sabato 8 agosto 2015


Il Pedagogista Clinico a Scuola





I bisogni educativi speciali



La professione del pedagogista, abbiamo più olte ribadito, si svolge in diversi ambiti professionali che spaziano dalla scuola, ai centri di riabilitazione, terapici e diagnostici; dai nidi di infanzia ai centri socieducativi e socioassistenziali, fino ad arrivare alle strutture per l’addestramento professionale, la formazione motoria e sportiva, i centri per il gioco ed il tempo libero, comunità e laboratori protetti, centri di accoglienza, rieducativi e giudiziari, servizi di consulenza, mediazione alla famiglia, alla coppia, su su fino alla consulenza editoriale e televisiva[1].
Un professionista che, trovando ampi spazi di impiego, si prefigura come professionista duttile, con una formazione alle spalle pluridisciplinare, tali da far assumere competenze larghe[2], situate oltre una logica basata sui criteri di efficienza e di specializzazione, per orientarsi invece verso uno specialismo ecologico, dove prevalgono criteri di qualità, progettualità, organizzazione, responsabilità, efficacia, standard, eccellenza,  ecc[3]
Naturalmente, il pedagogista che si trova ad operare in contesti scolastici dovrà maturare competenze operative diverse da quelle del pedagogista che si trova impegnato in una comunità per tossicodipendenti e, naturalmente, adottare stili relazionali ed atteggiamenti non assimilabili fra loro; resta comunque il fatto che, le finalità di fondo del lavoro pedagogico, rimangono sempre le medesime: favorire l’evoluzione del soggetto in tutti i suoi aspetti, aiutare a crescere, a maturare socialmente e culturalmente, aiutare e sostenere il soggetto nelle fasi di transizione o di crisi, per favorirne lo sviluppo attraverso interventi calibrati di carattere educativo e formativo.
Entrando nel merito della scuola, prima di procedere verso la definizione del pedagogista impegnato all’interno della struttura scolastica, occorre dire che, negli ultimi anni  il concetto di handicap è stato sostituito con quello di bisogno educativo speciale dato che, nella scuola, troviamo alunni con situazioni personali estremamente diverse, più o meno problematiche, che però hanno un denominatore comune: la difficoltà nell'apprendimento e nello sviluppo. Sono alunni con vari tipi di disabilità, ma anche con disturbi specifici di apprendimento, autismo, disturbi emozionali e comportamentali, differenze culturali, malattie fisiche, ecc. La classificazione psichiatrica (nei casi in cui è appropriata e ovviamente alcune difficoltà non sono certo psichiatriche!) li differenzia molto,mentre li accomuna invece il bisogno di attenzioni e di interventi appunto "speciali", nel senso che occorre intervenire adottando criteri validi, centrati sui  bisogni  dei soggetti in modo efficace così da aiutarli a superare le loro difficoltà. La scuola sta maturando la concezione che occorra superare le etichette e le discriminazioni che derivano da improprie interpretazioni delle diagnosi, cercando invece di  valutare con una forte competenza psicopedagogica il variegato mondo dei bisogni educativi speciali, senza irrigidirsi nelle certificazioni  né medicalizzare le varie forme di bisogno educativo particolare. La scuola può rispondere ai bisogni educativi speciali attivando quella che Ianes chiama la "speciale normalità" ossia le prassi didattiche ed educative normali, rivolte a tutti, ma nella stesso tempo "speciali", perché arricchite di specificità tecniche non comuni, fondate sui dati più recenti della ricerca scientifica in ambito psicologico, pedagogico, didattico, ecc.

La ricerca in ambito pedagogico e psicologico ha dato frutti importanti negli ultimi anni, come ad esempio le didattiche metacognitive, l'apprendimento cooperativo, il tutoring; tutte modalità normali e nello stesso tempo speciali di far scuola, per rispondere adeguatamente ai bisogni educativi anche degli alunni più in difficoltà. Le metodologie educative didattiche si stanno evolvendo proprio in questa direzione: si passa da applicazioni "molto speciali", cioè solo per l'alunno speciale, tendenzialmente separate dal resto della normalità delle relazioni e delle attività, ad applicazioni "molto normali", rivolte cioè a tutti gli alunni, con o senza disabilità. Per il pedagogista clinico si tratta di una sfida importante che oscilla fra la necessità di costruire didattiche, adottare metodologie e studiare interventi psicopedagogici ad hoch, dall’altra cercare di favorire il miglioramento delle relazioni attraverso la valorizzazione della qualità dell'integrazione scolastica[4]. Il lavoro del pedagogista scolastico riguarda allora la capacità operativa di intervenire affinché si realizzino situazioni più vicine possibili alla nozione di speciale normalità, diffondendo nel maggior numero di docenti normali, contributi professionali importanti sui bisogni educativi speciali (non deve occuparsene solo chi è insegnante di sostegno, magari anche senza titolo!) e parallelamente far crescere sempre di più nuovi utilizzi "normali" degli insegnanti specializzati per il sostegno, realizzando in pratica quella contitolarietà tanto sbandierata nelle leggi[5].
 Assimilare nella quotidianità delle attività per tutti gli alunni quei "principi attivi", tecnici e speciali, che la ricerca psicoeducativa identifica, trasformando e migliorando la qualità inclusiva dell'offerta formativa per tutti gli alunni. In pratica si tratta di operare in maniera da far divenire la normalità  sempre più speciale e ciò che è speciale, invece, condurlo gradualmente verso una situazione di continuo incremento di normalità. La formazione universitaria del pedagogista consente di  maturare  competenze in ambito psicopedagogico e metodologico tali, da consentire di aiutare non solo gli allievi ma anche gli insegnanti affinché possano acquisire quelle basi pedagogiche necessarie affinché il loro lavoro si diriga sempre di più verso una didattica speciale di buon livello anche nell'ambito della pedagogia e didattica speciale, in modo da orientare efficacemente gli sforzi verso una reale  integrazione scolastica. Questo innalzamento generale delle competenze pedagogiche ci può far immaginare scenari futuri interessanti, ad esempio, l’eliminazione dell'insegnante di sostegno nella sua veste tradizionale (ambigua, spesso solitaria, dal profilo operativo incerto), a favore invece di una funzione pedagogico-clinica da parte di tutti i docenti, i quali, potranno specializzarsi in varie competenze speciali di sostegno (con una formazione ricorrente in Università) ed entrare e uscire nella loro carriera da una serie di funzioni di sostegno su ambiti particolari (ad esempio: prevenzione delle difficoltà in lettura, autismo, disabilità gravi, ecc.) per periodi definiti di tempo, arricchendo il loro sviluppo professionale. Se pensiamo alla figura attuale dell’insegnante di sostegno, ci accorgiamo che essa è percepita quasi unicamente come una specie di scorciatoia, o di scotto da pagare per il minor tempo possibile, al fine di approdare ad un posto sicuro di lavoro. Sono troppi gli insegnanti di sostegno che appena possono scappano via da questo ruolo, che invece va valorizzato, facendolo diventare una possibilità ricorrente per tutti, durante l'intera carriera professionale, su competenze varie di "speciale normalità".
Il pedagogista clinico pertanto, nella sua funzione scolastica, insieme ai docenti e all’insegnante di sostegno, può intervenire in modi diversi a seconda delle diverse esigenze; il suo ruolo è quello di contribuire all’individuazione dei bisogni educativi speciali, partendo dall’individuazione dei bisogni formativi. Per bisogno educativo speciale, abbiamo detto, si intende qualsiasi difficoltà
evolutiva di funzionamento, permanente o transitoria, in ambito educativo e/o apprenditivo, dovuta all’interazione dei vari fattori di salute secondo il modello ICF[6] dell’OMS, e che necessita di educazione speciale individualizzata. Sono tutte situazioni in cui i normali bisogni educativi di tutti
gli alunni, come ad esempio il bisogno di sviluppare competenze, il bisogno di appartenenza, di identità, di valorizzazione, di accettazione, ecc., si arricchiscono, diventano più
complessi a causa di un funzionamento educativo-apprenditivo problematico[7].
Varie sono le situazioni che possono determinare condizioni di svantaggio; pensiamo ad esempio alle condizioni fisiche particolari dovute a ospedalizzazioni, malattie acute/croniche (diabete, allergie, ecc.), lesioni, fragilità o anomalie cromosomiche; ma pensiamo anche ai fattori contestuali ed ambientali, come ad esempio lafamiglia problematica, i pregiudizi e le ostilità culturali, le difficoltà socioeconomiche, gli ambienti deprivati/devianti, la scarsità di servizi, la scarsa  preparazione/disponibilità degli insegnanti, imateriali di apprendimento inadeguati e molto altro ancora. Esistono poi i bisogni educativi speciali che ritroviamo nei fattori contestuali personali, come ad esempio i problemi emozionali, i problemi comportamentali, la scarsa autostima, il senso di scarsa autoefficacia, glistili attributivi distorti, la scarsa motivazione, le difficoltà nell’identità e nel progetto di Sé, ecc. E’ possibile inoltre individuare i bisogni educativi speciali che derivano da menomazioni nelle strutture corporee, come ad esempio la mancanza di arti, la mancanza o le anomalie in varie parti anatomiche o altre anomalie strutturali, inoltre, sono identificabili anche i bisogni educativi speciali da deficit nelle funzioni corporee, come ad esempio le difficoltà cognitive, (attenzione, memoria, ecc.), le difficoltà sensoriali e le difficoltà motorie[8].
Possiamo parlare anche dei bisogni educativi speciali dovuti a difficoltà od ostacoli nella partecipazione sociale, come la difficoltà nel rivestire i vari ruoli nei contesti dell’istruzione
(integrazione nelle attività scolastiche), difficoltà nel rivestire i vari ruoli nei
contesti della vita extrascolastica e di comunità, infine, è possibile parlare di bisogni educativi speciali dovuti  a situazioni varie, ad origini diverse, anche transitorie.
Insomma, la filosofia di fondo è che Ognuno di questi soggetti ha diritto ad una normalità più speciale, attraverso l’adozione di una didattica più sensibile, più attenta e metodologicamente più ricca.
Il processo di individuazione e di interventi operativi a carattere clinico o comunque psicopedagogico, passa attraverso alcune fasi formative, che spaziano dall’analisi dei bisogni formativi alla scelta degli obiettivi.
L’analisi dei bisogni si qualifica in primo luogo come un’attività di ricerca finalizzata all’acquisizione di dati e informazioni utili ed attendibili per proseguire o meno nelle tappe successive del processo formativo, ad esempio, nella progettazione dell’esperienza formativa o nell’individuazione degli obiettivi didattici, dei contenuti e dei metodi di insegnamento da adottare, nonché nella realizzazione di tale esperienza attraverso un evento formativo[9].
I problemi che immediatamente si pongono sono tuttavia molteplici. Anzitutto vi è un problema di ordine metodologico attinente gli strumenti e le tecniche da impiegarsi in tale attività di ricerca: strumenti e tecniche che devono essere peculiari e congruenti rispetto allo specifico oggetto di indagine. Di conseguenza vi è un secondo problema concernente una più precisa definizione di tale oggetto di indagine: che cosa dobbiamo intendere infatti rispetto al termine bisogno di formazione? Vi è infine un terzo problema, il cui riconoscimento non è forse altrettanto immediato ed esplicito quanto i precedenti, ma che rappresenta forse il vero problema cruciale dell’analisi dei bisogni, e che va ritrovato nel particolare contesto relazionale entro cui tale attività di ricerca si svolge o che essa comunque definisce. Contesto relazionale che vede impegnati operatori che potranno o meno diventare conduttori dell’esperienza formativa,  affiancando i ricercatori stessi all’interno di situazioni educative differenti in cui sia possibile effettuare esperienze all’interno di gruppi o di organizzazioni anche complesse , in modo da mostrare come da contesti diversificati formati da più persone o professionisti, scaturiscano bisogni  ed urgenze diversificate   [10] .
La crucialità di tale problema risulta soprattutto dal riconoscimento che il processo formativo non avviene per così dire in un vuoto sociale, anzi, tale attività è infatti in larga misura promossa da organizzazioni concrete, come la scuoa, che vedono nella formazione uno strumento per migliorare la loro efficienza e per risolvere taluni problemi connessi con la preparazione professionale delle persone. E questo ci dice che l’analisi dei bisogni, indipendentemente dall’essere un’attività di ricerca effettuata da specialisti per la messa a punto di un’esperienza formativa, è anche ciò che le organizzazioni, implicitamente o esplicitamente, ma certo al di là di ogni problema concettuale o tecnico, fanno o hanno già fatto nel momento stesso in cui pensano di rivolgersi alla formazione, nei termini, ad esempio, della definizione di massimali di costi, impegni finanziari, budget .
Da quanto detto ci pare risulti sufficientemente chiaro come il problema dell’analisi dei bisogni non possa essere affrontato unicamente sul piano della definizione degli obiettivi di ricerca o della costruzione degli strumenti da impiegare. Essa deve essere esplorata parallelamente rispetto al complesso contesto di relazioni organizzative che fa da sfondo all’attività di formazione e che non può non interferire nella possibilità di risolvere efficacemente gli specifici problemi concettuali e metodologici che si pongono in ciascuna fase del processo, ma che anzi diventa esso stesso un problema da affrontare, chiarire e risolvere. Inoltre, anche se il momento dell’analisi dei bisogni viene normalmente collocato all’inizio, in realtà lo si ritrova poi in svariati altri momenti del processo formativo, dato che questo processo è caratterizzato dalla circolarità. Potremmo addirittura constatare che la rilevazione delle esigenze formative in realtà non sia circoscrivibile ad una fase, iniziale o conclusiva che sia, ma investa l’intero processo formativo, dovendo leggere esigenze che in realtà variano in continuazione.
I bisogni di formazione insomma, da un punto di vista della ricerca scientifica offrono non poche difficoltà, soprattutto dal punto di vista dell’adozione di un’interpretazione omogenea perché da una parte si incontrano i desideri di sviluppo personale dichiarati dai soggetti e finalizzati ad un miglior svolgimento dei loro compiti; dall’altra è sempre presente lo scarto tra i contenuti della formazione  di base e ciò che i soggetti desidererebbero (o dovrebbero) apprendere, tenendo conto anche di un’altra importante variabile, ovvero gli strumenti messi a disposizione dall’organizzazione, il personale e le sue risorse[11].
Emerge inoltre il contrasto tra il modello pedagogico utilizzato dalla formazione pregressa e i desideri degli insegnanti o comunque o delle scuole, così come lo scarto tra risorse a disposizione per la formazione (centri, docenti, ecc.) e le risorse necessarie. Abbiamo insomma, da una parte gli utenti con i loro bisogni specifici da soddisfare, dall’altra la scuola con la sua organizzazione, le sue priorità, le difficoltà di gestione e la necessità, spesso inespressa, di apprendimento/cambiamento organizzativo. In sintesi, quando si parla di bisogni formativi, occorre tenere conto contemporaneamente di più piani e di livelli di analisi diversi, anche perchè il bisogno si riferisce prevalentemente ad uno stato di mancanza da colmare, ad una distanza tra ciò che si ha o si è e ciò che si pensa si dovrebbe avere o essere. Ma un conto è accettare tale definizione di principio, un conto è concludere che l’analisi dei bisogni viene ad identificarsi tout court con un’operazione di misurazione di uno scarto da colmare. In realtà il concetto di bisogno formativo non può essere esaustivamente definito e assunto muovendosi all’interno di una logica di tipo riduzionistico, per cui l’individuo è solo esclusivamente il compito che svolge ed ha solo ed esclusivamente conoscenze e capacità associate allo svolgimento di tale compito. Questo ovviamente pur considerando l’individuo concretamente rispetto al suo essere membro di una organizzazione e non in astratto. Quando si parla di bisogno di formazione occorre riferirsi ad un ordine di fatti assai più ampio di quelli che si riassumono abitualmente nel compito da un lato, e nelle conoscenze e capacità dall’altro, tenendo presente che per creare un punto di incontro occorre una forte competenza progettuale[12].. Per molti motivi tale bisogno è da ritenersi infatti espressione specifica, seppure parziale, del più generale stato della relazione tra individuo e organizzazione: e può dunque essere definito tenendo conto sia di più complessi aspetti dell’individuo e dell’organizzazione stessi, sia di quello che possiamo definire il sistema di attese reciproco. Il sistema di bisogni risulta così fortemente vincolato dall’appartenenza organizzativa, ed i bisogni di formazione, se pure costituiscono un elemento molto specifico, non possono ovviamente essere considerati come del tutto estranei a un ordine di fatti più generali. Se è vero che gli individui appartengono all’organizzazione è anche vero che l’organizzazione “appartiene” agli individui proprio in quanto fa parte dell’articolazione del loro mondo sociale. I bisogni di formazione, dunque, essendo parte del sistema di bisogni degli individui, ne vengono in vario modo influenzati. I bisogni di formazione non saranno altro allora che ciò che di volta in volta emerge proprio dall’incontro tra la definizione che ne dà l’organizzazione e quella che danno gli individui.
Esplorare l’analisi dei bisogni come fatto relazionale significa tener conto che la domanda con cui talvolta ci si confronta di volta in volta; occorre sapere insomma se i bisogni di formazione sono un fatto dell’organizzazione oppure dei soggetti. Non è facile dare risposte semplici a quesiti complessi; i bisogni di formazione sono contemporaneamente dell’organizzazione e degli individui nel senso che l’attività di formazione nasce e si sviluppa all’interno di un contesto istituzionale che li comprende entrambi. Una vera dicotomia esiste semmai tra la definizione dei bisogni che viene proposta dall’organizzazione e quella che è possibile ricavare dagli individui[13].
Le modalità empiriche per condurre la delicata fase della rilevazione del bisogno formativo sono numerose e possono andare dalle interviste (destrutturate, parzialmente strutturate, semistrutturate, strutturate, completamente strutturate), alle check list ; dall’osservazione libera o strutturata all’uso di batterie di test mirati. Nessuno fra questi strumenti è di per sé migliore di altri: ciascuno potrebbe risultare il più indicato in certe situazioni particolari, o potrebbe corrispondere di più alle caratteristiche e alle abilità di un certo pedagogista[14]
 E' al pedagogista  che spetta la scelta e l’affinamento degli strumenti, non solo perchè congeniali al clinico, ma anche perchè scientificamente più coerenti con gli scopi che questi si prefigge, anche in relazione ai i soggetti ai quali l’indagine si rivolge, così da poter leggere la realtà in maniera utile e il più possibile libera da pregiudizi.


Il concetto di handicap e di disabilità: nozioni fondamentali nel lavoro pedagogico

Abbiamo visto che i bisogni educativi speciali rappresentano un insieme variegato che comprende dentro di sé moltissime difficoltà  educative e apprenditive, inerenti sia alle difficoltà di crescita che di maturazione sociale e funzionale.  Le  situazioni di svantaggio o comunque di disagio sono raggruppabili in categorie diverse a seconda delle aree di appartenenza, comunque, generalmente facciamo riferimento alla disabilità mentale, fi sica,  sensoriale, oltre naturalmente a
quelle di defi cit  specifici dell apprendimento che sono clinicamente  significative, come la di-
slessia, il disturbo da defi cit att entivo, ad esempio, e altre varie situazioni di
problematicità  psicologica,  comportamentale,  relazionale,  apprenditiva,  di
contesto socio-culturale, ecc[15].
Le problematiche qui citate sono tutte diverse tra di loro, ma nella loro cla-
morosa diversità esiste  però un dato che le accomuna e  le rende 
sostanzialmente simili, ovvero, il  loro innegabile  diritto  a  ricevere  un intervento psicopedagogico 
didattico preciso, calibrato sul soggetto e i suoi bisogni, oltre naturalmente che sul contesto di appartenenza (gruppo classe, ad esempio) in modo da renderlo efficace e funzionale nel tempo.
Esistono tuttavia problematiche legate a patologie estremamente invasive che rende più difficile la scelta del metodo e dell’approccio psicopedagogico da adottare, mettendo in dubbio la capacità di  trovare una risposta adeguata ai  bisogni espressi.
Dobbiamo insomma distinguere bene la nostra proposta di una lettura equa di tutti
i bisogni degli alunni da una modalità di  riconoscimento-comprensione di
una situazione problematica che operi att raverso una diagnosi clinica di tipo
nosografi co ed eziologico, che rileva segni e sintomi e li attri ribuisce a una serie
di cause che li hanno prodotti. Sarebbe ovviamente utile fare bene questo tipo di
diagnosi, ove possibile (si pensi alla dislessia, ai disturbi dello spettro autistico,
ecc.) ma è un tipo di riconoscimento che divide e distingue le diffi coltà degli
alunni in base alla loro causa, come fa la nostra legislazione, la Legge 104 del
1992, e i successivi att i che regolano l’ attrribuzione di risorse aggiuntive alla
scuola per far fronte alle difficoltà degli alunni, danno legitt imità soltanto ai
bisogni  che hanno un  fondamento  chiaro nella minorazione del  corpo del
soggetto, minorazione che deve essere stabile o progressiva.
Altre difficoltà non sono altrett anto riconosciute, legitt imate e tutelate.
Una diagnosi nosografi ca ed eziologica è ovviamente fondamentale per
progettare e realizzare interventi riabilitativi, abilitativi, terapeutici, preventivi,
epidemiologici, ecc., ma non ci aiuta a fondare politiche di equità reale nelle
nostre Scuole, dove è posta in essere una diagnosi che frammenta, che consolida appartenenze e
categorie, che mett e gli uni contro gli altri, in una cronica guerra tra poveri per
la spartizione delle scarse risorse disponibili. Abbiamo invece bisogno di un
riconoscimento più ampio, e per questo più equo, che non distingua tra bisogni
di serie A, quelli evidentemente fondati su qualche minorazione corporea, e
bisogni di serie B, quelli per cui non è chiara, o non c,è, una base corporea.
Sono necessarie politiche eque di riconoscimento dei reali bisogni
degli alunni, al di là delle etichette e diagnostiche. Può darsi infatti  i che un alunno
con una situazione sociale e culturale disastrosa abbia un funzionamento reale
ben più compromesso e bisognoso di interventi (in una Scuola davvero inclu-
siva) rispett o al funzionamento reale di un alunno con sindrome di Down, che
può vantare un certissimo pedigree cromosomico. Il primo alunno però non
avrà, con la legislazione e le prassi att uali, altrett anta tutela e risorse aggiuntive
rispett o a quelle che spett ano al suo compagno con la sindrome di Down. E
questo non è equo.
Questa divisione è la logica conseguenza del dominio culturale (che di-
venta politico) del modello medico più tradizionale, dove contano solamente
le variabili biostrutt urali. Ma se il corpo funziona bene, se non è ammalato, si
può dire che la persona ha buona salute, vive una situazione di benessere?
Secondo l,Organizzazione Mondiale della Sanità, la salute non è assenza
di malatt ia, ma benessere bio-psico-sociale, piena  realizzazione del proprio
potenziale, delle proprie capacità. Questo chiama fortemente in
causa dimensioni sociali, culturali, economiche, razziali, religiose, ecc. che non
sono biostrutt urali. Se accettiamo il dominio del modello medico tradizionale
saremo costretti a cercare sempre un’ eziologia biostrutturale oppure a negare lo
status di reale malattia o disturbo a una problematicità di funzionamento che
non sia evidentemente causata da menomazioni o danni fi sici. E le situazioni
problematiche di cui non si conoscono le cause?
Per una lett ura e riconoscimento dei bisogni reali di un alunno, forse inte-
ressa di più comprendere la situazione attuale di funzionamento, per così dire
“a valle” di una qualche eziologia. Comprendere cioè l’intreccio di elementi
che adesso, qui e ora, costituisce il funzionamento di quell’alunno in quella
serie di contesti[16].
Per un pedagogista clinico è importante  ricordare sempre come sia difficile poter definire in astratto la condizione di normalità di una persona, infatti, possiamo affermare che il concetto di anormalità è sempre basato su regole socialmente accettate. La cultura insomma, gioca un ruolo determinante per quanto concerne la dimensione in cui viene inquadrata la nozione di handicap, per questo occorre che ogni società abbia sviluppato una propria definizione di “normalità” e di “malattia”, al fine di poter pervenire ad una classificazione delle diverse patologie ed arrivare a schematizzare gli handicap che ne possono derivare.
  Leonardo Trisciuzzi[17] afferma a questo proposito che la dislessia, la disgrafia (cioè le difficoltà di apprendimento della lettura e della scrittura) e la disortografia, rappresentano per la nostra cultura problematiche soggettive che influenzano negativamente la condizione di “normalità” di una persona, tuttavia, presso altre culture, queste difficoltà non comportano nessuno svantaggio, non rientrano, cioè, nei parametri di valutazione della normalità di un individuo. Il pianto invece, rappresenta un meccanismo di difesa ampiamente accettato nella nostra cultura, mentre presso altre popolazioni risulta essere osteggiato e rifiutato.
  Se la normalità può essere valutata solo in rapporto con la  capacità di adattamento di una persona alla realtà con la quale si trova di volta in volta ad interagire, non possiamo non essere d’accordo con De Ajuriaguerra[18] quando afferma che “un uomo può essere considerato normale quando, nel mondo, egli vive nel quadro di una assimilazione attiva e non in quello di un accomodamento passivo, o quando egli supera il suo deficit e adatta il suo organismo in vista di una assimilazione o di una utilizzazione ottimale delle sue possibilità senza disorganizzarsi”.
  A livello scientifico l’handicap è considerato in relazione a due variabili: la disabilità individuale, che non è altro che l’effetto della minorazione e l’impedimento ambientale, determinato invece dal rapporto ambiente - minorazione. Le disabilità possono essere suddivise in[19]deficit sensoriali, intesi quelli della vista e dell’udito, dove nel primo caso vengono distinte in lievi, medi e gravi, provocando cecità, ametropie (miopie, ipermetropie, astigmatismo), ambliopie (strabismo, daltonismo, albinismo, fotofobia, nistagmo, glaucoma) nel secondo caso invece, si ha ipoacusia trasmissiva o percettiva (30 decibel), sordastria (30 – 75 decibel), cofosi (da 95 decibel in poi), in grado di provocare sordità e sordomutismo; i deficit cerebrali (cerebropatie), possono essere perinatali o postnatali: nel primo caso si hanno a causa di anossie da parto (parto cesareo, parto distocico), nel secondo, invece, a causa di traumi (encefaliti infettive).
  Inoltre, rientrano nei deficit cerebrali anche le epilessie idiopatiche; i deficit psichici invece, comprendono disturbi specifici dello sviluppo come il linguaggio (dislalie, balbuzie), disprassia dello sviluppo (encopresi, enuresi, tic.), alimentazione (bulimia, anoressia). Rientra inoltre in questo ambito il disturbo intellettivo (insufficienza mentale) che può essere lieve, medio, grave.
  Gli insufficienti mentali sono soggetti che presentano un deficit intellettivo, in quanto il loro sviluppo mentale non è completo ed è quindi insufficiente, manifestando capacità intellettive notevolmente inferiori alla media ed una bassa capacità di adattamento alle richieste della vita quotidiana nel comprendere i concetti, nel capire ed usare il linguaggio, ecc.
  Il disturbo del linguaggio (afasia, sordomutismo) è determinato dalla difficoltà nell’articolazione delle parole, che può derivare da lesioni ai centri deputati a questa funzione, da alterazioni funzionali delle strutture periferiche, da deficit sensoriali (in particolar modo uditivi) e da determinate condizioni ambientali.
  I disturbi scolastici (disgrafie, dislessie, disortografie, discalculie), si riferiscono a difficoltà strumentali di lettura, scrittura e calcolo, che emergono durante il periodo dell’infanzia, dove il soggetto manifesta problemi nell’automatizzare i processi di decodifica del linguaggio scritto in quello verbale, per quanto riguarda la lettura, di linguaggio verbale in quello scritto, per quanto riguarda la scrittura e difficoltà nello svolgere mentalmente le operazioni aritmetiche, per quanto riguarda il calcolo[20].
  I disturbi relazionali (nevrosi, psicosi) riguardano nel primo caso una difesa non adattiva dovuta allo stress ambientale, infatti, lo stress causato da un disadattato rapporto con l’ambiente sociale, è considerato una causa determinante dei disturbi nervosi. L’origine della nevrosi è collegabile con una situazione ansiogena che genera stress e si manifesta con una serie di difese irrazionali che, in ogni caso, riescono sempre a far mantenere una certa stabilità alla struttura emotiva profonda del soggetto.
  Per psicosi, invece, si intende un disturbo della relazione molto grave, caratterizzato da alterazioni e da profonde difficoltà nelle relazioni affettive, sul versante cognitivo e nei rapporti comunicativi. Se nella nevrosi l’individuo riesce a mantenere una certa coscienza della propria condizione patologica, nella psicosi si sente come in balìa di forze esterne e malvagie; il soggetto è incapace di riconoscerle come proprie e di reagire adeguatamente, se non attivando meccanismi di difesa arcaici, volti a mantenere rigidamente inalterata la realtà delle condizioni esistenti[21].
  I deficit motori infine, possono essere di natura cerebrale di tipo spastico o distonico, deficit periferici dovuti a malformazioni muscolari o ortopediche.
  Per quanto riguarda gli impedimenti ambientali invece, occorre prendere in considerazione la realtà sociale (barriere architettoniche, psicologiche, pregiudizi, sovraffollamento, ecc.), il rapporto con gli altri (abbandono minorile e di anziani, rifiuto, iperprotezione ed aggressività), i fattori culturali (emigrazione, sradicamento, sottocultura, idiocultura), i fattori macrosociali  (povertà, isolamento, droga, criminalizzazione, barriere razziali, delinquenza minorile, eversione e post carcerazione)[22].
  Occorre infine ricordare che, nel 1980, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha redatto una classificazione degli handicap, considerando questi ultimi in stretta relazione con le diverse disabilità, arrivando ad identificarne ben sette differenti tipologie: disabilità nel comportamento, nella deambulazione, nella cura di sé, nell’assetto del proprio corpo, nella comunicazione, nelle diverse abilità e in quelle relative al contesto o situazione[23].
  E’ importante rilevare che oggi, con una concezione più moderna dell’handicap, sempre più difficilmente si tende a ridurre questo termine ad un’unica etichetta o definizione, preferendo invece considerarlo come un processo nel quale vengono a confluire diversi fattori interagenti, di natura biologica, sociale ed affettiva.
Il termine “handicap” deriva dalla locuzione inglese del XVII secolo hand in cap che significa letteralmente<<mano nel cappello>>, utilizzato nel linguaggio sportivo in riferimento al sorteggio dei cavalli da corsa, per stabilire le posizioni di partenza ed evitare favoritismi . Nel XVIII secolo, invece, questo termine ha assunto un nuovo significato, attribuito soprattutto in ambito sportivo, al fine di indicare lo svantaggio all’interno delle competizioni, a concorrenti posti in condizioni di inferiorità e di difficoltà rispetto agli altri. La parola handicap sta ad indicare una condizione di ostacolo e in Italia il suo utilizzo è avvenuto solamente negli anni ’70; ancora oggi, infatti, si usa definire soggetti in situazioni di handicap tutte quelle persone che, in un dato momento della loro vita, si trovano in una condizione di svantaggio a causa dell’insorgere di determinati problemi, ad esempio, la timidezza può essere considerata un handicap per un buon inserimento sociale, la voce nasale può costituire un handicap per un oratore professionista.
  L’handicap lo potremmo considerare come una penalizzazione, che non è identificabile con il deficit o la limitazione, bensì con il loro effetto. La penalizzazione che un soggetto in situazione di handicap riceve, non dipende solo dal deficit o dalla limitazione, ma riguarda soprattutto il contesto sociale nel quale la persona in questione si trova ad interagire[24].
  L’Organizzazione Mondiale della Sanità[25] ritiene che sia importante, ai fini di una corretta definizione dell’handicap, considerare la catena sequenziale malattia – menomazione – disabilità – handicap, dove, per malattia viene inteso qualunque processo patologico associato ad un insieme di sintomi ben determinati e riconoscibili; per menomazione viene intesa la perdita o l’anomalia che può essere transitoria o permanente, a carico di strutture, funzioni fisiologiche, anatomiche o psicologiche; la disabilità invece, viene considerata la diretta conseguenza della menomazione, infatti, rappresenta la restrizione o la carenza della capacità di svolgere una attività nel modo o nei limiti ritenuti normali per un individuo sano.
  L’abilità rappresenta l’insieme integrato delle capacità di un individuo nel riuscire a svolgere con successo determinate attività, pertanto, le persone con menomazioni che riescono ad ottenere buoni risultati da un punto di vista operativo, non possono essere considerate inabili. Le menomazioni non necessariamente danno luogo a disabilità e, infatti, l’utilizzo di protesi per non udenti riduce in maniera sensibile le capacità invalidanti delle persone menomate.
  Occorre precisare la differenza che corre tra inabilità e disabilità: nel primo caso si parla di completa incapacità nello svolgere una determinata azione, sia che questa capacità non sia mai stata posseduta, o che invece sia andata completamente perduta; la disabilità, invece, rappresenta la capacità anche minima di compiere in maniera soddisfacente determinate azioni, identificabile come il livello intermedio posto tra i due termini limite “abilità” e “inabilità”. E’ possibile precisare per ogni persona menomata, un certo grado di abilità specifica, dal momento che molti individui ritenuti inabili, in realtà sono solamente meno o diversamente abili. L’errore fondamentale in sintesi è di pensare che possa esistere una stretta correlazione tra compromissione e disabilità, ritenendo che la menomazione comporti necessariamente nei confronti del soggetto, risultati insoddisfacenti in termini di prestazione.
  La malattia, insomma, produce nelle persone danni e menomazioni, le quali possono dar luogo ad una disabilità, ossia, una riduzione delle capacità nello svolgere certe mansioni, al pari di un individuo sano. La disabilità crea il presupposto per l’handicap e si manifesta tutte le volte che si vengono a creare all’interno dell’ambiente, barriere architettoniche, legislative e socioculturali, impedendo od ostacolando il normale inserimento dell’individuo nella società. Insomma, la malattia crea soltanto il presupposto per l’handicap ma è l’ambiente che lo determina, infatti, la situazione di svantaggio deriva dalla struttura sociale, relazionale ed economica della comunità di appartenenza. L’handicap si manifesta ogni qual volta esista la pretesa di voler ottenere prestazioni standard a prescindere dalle capacità o abilità del soggetto in questione, infatti, al variare delle condizioni e delle richieste, possono variare o no le situazioni di svantaggio.
Occorre allora prendere in considerazione le reali attitudini di un individuo e le eventuali difficoltà che manifesta, al fine di agevolare il più possibile la sua integrazione sociale lavorativa o scolastica, evitando in questo modo le situazioni di handicap a cui  sarebbe costretto inevitabilmente ad andare incontro.
  Il termine handicap, spesso è utilizzato con un’altra accezione, indicando con questo un particolare gruppo di patologie che colpiscono le età evolutive, assumendo in questo modo una definizione di portata più ampia e facilmente confondibile con termini come deficit, minorazione, ecc.[26]
  Per handicap allora, comunemente si intende un insieme di sintomi derivati da una malattia organica avvenuta prima, durante o dopo la nascita, le cui conseguenze possono riguardare le funzioni intellettive, motorie o sensoriali, come l’udito e la vista. Per molto tempo l’handicap è stato considerato soltanto dal punto di vista organico, infatti, il disturbo nella struttura e nelle funzioni del sistema nervoso centrale era concepito come la causa dell’handicap stesso.
  La scienza dunque, in passato ha affrontato il problema dell’handicap considerandolo come una realtà statica, trascurando il fatto che, ad esempio, un possibile danno cerebrale, poteva determinare degli effetti da un punto di vista dello sviluppo psicologico, provocando determinate reazioni anche nell’ambiente sociale e familiare; un’ottica di questo tipo non poteva non dare conseguenze negative, infatti, si sono verificati interventi assistenziali e rieducativi del tutto inadeguati, segregando le persone in situazione di handicap all’interno di istituti speciali, costringendole a vivere rinchiuse nella propria malattia ed in profonda solitudine.
  Attualmente comunque, l’handicap è visto in un’ottica più ampia, oltre l’ambito puramente medico, considerandolo come un complesso sconvolgimento della personalità con fattori non solamente di natura biologica, ma anche di origine affettiva ed emotiva; una realtà non statica ma in perpetuo movimento, che può presentare continue modificazioni ed oscillazioni, anche positive e con possibilità di miglioramento.   
  Nonostante il linguaggio corrente tenda ad associare termini come handicappato ed handicap a svariate persone e contesti, è opportuno evidenziare che, l’utilizzo corretto di questo ultimo termine, si ha solamente qualora si faccia riferimento ad una situazione in cui una persona manifesti inabilità o livelli non soddisfacenti di abilità (disabilità), a causa di menomazioni che  compromettono la possibilità di rispondere a specifiche aspettative di efficienza.
  L’handicap è possibile superarlo soltanto quando è considerato per quello che effettivamente è, ossia una condizione soggettiva che può colpire chiunque, nella consapevolezza che ogni individuo è diverso dall’altro e che deve essere rispettato come soggetto paritario per il diritto e per la società[27].   
  Un soggetto a causa di determinate condizioni patologiche, fisiche o psichiche, può incontrare degli “handicap”, cioè situazioni di svantaggio e di ostacolo, nel suo pieno inserimento sociale. Chiunque di noi, in determinati momenti della propria esistenza può, ad un tratto, incontrare degli handicap; lo stato di salute è fondamentale affinché ogni individuo riesca a realizzarsi da un punto di vista personale e sociale, tuttavia, il sopraggiungere di una malattia, può determinare improvvisamente una situazione di svantaggio nei confronti degli altri (da un punto di vista dell’integrazione sociale, dell’inserimento lavorativo, ecc.), necessitando di interventi e di aiuti concreti da parte della comunità di appartenenza, la quale invece, spesso si dimostra sorda alle richieste di queste persone, preferendo ignorarle, isolarle o ghettizzarle.
  Sul piano sociale, questi individui sono etichettati come diversi ponendo fra loro e le persone ritenute “normali” barriere invalicabili di qualunque genere, architettoniche e soprattutto mentali[28].
  Il fatto è che le persone che percepiamo come “diverse”, creano al nostro interno uno stato di disorientamento, di incertezza e di sconcerto; ci sentiamo impreparati ed impotenti di fronte al problema di questi soggetti, al punto da divenire noi stessi i veri handicappati. Il termine diversità non è sinonimo di disuguaglianza, infatti, il soggetto in situazione di handicap non è possibile percepirlo come una persona dissimile a noi; egli può essere un fratello, un figlio, un amico e se anche non esiste nel mondo della medicina il farmaco in grado di ripristinare la “normalità”, molto può essere fatto a livello sociale, mediante il coinvolgimento di queste persone all’interno della realtà effettiva e vitale, dal momento che tutti, persone in situazioni di handicap e non, necessitiamo fondamentalmente di amore.
  L’aiuto più grande che possiamo dare alle persone in situazioni di handicap, è quello di cercare di abbattere le diverse barriere architettoniche, sociali e psicologiche, attraverso aiuti mirati, atti ad impedire la segregazione di questi ultimi dalla società ed il loro confinamento all’interno di lager disumani, chiusi ed appartati, privi di stimoli salutari e rigeneratori[29].
  La condizione della persona svantaggiata poi, troppo spesso risulta essere quella del non desiderato, diventando il capro espiatorio dell’aggressività del gruppo di appartenenza, percepito socialmente in maniera così svalutata da renderlo vittima dell’emarginazione sociale.
  E’ la società, insomma, che determina e definisce le situazioni di handicap; non occorre molto per rendersi conto di questa realtà, basta dare uno sguardo alla condizione scolastica degli studenti svantaggiati ed agli ostacoli di rendimento e di bocciature a cui molti di essi inevitabilmente vanno incontro, inoltre, anche il mondo del lavoro contribuisce in maniera rilevante ad alimentare questa realtà di emarginazione, infatti, molti soggetti in situazione di handicap non vengono assunti, confermando agli occhi dei familiari e della società la loro totale inadeguatezza e diversità rispetto agli altri ritenuti “normali”.
  Occorre insomma che la società si impegni affinché le menomazioni delle persone non si trasformino in handicap, attraverso interventi mirati, volti ad abbattere le barriere esistenti e ad evitare che nuove barriere di tipo architettonico, legislativo, socioeconomico e culturali vengano erette. Gli interventi possono essere di tipo assistenziale, necessari al fine di garantire una certa protezione e sicurezza alle persone svantaggiate, tuttavia, limitandosi a provvedimenti di questo tipo, esiste il rischio di escluderle da numerose funzioni e in particolare da quelle produttive, che giuocano un ruolo fondamentale nella nostra società e nel modo di concepire noi stessi e la nostra posizione sociale[30].
  Il dramma dell’handicap sta nel fatto che la persona non è considerata come portatrice di una menomazione, bensì come una persona menomata complessivamente; insomma, l’inferiorità nell’esercizio di una determinata attività si estende al soggetto nella sua globalità, arrivando a percepirlo come inferiore e quindi da emarginare.
  Il problema dell’handicap, in ogni caso, non si limita all’inserimento delle persone disabili all’interno della società; occorre invece prendere coscienza del fatto che è fondamentale riuscire a stimolare i soggetti svantaggiati ad incrementare i loro livelli di partecipazione attiva alla vita comunitaria, al pari di tutti gli altri cittadini.
  E’ importante in conclusione, rendere evidente che disabilità, menomazione ed handicap possono relazionarsi tra loro; ad esempio, l’handicap può essere la diretta conseguenza di una menomazione, senza per questo dare necessariamente origine a condizioni di disabilità, basti pensare a tutte quelle persone che presentano problemi estetici dovuti ad incidenti od ustioni, le cui abilità non sono certo compromesse, ma sono pur sempre soggette a situazioni di svantaggio rispetto agli altri.
  La menomazione invece, non è detto che debba necessariamente portare a sensibili compromissioni di attività o capacità che sono comuni a tutti gli individui. La menomazione in pratica, non comporta necessariamente la disabilità. L’handicap può influenzare il comportamento del soggetto, andando a determinare ulteriori menomazioni e disabilità, le quali a loro volta, possono ritardare lo sviluppo di altre capacità, innescando meccanismi di rifiuto da parte del contesto sociale di appartenenza, con conseguenze deleterie per il già precario senso di sicurezza e di autostima della persona in questione.
  Carlo Fratini[31] a questo proposito, ritiene che l’handicap rappresenti un fenomeno molto complesso, in grado di provocare una doppia minorazione: una a livello fisico e/o mentale, l’altra a livello sociale, portando ad una immagine distorta e svalutata del proprio corpo e del proprio sé. Tutto questo comporta come conseguenza gravi problemi alla persona in questione, specialmente per quanto concerne la sicurezza in se stessa e la propria autostima, al punto da poter affermare che questo tipo di difficoltà rappresenti una delle barriere più difficili da superare.
  Il problema di una formazione adeguata del proprio sé e della propria identità, è scaturito dal fatto che la persona in situazione di handicap percepisce se stessa solamente all’interno dell’ambito del deficit, una realtà fatta di muri invalicabili, di ferite interiori, di desideri rinnegati e rimossi, aggravati anche dall'ignoranza da parte degli altri, dalle derisioni e dalle offese, che si traducono ogni giorno in una illimitata fonte di piccole e grandi sofferenze. La disabilità infine, non è detto che comporti l’handicap, infatti, molto dipende dal grado di accettazione personale e dal livello di integrazione da parte della comunità di appartenenza.
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Le funzioni del Pedagogista Clinico a Scuola

L'introduzione del Pedagogista nella scuola, nonostante l'importanza della sua presenza all'interno della classe, risente ancora oggi di alcune  difficoltà relative al proprio ruolo, soffrendo talvolta le ambiguità e le contraddizioni dovute alla sua incerta definizione (il segreto professionale del medico e la possibilità di stendere una diagnosi funzionale) e delle sue applicazioni, oltre ad una poco riconosciuta qualità professionale.
Il pedagogista che lavora all’interno della classe deve comunque attenersi ad alcuni principi guida:
1) l'impegno a collaborare con i colleghi del Consiglio di classe e con il Gruppo di lavoro nell'impostazione e nella realizzazione del progetto educativo-didattico riferito all'alunno disabile; 2) la competenza correlata alla specializzazione didattica, a predisporre i relativi percorsi e strumenti; 3) la corresponsabilità dell'attività educativa e didattica complessiva del modulo o della classe; 4) compiti di collaborazione con le famiglie e le strutture sanitarie[32].
Solo negli ultimi anni, come è stato detto nei precedenti capitoli, si è ritenuto necessario valorizzare la formazione del Pedagogista riproponendo la dicitura “Pedagogia” nei diversi corsi di laurea magistrale, al posto delle troppo generiche “Scienze dell’Educazione”, cercando di fornire a questa figura professionale strumenti concettuali ed operativi meno dispersivi e più idonei al proprio ruolo lavorativo. Un traguardo importante questo, che consente al Pedagogista di godere di una formazione professionale al pari di tutti gli altri professionisti, vedendo riconosciuto, anche da parte di alcune istituzioni pubbliche, il proprio ruolo all'interno della scuola.
Oggi al Pedagogista sono richieste competenze ben definite, tra cui:
. progettare e programmare gli interventi educativi
. costruire moduli didattico-educativi integrati
. costruire una documentazione
. promuovere incontri per favorire la collegialità
. realizzare strategie specifiche per l'apprendimento

Le conoscenze che un Pedagogista deve possedere riguardano:
. capacità di assumere conoscenza dell'alunno e della classe
. la conoscenza dello sviluppo, dei processi di apprendimento, delle dinamiche relazionali
. conoscenza delle difficoltà di apprendimento nelle varie situazioni di minorazione (in particolare nella relazione, comunicazione, autonomia)
. sussidi protesici, risorse tecnologiche
. processi interattivi tra scuola ed extrascuola
. modalità operative interdisciplinari con particolare riguardo al settore terapeutico-riabilitativo e sociale

Le abilità, invece, possono essere così sintetizzate:

. saper condurre un'osservazione sistematica
. saper raccogliere dati e analizzarli (finalizzati al progetto educativo e alla verifica)
. saper costruire un curriculum didattico specifico in rapporto alle potenzialità dell'alunno
. saper individuare le esperienze educative e didattiche
. saper usare metodiche e tecniche specifiche adeguate alla minorazione
. saper costruire modelli di integrazione tenuto conto delle risorse disponibili.

Infine gli atteggiamenti:

. capacità di interagire all'interno della situazione scolastica;
. capacità di interagire nella situazione extrascolastica[33]

L'attività prevede il sapersi orientare nella descrizione, nella valutazione e nel trattamento di un alunno disabile, con particolare attenzione all'individuazione e valorizzazione delle abilità del bambino ed alle caratteristiche del contesto di integrazione.
 L'obiettivo generale è quello di acquisire modalità di osservazione relative a singole tipologie di disabilità ed al contesto di integrazione.
Gli obiettivi specifici, invece, riguardano il saper osservare e descrivere un bambino disabile, oltre naturalmente al contesto di integrazione.
Dopo una prima fase di osservazione e raccolta di dati, è necessario iniziare il percorso di progettazione, con interventi adeguati rivolti al bambino disabile ed al contesto di integrazione.  
Il lavoro del pedagogista si può articolare in diverse fasi operative, che di seguito riportiamo.
Accoglienza: questa fase prevede la formazione del nuovo gruppo costituito dal tirocinante e gli insegnanti; la creazione di un clima di conoscenza, scambio e condivisione, oltre che alla presentazione dell'articolazione di tirocinio.
Orientamento: in questa fase abbiamo discusso circa  l’inquadramento storico-normativo, i modelli di integrazione in Italia e in Europa, approfondendo i significati di menomazione, disabilità, handicap, al fine di accordarsi  sulla terminologia in uso a livello internazionale.
Progettazione: in questa fase abbiamo ricercato sia gli strumenti per l'osservazione, sia quelli necessari alla raccolta dei dati, all’intervento didattico ed alla descrizione del bambino nel contesto della classe. Sono stati definiti l’ambito di lavoro, gli strumenti da utilizzare, gli obiettivi a medio e lungo termine e le modalità di verifica finale.
Verifica: con i docenti abbiamo discusso dei risultati raggiunti, confrontando i dati iniziali con quelli finali (dopo l’attuazione del progetto); sono state tracciate le linee di forza ed i punti deboli dell’ esperienza di tirocinio, mettendo in evidenza i traguardi raggiunti e non, rimettendo in discussione l’impianto teorico del progetto, gli strumenti e le fasi attuate.
Per svolgere in maniera adeguata il proprio lavoro, il pedagogista inoltre deve conoscere il bambino ricostruendone:
-          la storia personale
-          l’evoluzione dei processi di sviluppo
-          il livello scolastico raggiunto
-          gli aspetti emotivo affettivi e socio relazionali[34]

 Conoscere il contesto familiare in relazione a:
-          il livello socio-economico-culturale
-          le caratteristiche del nucleo familiare
-          le dinamiche affettivo-relazionali
-          le modalità educative attuate
-          la percezione del problema
-          la disponibilità al cambiamento.

 Acquisire informazioni relative al contesto scolastico per quanto riguarda:
-          la conoscenza-comprensione delle problematiche del bambino
-          la situazione della classe e le dinamiche di gruppo
-          la percezione del bambino in questione
-          i rapporti genitori-insegnanti[35]
Per svolgere adeguatamente le proprie funzioni, il pedagogista deve saper adottare stili relazionali adeguati, superando la tendenze maggiormente in uso in ambito scolastico, che sembra essere quella di identificare i bambini disabili con la loro patologia. Di questi soggetti, riferendosi in particolar modo ai bambini con disturbi di tipo cognitivo, si tende a considerare soltanto la dimensione intellettiva come separata rispetto alle altre che definiscono l'assetto globale della persona, concependo l'intelligenza come una realtà monolitica e non scomponibile nei suoi tratti costitutivi.
La disabilità cognitiva, nonostante rappresenti l'asse intorno al quale si determina il modo di essere del bambino, si caratterizza non soltanto per la particolare dimensione intellettiva, ma perché risultano alterati anche gli aspetti senso-percettivi, affettivo relazionali istintuali e legati alla soddisfazione dei bisogni primari. Il soggetto con un disturbo cognitivo manifesta una particolare struttura della personalità; ora, per molto tempo questo tipo di patologia in età evolutiva è stata considerata come un problema legato alle quantità di competenze acquisite e, quindi, come il risultato del rallentamento rispetto al loro normale ritmo di acquisizione.
Quasi tutti gli studi più recenti, in realtà, concordano nell'identificare la natura del disturbo cognitivo non più come un semplice ritardo nell'acquisire specifiche abilità, bensì come il risultato di interrelazioni anomale dei diversi aspetti che strutturano l'intelligenza.
Con un bambino che presenta un disturbo di tipo cognitivo, occorre allora affrontare una progettazione didattica che tenga conto, non tanto della distanza che esiste tra la sua età anagrafica e quella cognitiva, bensì al modo in cui reagisce la sua intelligenza di fronte ad una situazione problematica.
Quali sono i modi e le dinamiche, anche di natura emotiva, che si mettono in gioco quando al soggetto sono richieste prestazioni di natura intellettiva? L'esperienza che si ripete nell'insuccesso, nel fallire sistematicamente le diverse prove scolastiche a cui il bambino viene sottoposto, non può che determinare lentamente, un atteggiamento di rifiuto verso l'attività didattica   [36].
Per un Pedagogista è importante, allora, cercare di essere un educatore incoraggiante, che sappia far forza su ciò che il bambino sa fare realmente, in modo da stimolarlo in maniera costruttiva e motivante.
Motivare un bambino significa aiutarlo a prendere coscienza di ciò che realmente sa fare e da lì progredire, gradualmente, in sintonia con i ritmi ed i tempi della classe.
L'approccio iniziale con il bambino disabile è fondamentale per quanto riguarda il suo successo scolastico futuro e la qualità della relazione con l'insegnante e la classe stessa.
Fin dall'inizio, il bambini disabile deve avere la percezione che il Pedagogista non è lì per lui ma per la classe intera e che il suo compito sia quello di favorire il più possibile la realizzazione di un clima scolastico sereno, equilibrato, dove tutti possano cooperare per il raggiungimento di obiettivi comuni.
In relazione a questo è fondamentale allora che il soggetto abbia un programma didattico da seguire che sia, da una parte in sintonia con i suoi ritmi di apprendimento, dall'altra, il più possibile vicino al tipo di lavoro svolto dagli altri bambini. L'allievo disabile, in poche parole, deve maturare la percezione che il suo programma da svolgere segue, anche se con contenuti modificati, quello della classe, così da sentirsi realmente parte della classe e non un elemento estraneo che non ha niente da condividere con gli altri bambini.
L'atteggiamento che un Pedagogista deve  mantenere è quello maturato sulla consapevolezza che non si ha a che fare con un disabile ma principalmente con un bambino e, come tutti bambini, con i suoi interessi, le sue esperienze ed il suo bagaglio di conoscenze. Questo concetto è fondamentale per il Pedagogista Clinico, il cui compito è quello di identificare le abilità residue del soggetto per poterle far emergere e nutrire, pur essendo consapevole dei limiti imposti dalla patologia.

Il  progetto pedagogico

Nonostante le condizioni di disabilità, è importante sottolineare le specifiche differenze soggettive (caratteristiche di ogni individuo) e l'inadeguato adattamento al contesto o allo specifico ambito di azione; una  buona didattica  si preoccupa di impostare un insegnamento favorendo un'affidabile integrazione del soggetto nei diversi contesti. Gradualmente il Pedagogista deve favorire l'inserimento del soggetto disabile all'interno dei diversi contesti, facendo leva sulla conoscenza dei bisogni, delle differenze individuali, sulla creazione di un clima relazionale e culturale vivo e sull'attivazione delle risorse.
Attualmente si parla molto di didattica inclusiva, cercando di rendere l'insegnamento sempre meno “speciale” per ridurre le differenze e allo stesso tempo rendere normale all'interno della classe le differenze che connotano ciascun allievo.
L'ICF[37], la classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute, non considera l'individuo a partire dalle malattie o menomazioni, ma evidenzia piuttosto le situazioni di vita quotidiana (sociali, familiari, lavorative) che possono causare disabilità.
La disabilità è quindi il risultato o la conseguenza di una complessa interazione tra le condizioni ambientali, lo stato di salute del bambino ed i fattori personali. Un ambiente con barriere architettoniche e senza facilitatori, limita le possibilità di azione di un soggetto.
Uno degli obiettivi del progetto pedagogico è  proprio quello di maturare la consapevolezza che lo scopo del Pedagogista è quello di attuare una didattica che consenta al bambino disabile, non tanto di ottenere un'esistenza che sia il più possibile vicino alla normalità, quanto piuttosto a garantire, attraverso l'integrazione sociale, di poter essere come tutti a partire dal poter essere con tutti.
La speciale normalità di cui parla Ianes[38] non fa riferimento ai soli alunni disabili ma a tutti i bambini; i bisogni educativi speciali sono infatti presenti anche in allievi normali, con deficit di autostima, mancanza di motivazione, disturbi dell'apprendimento, ecc., come del resto è necessario prendere consapevolezza della specialità e singolarità degli alunni che chiedono differenziazioni ed individualizzazioni a partire dalle differenze soggettive nell'elaborazione delle informazioni e nella pluralità delle intelligenze e degli stili di pensiero.
L'obiettivo primario dell'integrazione rappresenta il compito naturale dell'insegnamento dove il problema principale è quello di far acquisire alle scuole le caratteristiche di un ambiente realmente inclusivo nei confronti di tutte le diversità, in modo da farlo diventare il vero volano per trasferire l'integrazione in tutti i contesti sociali[39].
Naturalmente per raggiungere traguardi così importanti e ideare un progetto pedagogico ad hoc, occorre che il Pedagogista sappia adottare didattiche precise, oltre a definire obiettivi specifici relativi alle principali abilità di base che possiamo così sintetizzare:

Abilità motorie[40]

Schema corporeo
-          riconoscere e denominare segmenti corporei
-          riconoscere la destra e la sinistra
-          assumere posizioni su imitazione
-          assumere posizioni seguendo indicazioni verbali
-          verbalizzare posizioni
-          rappresentare correttamente la figura umana
-          aver acquisito la dominanza laterale

Coordinazione dinamica generale
-          possedere un adeguato equilibrio statico e dinamico
-          variare correttamente i propri movimenti in relazione alle caratteristiche dell’ambiente
-          eseguire i movimenti in sequenza
-          eseguire percorsi motori

Abilità percettive

Percezione visiva
-          riconoscere e denominare colori, forme e dimensioni
-          abbinare immagini uguali
-          individuare somiglianze e differenze
-          riconoscere forme diversamente orientate nello spazio

Percezione uditiva
-          riconoscere suoni e rumori
-          discriminare suoni e rumori simili

Abilità percettivo-motorie[41]

Coordinazione oculo-manuale
-          eseguire percorsi grafici
-          ripassare linee curve e spezzate
-          rispettare, con il gesto grafico, le direzioni alto-basso, sinistra-destra
-          riprodurre correttamente figure geometriche e segni alfabetici

Integrazione spazio-temporale
-          riprodurre ritmi
-          leggere e rappresentare ritmi
-          riordinare in sequenza

Orientamento spaziale e temporale
-          individuare e denominare relazioni spaziali nell’ambiente e nelle immagini
-          eseguire consegne con indicazioni di tipo spaziale
-          disegnare rispettando le relazioni spaziali fra gli elementi
-          riprodurre segni rispettando le relazioni temporali
-          riprodurre una serie di elementi mantenendo la sequenza spaziale data
-          individuare relazioni temporali nelle esperienze temporali
-          orientarsi nel tempo usando simboli convenzionali
-          ordinare immagini in sequenze logico-temporale


Abilità linguistiche

Comprensione
-          comprendere messaggi verbali sempre più complessi
-          comprendere storie narrate dall’adulto
-          comprendere narrazioni di semplici esperienze

Funzionalità e produzione
-          pronunciare correttamente i vari fonemi
-          pronunciare correttamente parole
-          formulare correttamente frasi
-          riferire esperienze personali e collettive
-          possedere un patrimonio lessicale adeguato
-          usare correttamente e comprendere semplici nessi logico-linguistici
-          usare il linguaggio verbale per stabilire relazioni logiche fra oggetti e avvenimenti

Abilità cognitive di base[42]

Attenzione e autonomia operativa
-          portare a termine brevi consegne
-          mantenere l’attenzione durante esperienze collettive
-          portare a termine un’attività
-          ascoltare con attenzione brevi spiegazioni
-          ascoltare con attenzione la narrazione o la lettura di una storia


Memoria uditivo-verbale

-          memorizzare stimoli visivi
-          memorizzare stimoli uditivi
-          memorizzare e riferire esperienze
-          memorizzare e rievocare storie

Logica e simbolizzazione

-          classificare in base a uno o più attributi
-          definire insiemi
-          completare insiemi
-          stabilire relazioni fra insiemi
-          seriare oggetti, immagini e simboli
-          rappresentare simbolicamente un’esperienza
-          riconoscere simboli visivi e uditivi convenzionali

Attività scolastiche
-          Lettura: riconoscimento dei singoli grafemi, analisi e sintesi di sillabe, parole e frasi, comprensione della lettura
-          Scrittura: padronanza del gesto grafico, acquisire consapevolezza ortografica, comprendere,  discriminare, associare grafemi e fonemi.
-          Calcolo: lettura e scrittura dei simboli numerici, esecuzione delle operazioni di calcolo, comprensione e risoluzione di situazioni problematiche
-          Saperi disciplinari: comprensione della materia, capacità di analisi e di sintesi del testo, abilità nell’effettuare collegamenti fra discipline diverse, schematizzare e saper ripetere con parole proprie un brano studiato.

Lo scopo del lavoro progettuale, unitamente alla fase di osservazione e di valutazione delle abilità di base, dovrà servire al  pedagogista clinico che dovrà agire sulle prestazioni compromesse con attività specifiche, mirate al recupero delle abilità residue e al potenziamento di quelle già possedute.
Il Pedagogista, comunque, non è il tutore del bambino disabile né una sua protesi esclusiva; il suo compito non è quello di “sostenere” l'allievo ma quello di fornire un valido aiuto a tutta la classe, cercando di creare, mantenere o ripristinare all'interno del gruppo-classe gli equilibri, eliminando allo stesso tempo tutti gli elementi destabilizzanti, che possono creare ostacoli o blocchi di natura emotiva e cognitiva.
Il Pedagogista lavora quindi sul sistema, sulla relazione educativa, fungendo da ponte tra il bambino disabile e la classe, cercando di creare dei compromessi fra le parti.
Il pedagogista però non è la figura che si “prende in carico” il bambino in maniera esclusiva; è una figura che opera all'interno di un gruppo multidisciplinare, è l'elemento di raccordo tra i vari saperi  e le competenze di natura medica, pedagogica, psicologica e didattica.
Il Pedagogista Clinico è chiamato ad interpretare i bisogni formativi  di chi deve maturarsi culturalmente e socialmente; gli interventi educativi promossi sono diversi e vengono considerati un'attività di recupero e di riabilitazione di alterazioni e disturbi dell'apprendimento.
La specificità della professionalità del Pedagogista è la didattica e questi deve essere in grado, attraverso la lettura della diagnosi redatta dal medico specialista o dallo psicologo clinico ed i colloqui con le diverse figure sanitarie (logopedisti, psicomotricisti della riabilitazione, educatori sanitari), di redigere un piano educativo e didattico ben definito che sappia far fronte ai bisogni formativi del bambino disabile.[43]
L'inserimento del bambino disabile non deve ridursi ad un semplice inserimento nelle classi della scuola comune; occorre infatti che alla certificazione medica si accompagni una diagnosi funzionale in senso educativo-scolastico, nella quale si pongano in evidenza le principali aree di efficienza e di inefficienza presenti nella fase di sviluppo osservata, al fine di progettare gli interventi educativi e didattici più idonei a corrispondere ai bisogni e alle potenzialità individuali.
A meno che il bambino non si presenti a scuola già con una certificazione, la prima fase consiste nell' individuazione del problema, da parte del Consiglio di classe che lo segnala al Capo di Istituto, il quale, a sua volta, lo segnala al medico della ASL.
Il primo documento che viene rilasciato dalle strutture sanitarie pubbliche è la certificazione che definisce clinicamente la tipologia della disabilità; al suo interno troviamo la diagnosi funzionale, caratterizzata da una serie di livelli di capacità del bambino disabile, permettendo di giungere ad una conoscenza più approfondita delle potenzialità residue. Il Pedagogista può così programmare un intervento didattico adeguandolo alle possibilità dell'allievo.
Il terzo documento è il profilo dinamico funzionale(PDF). Si tratta di un documento che riprende la conoscenza dell'alunno dal punto di vista sanitario-riabilitativo e lo trasferisce sul piano didattico. Nella stesura del PDF viene coinvolta, oltre alle componenti scolastiche, anche la famiglia.
Il quarto documento è il piano educativo individualizzato (PEI). Si tratta di uno strumento che l'insegnante utilizza nella programmazione del lavoro quotidiano ed in cui si ipotizzano gli obiettivi, gli interventi, le verifiche e le valutazioni in relazione ai bisogni dell'alunno. Il PEI rende operativi i dati del profilo dinamico funzionale, utilizzando, per quanto possibile, quelli forniti dalla diagnosi funzionale[44].
Nello specifico, è importante sottolineare che:
la diagnosi funzionale  è un documento che consta di una anamnesi fisiologica e patologica prossima e remota del soggetto, dove sono indicate le varie fasi dello sviluppo neuro-psicologico da zero a sedici anni; la diagnosi clinica redatta dal medico specialista nella patologia segnalata, infine, sono indicate le aree entro le quali registrare le diverse competenze, tra cui quella cognitiva, quella affettivo-relazionale, linguistica, sensoriale, motorio-prassica, neuropsicologica e della autonomia. Il profilo dinamico funzionale, redatto dai docenti curricolari, dagli insegnanti specializzati della scuola, in collaborazione con i familiari dell'alunno, comprende diversi assi, fra cui la descrizione funzionale dell'alunno in relazione alle difficoltà che egli dimostra di incontrare in settori diversi  e l'analisi dello sviluppo potenziale dell'alunno a breve e a medio termine, desunto dall'esame dei parametri che abbiamo elencato precedentemente.
Il Piano educativo individualizzato ha una durata annuale e  va steso entro il secondo mese dell'anno scolastico, dopo il relativo periodo di osservazione. La stesura del PEI spetta al gruppo di lavoro della scuola, agli operatori sociali, al personale curricolare e di sostegno della scuola. Sono inoltre chiamati ad intervenire i genitori ed eventualmente il Pedagogista. Il documento redatto è soggetto a periodiche revisioni da parte dello stesso gruppo operativo. Il PEI è in sintesi un documento in cui sono descritti gli interventi integrati ed equilibrati tra di loro, predisposti per l'alunno disabile, in un determinato periodo di tempo. E' dunque un progetto globale di integrazione nel quale vanno a confluire progetti di carattere didattico, riabilitativo e sociale. Occorre sottolineare che se compete alla scuola la parte educativa e didattica  del progetto connessa più specificamente con l'aspetto dell'apprendimento, non può essere ignorata la necessità di una stretta correlazione con i progetti riabilitativi e sociali. Occorre infine ricordare che non esiste un modello standard per redigere il PEI anche se pubblicazioni specialistiche hanno messo in circolazione alcuni moduli che si differenziano pochissimo tra loro. In via del tutto indicativa, possiamo dire che, generalmente, le voci maggiormente ricorrenti nel documento del PEI sono: dati conoscitivi sull'alunno (diagnosi, tipologia della disabilità e competenze disciplinari, comportamenti, autonomia ed abilità relazionali); dati conoscitivi sulla famiglia (composizione, situazione ambientale, rapporto fra i componenti, atteggiamenti educativi, ecc.); dati conoscitivi sull'organizzazione scolastica (tempo scuola, presenza o assenza di sussidi didattici, percorso di apprendimento scolastico effettuabile, strategie di intervento, forme di collaborazione fra insegnante specializzato ed altre figure impegnate nell'integrazione, modalità e periodicità di verifica e di valutazione, modalità di coinvolgimento della famiglia); interventi esterni (interventi riabilitativi, psicologici, fisioterapici)[45].   
 Il lavoro del pedagogista clinico all’interno della scuola consiste allora, prevalentemente, nella stesura di un progetto centrato sul soggetto, che consenta di adottare approcci psicopedagogici idonei all’individuo in questione e alle competenze (abilità) che si intendono incrementare o sviluppare. Come più volte specificato, quando si lavora con bambini certificati occorre tenere presente la patologia di cui sono affetti, individuando, anche in relazione ad essa, un intervento psicopedagogico ben strutturato[46].
Naturalmente, non sempre il pedagogista clinico si trova a lavorare con bambini certificati ma semplicemente in contesti particolari dove sono presenti soggetti che manifestano disagi o difficoltà di apprendimento, quindi, sarebbe assurdo pensare che sia sufficiente avere a disposizione un ricettario di interventi che obbedisce alla logica: “se il bambino ha questo disturbo o si comporta così allora si risponde in questo modo e si adotta questo strumento”; altrimenti, saremmo costretti ad ammettere che il pedagogista svolga una mera funzione tecnica e che la pedagogia stessa sia una semplice disciplina applicativa, uno metodo per istruire e basta, situazione che, come abbiamo cercato di spiegare precedentemente, non sta affatto in questi termini[47].  La pedagogia è infatti una scienza libera che studia la formazione e l’educaziuone dell’uomo, rimanendo sempre del tutto estranea a nozioni di ammaestramento o di condizionamento, caratteristici delle pratiche trasmissive e coercitive[48].
Gli strumenti esistenti sul mercato da utilizzare per intervenire in maniera efficace nel recupero delle potenzialità e delle abilità sommerse, per favorire il processo di integrazione o per diminuire le condizioni di svantaggio, sono diversi e spaziano dai materiali didattici veri e propri (matematica, lettura e scrittura, materiali per la dislessia, discalculia, ecc., ma anche materiali per facilitare l’apprendimento delle singole discipline come storia, geografia, scienze e lingue straniere ), alle abilità cognitive (memoria, motivazione, abilità di studio, ecc.), dai laboratori e conduzione di gruppi (teatro, arte, musica, autoconoscenza, esercizio dei cinque sensi), alle metodologie educative vere e proprie (orientamento e piano educativo individualizzato).
Sono in commercio inoltre testi per le tecnologie e la media education,[49]  per l’educazione emotiva e socioaffettiva (relazioni, sessualità, autostima, emozioni), strumenti specifici per ADHD/DDAI e per il linguaggio, comprese le difficoltà di letto-scrittura. Esistono, ancora, strumenti adottabili dal pedagogista clinico riguardanti l’autismo e le disabilità (motricità, integrazione sociale, autonomia e ausili, ecc.) e quelli pertinenti alle relazioni di cura[50]
Molti dei matreriali qui citati sono costituiti da parti fotocopiabili per agevolare il pedagogista clinico nel suo lavoro individuale o in gruppo, soprattutto per quanto riguarda il recupero delle difficoltà scolastiche, come disgrazie, disortografie e discalculie. E’ importante comunque ribadire, un’ultima volta, che le competenze dell’operatore non si basano su un uso acritico dei materiali, non si fonda cioè, sull’uso indiscriminato dei testi ma sulla capacità di individuare ciò che è più utile adottare, momento per momento, in quella situazione con quel soggetto specifico, avendo sempre ben chiaro cosa si intenda misuare, quale comportamento si voglia stimolare e come si intenda valutare la prestazione manifestata[51].   

Un esempio di intervento del Pedagogista Clinico: la storia di Giulio

Giulio[52] è un bambino di sette anni, frequenta la seconda ed è inserito all'interno di una classe di undici bambini, di cui due certificati.
E' stato certificato dal neuropsichiatra della ASL  perché fin dalla nascita presenta, dagli esami clinici svolti, una riduzione del corpo calloso, la struttura che separa ed allo stesso tempo mette in connessione i due emisferi cerebrali.
Questo problema comporta un danno generalizzato nelle seguenti aree:
. cognitiva: insufficienza mentale media
. affettivo relazionale: basso livello di autostima, scarsa motivazione al rapporto con gli altri
. linguistica: livello di comprensione, produzione e di utilizzo dei linguaggi alternativi o integrati, basso
. sensoriale: bassa funzionalità visiva ed uditiva (ma non necessita di protesi)
. motorio-prassica: motricità globale impacciata, scarsa motricità fine, prassie semplici e complesse estremamente compromesse
. neuropsicologico: capacità mnestiche, attentive e di organizzazione spazio-temporali molto ridotte
. autonomia: personale e sociale piuttosto bassa
. asse dell'apprendimento: gioco e grafismo, lettura e scrittura, uso spontaneo delle competenze acquisite, tutte leggermente carenti[53].
Giulio fin dalla prima classe, ha avuto la necessità di essere seguito da un insegnante specializzato che rimane in classe insieme a lui per tre ore al giorno. Nelle ore rimanenti non è prevista la presenza di nessuna altra figura (educatori, operatori sociali, ecc.)
Giulio frequenta la Scuola Primaria a Fucecchio; la sua permanenza all'interno della struttura si prolunga anche durante le ore del pomeriggio, dal momento che, come tutti i bambini fa il tempo pieno.
I genitori del bambino sono molto collaborativi ed accettano di aderire al progetto di tirocinio da noi proposto, per aiutare il bambino a superare alcune difficoltà di carattere relazionale e prassiche.
Il bambino nonostante le difficoltà legate alla sua patologia è estremamente tranquillo, sereno e riesce a legare con tutti i componenti della classe, anche se in maniera molto superficiale. Le sue difficoltà sensoriali, motorie ed intellettive non gli consentono, infatti, di vivere a pieno ed in maniera gratificante le relazioni con gli altri bambini, essendo limitate le funzioni motorie e del linguaggio.


Il lavoro dell’Insegnante e del Pedagogista

Il mio tirocinio all'interno della classe si è svolto a fianco dell'insegnante curricolare; parlando con lei è emerso che ha effettuato il corso di specializzazione polivalente, agevolando di molto, quindi, il lavoro da svolgere con Giulio, sia nella fase di progettazione che di attuazione.
Il bambino non segue un percorso didattico individualizzato, essendo capace di seguire le lezioni della classe nella quale è inserito, sia nelle attività logico-matematiche che in quelle di lettura e scrittura. I sussidi didattici utilizzati sono prevalentemente giochi che possono aiutare a perfezionare l'attività prassica, data la grande difficoltà del bambino a compiere i movimenti fini-motori e a memorizzare le diverse sequenze operative. Sono stati utilizzati giochi con materiali ad incastro, le costruzioni con i cubi, infilare lacci in una serie di fori, copiare figure geometriche, comporre figure con piccoli puzzle, disegnare.
Anche per quanto riguarda la scrittura, spesso sono stati utilizzati materiali ad incastro, dove occorreva inserire le giuste lettere della parola all'interno di un riquadro con la relativa immagine stampata.
Ogni attività di questo tipo che veniva proposta, offriva la possibilità di osservare l'attività prassica ed ideativa da tre diversi punti di vista e cioè:

a) l'imitazione:  il bambino eseguiva l'attività di incastro partendo da quella più semplice con la possibilità di imitare ogni singolo movimento del docente, attraverso l'uso delle diverse tessere.

b) la copia: dopo aver appreso i movimenti necessari alla costruzione del modello, il bambino doveva dimostrare di saper ricostruire l'oggetto, avendo davanti a sé il prodotto finito.

c) la riproduzione: il bambino veniva messo nella condizione di tenere a mente le caratteristiche e ricostruire il modello a memoria. In pratica prima l'insegnante costruisce il modello e poi l'abbatte, proprio davanti all'allievo, sia per mostrare come è stato costruito, sia per sollecitarne la ricostruzione.

Le difficoltà emergevano soprattutto nel momento in cui occorreva trasferire le competenze acquisite da un settore ad un altro; ad esempio, quando al bambino veniva chiesto di riprodurre graficamente le lettere, anziché comporle con le tessere ad incastro. 
La scrittura infatti, risulta essere un'attività molto difficoltosa, sia per l'impaccio motorio, sia per l'impossibilità del bambino di poter mantenere l'immagine mentale della lettera ed in seguito di riprodurla. Non solo. Per il bambino spesso non era possibile neppure abbinare il suono della lettera alla sua produzione grafica, tolto che per alcune vocali.
Le attività logico-matematiche sono risultate anche esse di difficile attuazione; al bambino mancava completamente il concetto di numero e non riusciva per questo ad associare il simbolo grafico alla relativa quantità.
L'unico modo per lavorare sulle quantità è stato con l'utilizzo di un sussidio didattico specifico, costituito da una valigetta con all'interno molti orsetti colorati in modo vario e di diversa grandezza. Grazie a questo gioco, tra l'altro molto interessante per il bambino, è stato possibile lavorare su:

i raggruppamenti: per colore e forma
la seriazione: per dimensione ed altezza (dal più alto al più basso, dal più scuro al più chiaro, ecc.)
le quantità: per prendere coscienza che le quantità di un insieme non dipendono dalla dimensione dei singoli elementi ma dal loro numero complessivo.

Abbiamo lavorato partendo da un'esperienza concreta della quantità per poi arrivare al numero, passando attraverso i concetti di appartenenza, disuguaglianza, classificazione, consapevoli del fatto che il numero, dal quale spesso si usa partire, è un'astrazione che all'inizio confonde le idee anziché chiarirle. Il punto di partenza, visto il fallimento delle precedenti didattiche, è stato il concetto di quantità, che fosse visibile, manipolabile e misurabile, anche attraverso l'uso del linguaggio. La quantità, in poche parole, precede il numero, dato che il numero non è una quantità ma è un segno che corrisponde ad una quantità.
Anche attraverso l'uso dei regoli colorati, il bambino ha avuto modo di acquisire nuove competenze procedendo in modo costruttivo e significativo, grazie ad una adeguata base manipolatoria e rappresentativa. Pensare e rappresentarsi mentalmente la quantità significa costruirsi i modelli base per una successiva classificazione gerarchica del concetto di numero. I materiali come i regoli e gli orsetti, sono serviti al bambino per costruirsi, anche se in maniera approssimata, adeguati modelli dei concetti matematici implicati nelle varie procedure operative. Il bambino non è comunque riuscito in maniera completa, almeno durante il mio periodo di tirocinio, a distaccarsi dalla manipolazione dei materiali per arrivare ad utilizzare soltanto le relative rappresentazioni mentali nell'esecuzione e nella interpretazione dei compiti a lui assegnati. 
Per quanto riguarda il linguaggio, invece, il programma didattico si è svolto utilizzando specifici materiali come figure, letture, espressioni linguistiche, ecc., cercando di dare al bambino una certa consapevolezza delle qualità convenzionali e sociali del mezzo verbale.
Anagrammi, giochi da tavolo come lo scarabeo ed i giochi verbali di gruppo, sono serviti per rinforzare la motivazione ed i contenuti della comunicazione stessa. Il primo passo da fare riguardava il rinforzo della fiducia che si costruisce nel rapporto con l'ambiente.  La fiducia nella realtà è il fondamento di ogni rapporto oggettuale ed interpersonale; la sua carenza rende insicuri e porta alla chiusura sociale. Sia per le insegnanti che per i genitori è stato difficile cercare di promuovere e stimolare il bambino all'autonomia, date le sue compromissioni non solo intellettive, ma soprattutto motorie e sensoriali, che non lo mettevano in grado di relazionarsi in maniera sicura con l'ambiente circostante. Da qui è nata l'idea di un progetto educativo che avesse come base l'Educazione Psicomotoria, ossia quella pratica che parte dal presupposto che l'atto motorio sia regolato dallo psichismo, nel momento in cui esce dalla sfera degli istinti e diventa azione volontaria ed intenzionale. Lo stretto legame tra la psiche e l'atto motorio fa sì che l'educazione psicomotoria divenga una tecnica per facilitare la partecipazione motoria ed emotiva del bambino, al fine di creare un atto motorio nuovo. E' in sintesi un'attività pedagogica e psicologica che utilizza le tecniche dell'educazione fisica al fine di migliorare il comportamento del soggetto. In pratica non è il movimento in sé ad avere valore, ma tutta l'attività motoria, purché sia volontaria, intenzionale e controllata. Al centro di questa pratica c'è la motivazione del soggetto e non il risultato ottenuto dall'esercizio fisico svolto; da qui nasce la profonda differenza e la polemica con gli esercizi tradizionali dell'educazione fisica classica.


Il progetto di Pedagogia Motoria

L’attività formativa da me proposta per il tirocinio , prevede la possibilità di realizzare un progetto che ha come protagonista l’attività motoria, concepita in maniera diversa da quella classica, dando maggior rilievo ad aspetti più fantasiosi e di gioco, così da coinvolgere realmente il bambino disabile.
Il progetto prevede una sintesi fra l’educazione psicomotoria classica ed il Metodo di Moshe Feldenkrais[54], lavorando sia sull’immagine di sé, sull’equilibrio, la postura, la coordinazione globale e la respirazione, sia sull’imitazione dei movimenti degli animali e le loro caratteristiche comportamentali.
Il lavoro del progetto consisteva nel modificare alcune parti dell’educazione motoria classica, togliendo quelle troppo meccaniche e complesse, sostituendole con alcuni esercizi posturali, molto più rilassanti e semplici.

La nascita del Progetto

L’idea del progetto nasce dalle difficoltà motorie del bambino che lo limitano sotto molti punti di vista; in pratica abbiamo pensato che, realizzando attività di gioco e di psicomotricità fosse possibile risvegliare l’interesse per l’attività fisica, aiutandolo a coinvolgersi maggiormente con il gruppo della classe.
La difficoltà motoria, infatti, è accentuata dalla mancanza di volontà e di entusiasmo da parte del bambino per qualunque forma di attività fisica. Le disabilità sensoriali, l’equilibrio precario e la difficoltà di coordinare i movimenti hanno indotto il bambino a ritirarsi da molte attività di gioco con i compagni e ad aver scarsa fiducia nelle proprie capacità. Il bambino ha paura a muoversi, a scendere le scale e a correre. Ecco perché abbiamo preferito dare priorità ad un’attività psico-corporea anziché a progetti di altra natura. 


Quando

L’attività è stata svolta settimanalmente per un’ora e mezza ad incontro, facendola coincidere con l’attività prevista dal progetto di educazione psicomotoria. In questo modo il bambino può lavorare all’interno della propria classe e si creano le premesse affinché l’alunno possa misurarsi con gli altri e confrontarsi con le proprie capacità.



I modelli di riferimento

Nei testi di educazione psicomotoria, soprattutto quelli di Vayer, Lapierre e Picq[55], è possibile reperire numerosi suggerimenti di giochi e di attività idonee a svolgere una didattica psicomotoria. La scelta delle attività dipende dai prerequisiti dei bambini, ossia dalle caratteristiche tipologiche del danno, dalla gravità dello stesso e dalle capacità residue che possono venir impiegate negli esercizi; infine, dalla capacità dell'insegnante e dell'ambiente a creare l'atmosfera motivante. Nella pratica psicomotoria si aiuta il bambino ad abbinare andature a ritmi diversi, ad interrompere un movimento per iniziarne un altro, seguendo indicazioni visive o segnali acustici: un lavoro sul corpo che mira a una migliore conoscenza di sé, prendendo coscienza sia dei movimenti che questo compie, sia di ogni singola parte che lo compone. Questo è in sintesi l'educazione psicomotoria: non una forma di terapia o di riabilitazione, quindi, eppure molto più di una ginnastica dolce. Si tratta di una tecnica che si rivolge all'uomo nella sua globalità, dallo scheletro ai muscoli, dal sistema nervoso alla psiche. Parte dal presupposto che gli esseri umani hanno un potenziale innato, che si esprime con la capacità di apprendimento, e si propone di fornire gli strumenti di auto-miglioramento per aumentare la qualità della vita. Vuole cioè rendere più armonico ed efficiente il modo in cui si compiono le attività, sia nel tempo libero sia in ambito professionale. È un metodo che permette di rendere ciascuno più consapevole delle proprie azioni e liberarlo dagli schemi abituali che causano stress e altre patologie.

Due sono gli approcci: la Consapevolezza attraverso il movimento (Cam) e l'Integrazione funzionale (If). Nel primo, che si svolge in gruppo, il pedagogista guida gli allievi a eseguire esercizi facili e confortevoli che insegnano a prestare attenzione a come ci si muove. Si lavora sui movimenti base dell'agire umano: il flettersi, l'estendersi, il ruotare, il camminare ecc. Gli allievi imparano a usare le parti del corpo in armonia, in modo che ognuna si metta in relazione con le altre a seconda della funzione motoria che si vuole eseguire. L'integrazione funzionale, invece, si svolge in sedute individuali e prevede che l'esperto interagisca con l'allievo attraverso una comunicazione non verbale. L'insegnante, toccandolo delicatamente, indica a quest'ultimo come muoversi secondo schemi motori più ampi, facendo sciogliere le tensioni e sperimentando nuove sensazioni. Anche se diversi, i due approcci hanno lo stesso scopo: prendere coscienza del proprio corpo nello spazio e intrecciare relazioni meno conflittuali con questo.


Gli incontri

Ogni incontro consiste nell'eseguire seduti, sdraiati o in piedi esercizi mai impegnativi, talvolta persino divertenti, riguardanti una funzione corporea precisa ("imparare" correttamente a camminare, a stare seduti, a passare da una posizione all'altra o a strisciare...) e nel prestare attenzione alle parti dello scheletro a questa collegate. L'educazione psicomotoria aiuta tutti coloro che desiderano conoscere meglio il proprio potenziale psico-corporeo. Offre benefici anche nel campo della rieducazione e aiuta le persone che soffrono di dolori vertebrali, muscolari e i cardiopatici (educando la respirazione).

I principi fondamentali della pratica psicomotoria sono[56]:
ldistribuire in modo efficiente il carico della gravità sullo scheletro, per dare al tessuto osseo la sollecitazione più funzionale
lmigliorare la propria postura
lacquisire un'armonia nel cammino
lmigliorare l'equilibrio per prevenire le cadute

Finalità del progetto

-         Valorizzare le abilità del bambino disabile aiutandolo ad avere maggior fiducia in se stesso.
-         Presa in carico dell'alunno disabile come parte integrante dell'istituzione scolastica.
-         Utilizzo delle competenze professionali come risorse.
-         Creare un raccordo sistemico tra docenti, operatori, famiglie e alunni.
-          Rafforzare il potenziale emotivo e cognitivo dell'alunno.

OBIETTIVI SPECIFICI

-         Sviluppare la consapevolezza del proprio corpo come unità globale
-         Eseguire spinte e trazioni in maniera rilassata
-         Sviluppare la capacità di ascoltare e riconoscere la propria respirazione
-         Sviluppare la capacità di concentrazione e di ascolto
-         Percepire i movimenti ritmici del corpo
-         Sviluppare la capacità di coordinazione e concentrazione
-         Esercitare la capacità di eseguire in modo coordinato una serie di istruzioni
-         Accettare e affrontare la resistenza fisica e mentale per rafforzare il proprio senso di identità

SPAZI
 L'educazione psicomotoria, come ogni attività, necessita di uno spazio che consenta di esercitarla in un modo che sia il più possibile proficuo ed ottimale. A questo scopo viene utilizzata una sala di oltre 50 metri quadrati, considerando necessario un certo isolamento da e verso l’esterno. L’attività verrà effettuata nel laboratorio appositamente strutturato.

Aspetti metodologici

            La presenza dell’insegnante specializzato, una reale collaborazione dei docenti curricolari e non, il coinvolgimento delle famiglie e del personale ausiliario, ha creato opportunità diverse di lavoro e risposte concrete agli effettivi bisogni degli alunni.
            Questo progetto ha promosso ed accolto, quindi, iniziative di cooperazione;gli alunni coinvolti in questa attività sono stati stimolati all'uso appropriato di alcuni canali di comunicazione alternativa e allo scambio finale delle esperienze vissute. E’ stato importante lavorare molto sugli scambi tra bambini, dove ciascuno con le proprie potenzialità e competenze, è servito da veicolo per colmare e per consolidare le esperienze del gruppo[57].
            In particolare è stata posta attenzione a:
-         il metodo della ricerca e scoperta guidata;
-         attività proposte in forma ludica;
-         uso dei vari linguaggi;
-         compiti graduati per difficoltà;
-         variare il tipo di lavoro quando viene meno l'attenzione;
-         esercizi semplici e fantasiosi tipici dell'educazione psicomotoria;
-         flessibilità e dinamismo;
-         lavori di gruppo.

 

 La Tecnica

Il Pedagogista è parte di una interazione che lo mette in discussione e lo porta a  modificare alcuni atteggiamenti.
L’ottica dell'educazione psicomotoria è, prima di tutto, un coinvolgimento del docente nell’azione educativa, più ancora a livello emotivo e motorio che verbale.
Il Pedagogista deve essere sempre l’animatore “all’interno” e mai un semplice ripetitore - proponente in situazioni di “gioco - motorio” e di dinamiche in gruppo. Il Pedagogista deve prestare anche la massima attenzione alla comunicazione verbale, ampliandola, motivandola, rendendola sempre più precisa e complessa.L’intervento di Pedagogia motoria ha quindi operato sempre sulla globalità della persona a livello:

a)      riabilitativo – funzionale
b)      cognitivo
c)      relazionale – comunicativo
d)      ludico – espressivo
Gli esercizi proposti sono pensati per bambini ed alunni normodotati e diversamente abili. Passaggi evolutivi, previsti metodologicamente, assumono più spontaneità se il sussidio viene sfruttato creativamente.

Le aree di intervento come ipotesi di lavoro sono state  le seguent[58]i:
A)     Schema corporeo
B)      Lateralizzazione
C)     Coordinamento
D)     Orientamento spazio – temporale
E)      Equilibrio
F)      Tono
G)     Ritmo

 



Strumenti

Gli strumenti specifici usati per la realizzazione del progetto, riguardano prevalentemente l’uso di materiali semplici come cerchi, bastoni, travi e sfere di varia dimensione e peso.

 

 

Verifica e valutazione

           La verifica e la valutazione sono attuate secondo i seguenti parametri :
a)       Alunno                            
-         socializzazione
-         interazione comunicativa
-         apprendimento
- reali abilità motorie acquisite
- fiducia in se stesso e coinvolgimento

b)       Docenti
-         pianificazione del lavoro
-         confronto all'interno del gruppo docente[59]



Parametri di Valutazione adottati

.  non può, non ce la fa a correre, ha problemi motori
. si blocca per difficoltà emotive
. ha difficoltà a riprodurre ritmi diversi
. riconosce e riproduce ritmi diversi, ma non riesce a collegare e ad integrare, anche a ritmi  semplici, andature adeguate
. abbina andature diverse a ritmi musicali diversi solo dietro indicazioni precise da parte dell'insegnante
. inventa andature e ritmi, elaborando creativamente possibilità di abbinamenti
. sa riprodurre graficamente quanto fatto a livello motorio, riuscendo sia a dare nel disegno il senso del movimento, sia a segnare con un codice convenzionale il ritmo segnato.

Tempi per la valutazione

-         In itinere e alla fine del progetto;
-         Incontri settimanali dei gruppi docenti interessati

Sintesi Finale

Questo lavoro è stato utile soprattutto per prendere coscienza delle difficoltà che un Pedagogista incontra, attraverso il confronto diretto con gli insegnanti  ed il gruppo classe con cui lavorare, ciascuno nel proprio ruolo. Affrontando le problematiche di ognuno e confrontando  i diversi punti di vista, è stato possibile trarre conclusioni operative ed arrivare così a soluzioni da sperimentare sul campo.
Non solo. Grazie al tirocinio è stato possibile analizzare le normative relative all’integrazione e chiarire in sede collegiale il ruolo del Pedagogista nella scuola, così da dissipare ambiguità ed incertezze o sovrapposizioni di ruolo. Dal punto di vista prettamente tecnico, invece, particolarmente utile è stato acquisire dimestichezza con strumenti per l'osservazione e la valutazione delle abilità, così da orientare meglio le energie e limitare interventi improvvisati e privi di qualunque fondamento scientifico.
Condividere con gli insegnanti le proprie esperienze formative è servito anche per migliorare e rimettere in discussioni le conoscenze acquisite e date per scontate e per imparare a guardare le situazioni da punti di vista diversi. In sintesi, grazie al percorso di tirocinio è stato possibile migliorare la capacità di individuare il fabbisogno di risorse per l'individualizzazione e l'abilità nel progettare interventi didattici personalizzati nell'ottica della speciale normalità, riconoscendo i bisogni primari del bambino così da trovare i punti di contatto tra l'attività della classe e quella del soggetto disabile.
Il tirocinio è stato il banco di prova con cui confrontarsi, al fine di verificare le competenze ed abilità maturate durante il percorso formativo universitario, inoltre, è stato possibile affinare gli strumenti a disposizione e le capacità di osservazione, metodologiche, didattiche e relazionali[60].    
A questo proposito, il lavoro svolto con Giulio è stato proficuo sotto diversi aspetti, soprattutto per quanto riguarda l'attività didattica all'interno della classe. Il bambino ha gradito molto la presenza di una figura maschile, rendendosi più disponibile allo svolgimento delle diverse attività scolastiche. Giulio a questo proposito, ha manifestato un maggiore interesse verso le attività logico-matematiche e letterarie, compilando le schede, appositamente selezionate per lui, cercando di coinvolgere anche gli altri bambini.
Una nota interessante da prendere in considerazione è stata che negli ultimi mesi, era Giulio stesso che ricercava l'attenzione degli altri bambini, per mostrare loro come fosse bravo nei giochi di incastro e di manipolazione. Anche la classe rispondeva positivamente alle richieste di Davide, dimostrandosi disponibile a collaborare con lui e ad accettare le diverse proposte.
E' per merito della collaborazione degli insegnanti, dei materiali educativi nuovi e della volontà degli altri bambini di “stare con Giulio”, che l'alunno ha potuto sperimentare la gratificazione che si riceve nel fare e fare bene il proprio lavoro. Sono diminuiti gli atteggiamenti legati alla distrazione ed al disinteresse, semplicemente facendo leva sulla motivazione e sulla gratificazione. Grazie all'atteggiamento incoraggiante degli insegnanti, con il pretesto della mia presenza in classe, il bambino ha potuto vivere la novità in maniera costruttiva, innescando nuovi comportamenti ed un atteggiamento sicuramente più positivo verso la scuola.
I problemi maggiori sono rimasti quelli riguardanti la sfera motoria, dell'orientamento e della coordinazione dei movimenti in generale, che sono stati superati grazie alla motivazione e alla collaborazione di tutti coloro che hanno partecipato attivamente al progetto. Talvolta però, nonostante il forte impegno da parte dei docenti nel programmare  questo importante percorso per la classe, non c'è stato modo di realizzarlo in maniera completa. Gli impegni dei bambini con il teatro, con le lezioni di musica, con i progetti di educazione ambientale, hanno tolto alcune volte il tempo necessario all'attuazione del progetto, creando difficoltà e momenti di disorganizzazione che, tuttavia, non hanno impedito ai bambini di impegnarsi realmente e di esprimersi in maniera costruttiva durante le ore di laboratorio.


Conclusioni

E’ stato soltanto un viaggio, un viaggio importante, per certi versi autobiografico e per altri è stato occasione di incontri, di nuovi apprendimenti e di esperienze professionali proficue. Questa tesi mi ha aiutato a coniugare l’idea che avevo e mi ero costruito sulla figura del pedagogista, maturata  attraverso le precedenti esperienze universitarie, con i nuovi saperi frutto dell’attività di ricerca svolta dalla facoltà di Scienze della Formazione di Firenze. Oltre ad alimentare le mie conoscenze, questa esperienza universitaria è servita ad ampliare il concetto relativo alla figura pedagogista che avevo maturato con il lavoro, consentendomi di innervarlo e di nutrirlo con nuovi apprendimenti, così da rivalutarne il volto operativo che altrimenti rischiava di svalutarsi e di sbiadirsi, annegando nelle solite routines lavorative quotidiane.    
E’ stato grazie al lavoro a contatto con i bambini e all’esperienza di tirocinio, che mi ha visto impegnato accanto a soggetti svantaggiati culturalmente e in situazione di handicap, che ho potuto constatare con mano come spesso le persone non possiedano la forza sufficiente per credere in se stesse e tendano a  delegare tutto ad altri, alla società o agli adulti, finendo per credere di più in ciò che gli altri dicono che in quello che riescono a sperimentare da soli. Tutto questo è frutto da una parte delle difficoltà soggettive in cui molte persone riversano e alle quali il pedagogista clinico deve offrire il proprio aiuto e contributo, dall’altra dalla mancanza di capacità (anche nostra) di incrementare l’autonomia e la libera espressione dei soggetti, favorendo invece l’omologazione e la ripetizione continua dell’uguale, senza mai operare al fine di mettere a nudo le reali potenzialità dei bambini, le uniche in grado di attivare il processo creativo che nasce e si sviluppa dal talento, dalle doti soggettive e dalla volontà di affermazione. Il significato della pedagogia clinica forse risiede proprio nel fatto che, per riuscire a capire gli altri prima dobbiamo fare chiarezza in noi stessi e per raggiungere questa meta occorre conquistare l’autoconoscenza. La pedagogia come scienza della formazione, aiuta a riflettere sulla propria educazione in maniera profonda e sistematica, innescando un cammino autobiografico che culmina con la conoscenza di se stessi e dei propri limiti. La pedagogia diviene allora un mezzo di autoindagine, la via che consente di autoesplorarsi e comprendersi in maniera profonda. Non importa se nell’intervento pedagogico si attivi un percorso di scrittura, di pittura o di calcolo, se si stia relazionando con un soggetto o si stia intervenendo per ridurre una situazione di svantaggio; la tecnica adottata non è essenziale perché le uniche cose che realmente contano (e questo l’ho appreso nel percorso universitario) sono la sincerità nei confronti di se stessi e la volontà di migliorarsi.    
La pedagogia, a conclusione di questo lavoro, è paragonabile ad un viaggio che altro non è se non un percorso formativo, un itinerario spesso accidentato, irto di rischi e pericoli. Un cammino difficile che conduce alla consapevolezza di sé e, allo stesso tempo, ad una radicale trasformazione della propria identità, percorrendo sentieri avventurosi e suggestivi, alla continua ricerca delle proprie radici più profonde. Un percorso avventuroso che conduce alla conoscenza, alla costruzione di se stessi e della realtà circostante, superando prove e difficoltà che aiutano a crescere e maturare, grazie sempre e comunque alla relazione con l’altro, sia esso adulto o bambino, disabile o anziano.  
La pedagogia è quindi, per un certo verso, un viaggio intellettuale e di  immaginazione, dove non mancano riferimenti mitologici e figure che appartengono al mondo della letteratura, della fiaba e dell’arte, sia essa pittura o musica, danza o teatro, ecc. Questo viaggio, per certi aspetti mentale, è un’esperienza che conduce alla libertà ma per arrivare a sperimentarla, occorre camminare, affermare la propria identità e superare tutte le difficoltà del caso. Spesso il sentiero percorso si dirama, si aprono nuove possibilità, nuovi percorsi e il cammino diviene un vagabondare e un errare, un pellegrinaggio che conduce verso terre inesplorate e sconosciute. Questo vagare, anche senza una meta certa, rappresenta  un’occasione irrinunciabile per il pedagogista che vuole arrivare a costruirsi una propria identità ed esperire quella pienezza dell’essere che è permessa soltanto attraverso un’attenta ricerca delle proprie leggi e della propria natura[61]
La pedagogia è una scienza che stimola la capacità di gioire della vita, restituendo spazio alla mente e rinnovando i sensi; il mondo interiore viene appagato e risponde espandendosi con forza in tutte le situazioni della vita. La fantasia, la creatività e il gioco alimentano questo processo di auto - miglioramento  e di perfezionamento interiore. Lo scopo del viaggio è anche quello di incrementare l’energia creativa del praticante superando i limiti del proprio corpo, attraverso l’esercizio e l’impegno costante.
Il viaggio formativo intrapreso mi ha permesso di incrementare le mie capacità riflessive ed operative, superando i condizionamenti e i limiti che mi ero imposto da solo, anche se inconsapevolmente. Il fine credo di averlo raggiunto, attivando un processo di realizzazione creativa, che mi ha permesso di trasformare e di evolvere me stesso in maniera completa, superando la soglia che separa la potenza dall’atto, attraverso una sintesi dinamica di autoconoscenza e autorealizzazione[62].
Lo studio delle Scienze dell’Educazione prima, delle Scienze della Formazione dopo e adesso della Pedagogia clinica, mi ha collocato in un percorso incerto e disorientante  che se da una parte mi ha concesso di saggiare l’ampiezza e la profondità del processo del formativo, dall’altra mi ha mostrato come una simile grandezza possa costituire il limite stesso del viaggio. Grandezza perché ho avuto modo di costruirmi, da solo, il mio percorso formativo; limite perché, trovandomi davanti a tanti universi che gravitano intorno alla formazione, il rischio del disorientamento eiste ed è un po’  come se in realtà mi fossi trovato  innanzi al nulla, dove tutto poteva portare ovunque e in nessun posto. Dopo vari tentativi, salite e discese, soste e interruzioni, questo ultimo percorso formativo universitario mi ha consentito di saldare le conoscenze tecniche con quelle relative alla filosofia, alla pedagogia, alla psicologia e all’ antropologia, sperimentando nuove possibilità e ambiti di intervento fino ad allora sconosciuti. Ho iniziato così a proiettare le mie conoscenze con i ragazzi in situazione di handicap, rimettendo costantemente in discussione il mio modo di intendere, costruire e concepire la realtà delle cose e della pedagogia stessa.
La formazione se vissuta introspettivamente rappresenta cammino, privato, con una meta il più delle volte ideale, che costringe a vagabondare, a sperimentare e a fallire, a ricominciare e ad apprendere dai propri errori. Un percorso con una partenza incerta ed un arrivo mai definitivo…  




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[5]    CFR. Ianes D., La Speciale normalità, Erickson, Trento, 2009
[6]    ICF, Classificazione internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, trad. it. Erickson, Trento, 2002
[7]    Sugli aspetti relativi all’apprendimento, CFR. Cornoldi C., Difficoltà e disturbi dell’apprendimento, Il Mulino, Bologna, 2007
[8]    Per approfondimenti circa le disabilità, CFR. Soresi S.,. Psicologia delle disabilità, Il Mulino, Bologna, 2007, oppure, CFR. Zanobini M., Usai M.C., Psicologia dell’handicap e della riabilitazione, Franco Angeli, Milano, 2009
[9]    CFR. Ianes D., Celi F., Nuova guida al Piano educativo individualizzato, Erickson, Trento, 1995
[10]  Per approfondimenti circa i gruppi, le organizzazioni e le influenze sociali nei processi decisionali, CFR. Giannetti E., Raffagnino R., Taddei S., Strumenti psicologici per gli operatori della salute, Le Lettere, Firenze, 2008
[11]  Per gli approcci organizzativi e metodologici CFR. Franceschini L., Apprendere, insegnare, dirigere nella scuola riformata, ETS, Pisa, 2003
[12]  Per approfondimenti circa il sapere tecnico della progettazione, CFR. Cambi F., Catarsi E., Colicchi E., Fratini C., Muzi M., Le Professionalità Educative, Carocci, Roma, 2003
[13]  Sulle pratiche di conoscenza nei servizi CFR. Palmieri C., Prada G., La Diagnosi Educativa, Franco Angeli, Milano, 2005
[14]  Per approfondimenti circa gli strumenti operativi, Cfr. Del Corno F., Lang M., Elementi di psicologia clinica, Franco Angeli, Milano 2005
[15]  Cfr. Zappaterra T., Special needs a scuola, op. cit.; oppure CFR. Martini A., Manuale di clinica dell’apprendimento, ETS, Pisa, 2007
[16]  CFR.,Ianes D., La speciale normalità, Erikson, Trento, 2009
[17]  L. Trisciuzzi, Manuale di didattica per l’handicap, Editori Laterza, Roma – Bari, 2000, pp.35,36.
[18]  J. De Ajuriaguerra, Manuale di psichiatria del bambino, Milano, Masson, 1981.
[19]  L. Trisciuzzi, Manuale di didattica per l’handicap, cit., pp.36,37.
[20]  A. Carlino Bandinelli, M. innocenzi, A. Magrini, G. Prato, L’insegnante di sostegno, Utet, Torino, 1997, pp.125,126.
[21]  L. Trisciuzzi, C. Fratini, M. A. Galanti, Manuale di pedagogia speciale, Laterza, Roma – Bari, 1996, pp.127,128.
[22]  A. Carlino Bandinelli, M. Innocenzi, A. Magrini, G. Prato, L’insegnante di sostegno, Utet, Milano, 1993,  p. 14.
[23]  Cfr. F. Iesu, Handicap e Integrazione, Tecnodid, Napoli, 1991, p. 13.
[24]  Canevaro A., Perché non si dovrebbe dire “portatore di handicap”, in ANFFAS, Atti del Convegno su “Handicap psichico: ricerca, formazione, servizi negli anni ‘90”, Trento, 1990.
[25]  Giordani M. G., Disabili, tecnologie e mercato del lavoro, Etaslibri, Milano, 1995 pp. 20,21.
[26]  Iesu F., Handicap e Integrazione, Tecnodid, Napoli, 1991, pp.13 e ss.
[27]  Bandinelli A. C., Innocenzi M., Magrini A., Prato G. (a cura di), l’insegnante di sostegno, Utet, Torino, 1997, pp. 12,13 e 56,57.
[28]    Zanobini, M. C. Usai, Psicologia dell’handicap e della riabilitazione, Franco Angeli, Milano,2002, pp.16,17.
[29]    Cambi F., Orefice P., Ragazzini D. (a cura di), I saperi dell’educazione, La Nuova Italia, Scandicci, Firenze,1995,pp.384, 388.
[30]  Giordani M. G., Disabili, tecnologie e mercato del lavoro, cit. pp. 22,23.
[31]  Fratini C., Handicap e marginalità sociale, in Ulivieri S. (a cura di), L’educazione e i marginali, La Nuova Italia, Firenze,1997, pp.121,122.
[32]  CFR. Trisciuzzi L., Manuale di didattica per l'handicap, Laterza, Roma-Bari, 2000, pp. 251 e ss.
[33]  Zelioli A., L'insegnante di sostegno, in Iniziative pedagogico-didattiche per l'inserimento scolastico degli handicappati,Ministero della Pubblica Istruzione, <<Atti del Seminario Nazionale>>, 1981, Arezzo
[34]  Sugli aspetti autobiografici e relazionali CFR. Trisciuzzi L., Zappaterra T., Bichi L., Tenersi Per Mano, University Press, Firenze, 2006
[35]  C.F.R Matteoli S., L’intervento del pedagogista clinico nelle difficoltà di apprendimento, edizioni junior, 2010, San Paolo (Bg)
[36]  C.F.R. Trisciuzzi L., Galanti M.A., Pedagogia e didattica speciale per insegnanti di sostegno e operatori della formazione, ETS, Pisa, 2001, pp. 193 e ss.
[37]  O.M.S.,ICF, Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Salute e della Disabilità, Erickson, Trento, 2002 
[38]  CFR. Ianes, D., La speciale normalità, Erickson, Trento, 2006.
[39]  Bonaiuti G., Calvani A., Ranieri M., Fondamenti di didattica, Carocci, Roma, 2007, pp. 138 e ss.
[40]  Per approfondimenti circa gli aspetti psicomotori, CFR.Trisciuzzi l., Zappaterra T., La psicomotricità tra biologia e didattica, ETS, Pisa, 2004
[41]  Per approfondimenti circa gli aspetti percettivi e grafomotori, Cfr. Trisciuzzi L., Cappellari G.P., Fondamenti di Psicopedagogia, La Nuova Italia, Firenze, 1996; oppure Cfr. Pratelli M, Disgrafia, Erickson, Trento, 1995
[42]  CFR. Brotini M, Le difficoltà di apprendimento, Del Cerro, Tirrenia (Pisa), 2000
[43]  CFR. Trisciuzzi L., La pedagogia clinica, Laterza, Roma, 2003, pp. 18 e ss.
[44]  CFR. Crispiani P., Giaconi C., Diogene 2008, Junior, Azzano S. Paolo (BG), 2008
[45]  Crispiani P., Giaconi C., Hermes 2008, Junior, Azzano S. Paolo (BG), 2007
[46]  Sugli aspetti relativi alle didattiche, pratiche di inclusione nelle disabilità e sugli orientamenti e strategie di intervento riguardanti le diverse sindromi, deficit e disturbi, CFR. Zappaterra T., Special needs a scuola, op. cit.
[47]  Sulla complessità della pedagogia e sulla non riducibilità di essa all’ istruzione e alla semplice trasmissione di saperi, Cfr. Cambi F. Manuale di filosofia dell’educazione, Laterza, Roma, 2000
[48]  Gennai M., Prolegomeni alla Pedagogia Generale, Bompiani, Milano, 2010, p. 63
[49]  CFR. Calvani C., I nuovi media nella scuola, Carocci, Roma, 2006; oppure CFR Devoti A. G., Educazione e Tecnologia, ETS, Pisa, 2003, oppure CFR.Trojani A., Hmultimedia, ETS, Pisa, 2007
[50]  CFR.  Erickson edizioni, Catalogo 2009/2010, Trento, 2009
[51]  Sugli aspetti più tecnici della valutazione, CFR. De Landsheere G., Introduzione alla ricerca in educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1996
[52]  Per motivi di privacy il nome del bambino è stato cambiato.
[53]  I seguenti dati sono stati ripresi  dalla diagnosi redatta dal medico e dall'equipe degli specialisti ed in seguito rielaborati.
[54]  Feldenkrais M., Conoscersi attraverso il movimento, Celuc Libri, Milano, 2004.
[55]  Picq L., Vayer P., Educazione Psicomotoria e Ritardo Mentale, Armando, Roma, 1977.
[56]  Alcuni aspetti organizzativi per la realizzazione della pratica psicomotoria sono stati ripresi da un importante testo. Cfr. Cavagnola R., Il centro socioeducativo, Erickson, Trento, 1994
[57]  CFR. Le Boulch J., Educare con il movimento, Armando, Roma, 2003
[58]  Bandinelli A.C., Innocenzi M., Magrini A., Prato G. (a cura di), L’insegnante di sostegno, Utet, Torino, 1993
[59]  Balboni B., Dispenza A., Educazione Fisica Scolastica, Il Capitello, Torino, 2002, pp. 34 e ss.
[60]  Sugli aspetti relativi all’integrazione e all’handicap, CFR.Canevaro A., Balzaretti C., Rigon R, Pedagogia Speciale dell’ Integrazione, La Nuova Italia, Firenze, 1999
[61]  Per approfondimenti circa il viaggio come metafora formativa,  Barsotti S., E cammina, cammina cammina…, ETS, Pisa, 2004, pp. 11 e ss.
[62]  Sul tema della formazione e dell’autorealizzazione, Sbisà A., Alice e Dioniso, Horus, Torino, 1994, pp.20 e ss.

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