosi e suggestivi, alla continua ricerca
delle proprie radici più profonde. Un percorso avventuroso che conduce alla
conoscenza, alla costruzione di se stessi e della realtà circostante, superando
prove e difficoltà che aiutano a crescere e maturare, grazie sempre e comunque
alla relazione con l’altro, sia esso adulto o bambino, disabile o anziano.
La
pedagogia è quindi, per un certo verso, un viaggio intellettuale e di immaginazione, dove non mancano riferimenti mitologici
e figure che appartengono al mondo della letteratura, della fiaba e dell’arte,
intesa sia come pittura e musica sia come danza, teatro, ecc. Questo viaggio,
per certi aspetti mentale, è un’esperienza che conduce alla libertà ma per
arrivare a sperimentarla, occorre camminare, affermare la propria identità e
superare tutte le difficoltà del caso. Spesso il sentiero percorso si dirama,
si aprono nuove possibilità, nuove strade e il cammino diviene un vagabondare e
un errare, un pellegrinaggio che conduce verso terre inesplorate e sconosciute.
Questo vagare, anche senza una meta certa, rappresenta un’occasione irrinunciabile per il
pedagogista che vuole arrivare a costruirsi una propria identità ed esperire quella
pienezza dell’essere che è permessa soltanto attraverso un’attenta ricerca
delle proprie leggi e della propria natura.
La
pedagogia è una scienza che stimola la capacità di gioire della vita,
restituendo spazio alla mente e rinnovando i sensi; il mondo interiore viene
appagato e risponde espandendosi con forza in tutte le situazioni della vita.
La fantasia, la creatività e il gioco alimentano questo processo di auto -
miglioramento e di perfezionamento
interiore. Lo scopo del viaggio è anche quello di incrementare l’energia
creativa del praticante superando i limiti del proprio corpo, attraverso
l’esercizio e l’impegno costante.
Il
viaggio formativo intrapreso mi ha permesso di incrementare le capacità riflessive ed operative, superando i
condizionamenti e i limiti che mi ero imposto da solo, anche se
inconsapevolmente. Il fine credo di averlo raggiunto, attivando un processo di
realizzazione creativa, che mi ha permesso di trasformare e di evolvere me
stesso in maniera completa, superando la soglia che separa la potenza
dall’atto, attraverso una sintesi dinamica di autoconoscenza e
autorealizzazione[69].
Lo
studio delle Scienze dell’Educazione prima (annesso a pedagogia clinica), delle
Scienze della Formazione Primaria dopo e, adesso, del corso di specializzazione
biennale, mi ha consentito di intraprendere un percorso incerto e
disorientante che, se da una parte mi ha
fatto saggiare l’ampiezza e la profondità del processo del formativo,
dall’altra mi ha mostrato come una simile grandezza possa costituire il limite
stesso del viaggio. Grandezza perché ho avuto modo di costruirmi, da solo, il
mio percorso formativo; limite perché, trovandomi davanti a tanti universi che
gravitano intorno alla formazione, il rischio del disorientamento l’ho
avvertito ed è stato un po’ come se in
realtà mi fossi trovato innanzi al
nulla, dove tutto poteva portare ovunque e in nessun posto. Dopo vari
tentativi, salite e discese, soste e interruzioni, questo ultimo percorso
formativo universitario mi ha consentito di saldare le conoscenze tecniche con
quelle relative alla filosofia, alla pedagogia, alla psicologia e all’
antropologia, sperimentando nuove possibilità e ambiti di intervento diversi.
Ho iniziato così a proiettare le mie conoscenze con i ragazzi in situazione di
handicap, rimettendo costantemente in discussione il mio modo di intendere,
costruire e concepire la realtà delle cose e della pedagogia stessa.
La
formazione se vissuta introspettivamente rappresenta un cammino, privato, con
una meta il più delle volte ideale, che costringe a vagabondare, a sperimentare
e a fallire, a ricominciare e ad apprendere dai propri errori. Un percorso con
una partenza incerta ed un arrivo mai definitivo…
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[1] Crispiani P., Pedagogia clinica. La pedagogia sul campo, tra scienza e professione, Junior
, Bergamo, 2001, p. 12
[2] Cfr. Itard J. M., Il fanciullo selvaggio, 1801, 1807, Armando, Roma, 1970
[3] Cfr. Séguin E., L’idiota, Armando, Roma, 1970
[4] Cfr. Montessori M., La scoperta del
bambino, 1909, Garzanti, Milano, 1949
[5] Cfr. Decroly O., La funzione di
globalizzazione e l’insegnamento, La Nuova Italia, Firenze, 1962
[6] Cfr
Claparède, Psychologie de l’enfant et
pèdagogie expèrimentale, Paris, 1922
[7] Massa R., La clinica della formazione, Franco Angeli, Milano, 1997
[8]
Massa R., op. cit.,pp. 582 e ss.
[9] Cfr. Riva M. G., L’abuso
educativo, Unicopli, Milano 1995
[10] Cfr. Demetrio D., L’interiorità maschile, Rafaello Cortina, Milano, 2010
[11] Cfr. Massa R.
Cerioli R., La Clinica della Formazione
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Milano, 1999
[12]
Crispiani P. Itard e la pedagogia
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[13] Cfr. Vygotskij L. S., Fondamenti di Difettologia, Bulzoni, Roma, 1986
[14] Cfr. Crispiani P. Pedagogia
clinica. La pedagogia sul campo, tra scienza e professione, Junior ,
Bergamo, 2001
[15] Cfr. Demetrio D., Filosofia dell’educazione ed età adulta, Utet, Torino, 2003
[16] Per approfondimenti sulla gestione delle
relazioni nei diversi contesti, Cfr. Catarsi C. (a cura di), La relazione d’aiuto nella scuola e nei
servizi socioeducativi, Del Cerro, Tirrenia, Pisa, 2004.
[17] Sulla relazione d’aiuto, Cfr. Canevaro A.,
Chieregatti A., La relazione di aiuto,
Carocci, Roma, 2001.
[18] Cfr. G. Viscito, Pedagogia Sociale,
Unità 2., Unimarconi, pp. 14 e ss.
[19] Cambi F., La
cura di sé come processo formativo, Laterza, Roma, 2010, p. 7
[20] Sull’educazione interiore, intesa come
Pedagogia introspettiva con il suo linguaggio simbolico e le sue pratiche per
coltivare l’idea stessa di interiorità, si è soffermato Demetrio. Per
approfondimenti Cfr. Demetrio D., L’Educazione
Interiore, La Nuova Italia, Firenze, 2000
[21] Cambi F., La
cura di sé come processo formativo, op. cit. pp. 5 e ss.
[22] Cfr. Detti E., Il piacere di leggere, Firenze, La Nuova Italia, 1987
[23] Mariani A, La lettura come formazione del sé, in Il Monitore, 1, 2002
[24] Sabatano C., Formare al senso di sé, Pisa, ETS, 2005
[25] Il termine “briccole è stato preso in
prestito da Trisciuzzi, intendendo con questo termine i grossi pali che vengono
piantati nelle lagune e che servono per segnalare la navigazione sicura dei
naviganti; trasferendoci in ambito pedagogico,
questo termine assume un significato relativo ai punti di riferimento
esistenziali e alle sicurezze che offrono durante il viaggio della vita. Cfr.
Trisciuzzi L., Elogio dell’educazione,
ETS, Pisa, 1998, p.11
[26] Cambi F., L’autobiografia
come metodo formativo, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. V e VI
[27] Castelli E. (a cura di), La diaristica filosofica, Padova, Cedam, 1959
[28] Demetrio D., Raccontarsi, Milano, Raffaello Cortina, 1995
[29] Demetrio D., Filosofia del camminare, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006,
pp. 223 e ss.
[30] Demetrio D., Ascetismo metropolitano, Ponte alle Grazie, Milano, 2009, pp. 7 e
ss.
[31] Sul tema del teatro e dei detenuti si è
soffermato Cambi in un saggio. Cfr. Cambi F., Le devianze giovanili e il trattamento educativo: la cura e la
socializzazione. Appunti sulla formazione dei formatori, in Boffo V., La Cura in Pedagogia, op. cit., pp. 153
e ss.
[32] Colangelo S., Come si legge una poesia,
Carocci, Roma, 2003
[33] Iori V., Nei
sentieri dell’esistere, Erickson, Gardolo (TN), 2006 pp. 11 e ss.
[34] CFR. Trisciuzzi L., Manuale di didattica
per l'handicap, Laterza, Roma-Bari, 2000, pp. 251 e ss.
[35] Zelioli A., L'insegnante di sostegno,
in Iniziative pedagogico-didattiche per l'inserimento scolastico degli
handicappati,Ministero della Pubblica Istruzione, <<Atti del Seminario
Nazionale>>, 1981, Arezzo
[36] Sugli aspetti autobiografici e relazionali
CFR. Trisciuzzi L., Zappaterra T., Bichi L., Tenersi Per Mano, University Press, Firenze, 2006
[37] C.F.R Matteoli S., L’intervento del pedagogista clinico nelle difficoltà di apprendimento,
edizioni junior, 2010, San Paolo (Bg)
[38] C.F.R. Trisciuzzi L., Galanti M.A., Pedagogia
e didattica speciale per insegnanti di sostegno e operatori della formazione,
ETS, Pisa, 2001, pp. 193 e ss.
[39] O.M.S.,ICF, Classificazione Internazionale
del Funzionamento, della Salute e della Disabilità, Erickson, Trento,
2002
[40] CFR. Ianes, D., La speciale normalità,
Erickson, Trento, 2006.
[41] Bonaiuti G., Calvani A., Ranieri M., Fondamenti
di didattica, Carocci, Roma, 2007, pp. 138 e ss.
[42] Per approfondimenti circa gli aspetti
psicomotori, CFR. Trisciuzzi L., Zappaterra T., La psicomotricità tra biologia e didattica, ETS, Pisa, 2004
[43] Per approfondimenti circa gli aspetti
percettivi e grafomotori, Cfr. Trisciuzzi L., Cappellari G.P., Fondamenti di Psicopedagogia, La Nuova
Italia, Firenze, 1996; oppure Cfr. Pratelli M, Disgrafia, Erickson, Trento, 1995
[44] Cfr. Bagnara S., L’attenzione, Il Mulino, Bologna, 1984
[45] CFR. Brotini M, Le difficoltà di apprendimento, Del Cerro, Tirrenia (Pisa), 2000
[46] Cfr. Orsolini M., Fanari R., Maronacato C., Difficoltà di lettura bambini, Ed.
Carocci, Roma, 2005
[47] Cfr. Di Florio A., Marradi A., Handicap e funzione civile della scuola,
Del Cerro, Pisa, 1992
[48] CFR. Trisciuzzi L., La pedagogia clinica,
Laterza, Roma, 2003, pp. 18 e ss.
[49] CFR. Crispiani P., Giaconi C., Diogene 2008, Junior, Azzano S. Paolo
(BG), 2008
[50] Ianes D., Cramerotti S. (a cura di), Il Piano Educativo Individualizzato.
Progetto di vita, Erickson, Trento, 2007
[51] Crispiani P., Giaconi C., Hermes 2008, Junior, Azzano S. Paolo
(BG), 2007
[52] Sugli aspetti relativi alle didattiche,
pratiche di inclusione nelle disabilità e sugli orientamenti e strategie di
intervento riguardanti le diverse sindromi, deficit e disturbi, CFR. Zappaterra
T., Special needs a scuola, op. cit.
[53] Sulla complessità della pedagogia e sulla non
riducibilità di essa all’ istruzione e alla semplice trasmissione di saperi,
Cfr. Cambi F. Manuale di filosofia
dell’educazione, Laterza, Roma, 2000
[54] Gennari M., Prolegomeni alla Pedagogia Generale, Bompiani, Milano, 2010, p. 63
[55] CFR. Calvani C., I nuovi media nella scuola, Carocci, Roma, 2006; oppure CFR Devoti
A. G., Educazione e Tecnologia, ETS,
Pisa, 2003, oppure CFR.Trojani A., Hmultimedia,
ETS, Pisa, 2007
[56] CFR.
Erickson edizioni, Catalogo
2009/2010, Trento, 2009
[57] Sugli aspetti più tecnici della valutazione,
CFR. De Landsheere G., Introduzione alla
ricerca in educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1996
[58] Per motivi di privacy il nome del bambino è
stato cambiato.
[59] I seguenti dati sono stati ripresi dalla diagnosi redatta dal medico e
dall'equipe degli specialisti ed in seguito rielaborati.
[60] Cfr.
Coste J.C., La psicomotricità,
La Nuova Italia, Firenze, 1981
[61] Cfr. Feldenkrais M., Conoscersi attraverso
il movimento, Celuc Libri, Milano, 2004.
[62] Vayer P., Educazione
psicomotoria nell’età prescolastica, Armando, Roma, 1973
[63] Picq L., Vayer P., Educazione Psicomotoria
e Ritardo Mentale, Armando, Roma, 1977.
[64] Alcuni aspetti organizzativi per la
realizzazione della pratica psicomotoria sono stati ripresi da un importante
testo. Cfr. Cavagnola R., Il centro
socioeducativo, Erickson, Trento, 1994
[65] CFR. Le Boulch J., Educare con il movimento, Armando, Roma, 2003
[66] Bandinelli A.C., Innocenzi M., Magrini A.,
Prato G. (a cura di), L’insegnante di
sostegno, Utet, Torino, 1993
[67] Balboni B., Dispenza A., Educazione Fisica
Scolastica, Il Capitello, Torino, 2002, pp. 34 e ss.
[68] Sugli aspetti relativi all’integrazione e
all’handicap, CFR.Canevaro A., Balzaretti C., Rigon R, Pedagogia Speciale dell’ Integrazione, La Nuova Italia, Firenze,
1999
[69] Cfr. Sbisà A., Alice e Dioniso, Horus, Torino, 1994
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